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martedì 6 giugno 2017

PERCHÉ IL QATAR?, di Pier Francesco Zarcone

IN DUE LINGUE (Italiano, Inglese)

Donald Trump in Arabia Saudita, 21 maggio 2017 © Jonathan Ernst
L’improvvisa rottura dei rapporti diplomatici col Qatar annunciata il 5 giugno da Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Yemen innesca una crisi dagli esiti non facilmente prevedibili e rischia di essere un gran pasticcio tanto per chi l’ha voluta quanto per il più che probabile coprotagonista dietro le quinte: gli Stati Uniti.
Non è azzardato sostenere che questa situazione, esplosa a breve distanza dalla visita di Trump in Arabia Saudita, vada collegata proprio con questo viaggio. In tale occasione il presidente Usa ha assunto due posizioni solo formalmente contraddittorie, ma che nella sostanza rivelano l’esistenza di un preciso disegno di ulteriore destabilizzazione nell’area.
Da un lato egli si è prodotto in esternazioni contro il terrorismo jihadista, ma da un altro ha indicato nell’Iran il suo grande nemico. Quindi per un verso si è schierato con quella Arabia Saudita che ha diffuso nel mondo e alimentato il vero brodo di coltura di quel terrorismo, cioè il radicalismo islamico wahhabita, e per un altro se la prende con l’Iran che di quel terrorismo non è diffusore, non foss’altro perché il jihadismo è sunnita mentre lo Stato iraniano è sciita. L’Iran c’entra eccome nella crisi qatariota, ma non come unico fattore.
La questione è complessa e va in qualche modo inquadrata.
Nell’ottica di Trump si deve porre rimedio a due “errori” commessi dagli Stati Uniti nel Vicino Oriente: il primo consiste nell’abbattimento del regime di Saddam Husayn, con la conseguenza di aver permesso di acquisire potere alla maggioranza sciita irachena, estendendosì così l’influenza iraniana nella regione, ampliatasi poi con la crisi siriana; il secondo sta nello “sdoganamento” dell’Iran compiuto dall’amministrazione Obama con il raggiungimento di un accordo con Teheran sulla questione del nucleare. Il logico esito di ciò sta per Trump nel rafforzamento dei legami con Israele e l’Arabia Saudita.
Da questo punto di vista il Qatar diventava un obiettivo a motivo della sua politica ambigua e opportunista. Al vertice di Riyad del 20 e 21 maggio il governo di questo piccolo Stato non ha manifestato adesione ai programmi dei Sauditi - condivisi da Trump - e in più i media qatarioti hanno diffuso le infiammate dichiarazioni dell’emiro Tamim bin Hamad al-Thani contro le decisioni di quella riunione: vale a dire le linee contrarie all’Iran, alla Fratellanza Musulmana e al movimento palestinese Hamas, due organizzazioni che il Qatar sostiene e finanzia. A ciò si aggiunga che il Qatar mantiene ottimi rapporti politici e commerciali con l’Iran.
La mancanza di omogeneità religiosa e ideologica tra Doha e Teheran è del tutto irrilevante, sia perché le politiche orientali hanno logiche particolari - e infatti il Qatar è, non da ieri, notorio sostegno del jihadismo in Siria e Libia - sia perché gli interessi economici hanno il loro peso, e infatti il Qatar condivide con l’Iran anche lo sfruttamento di un ricchissimo giacimento di gas offshore, il South Pars/North Dome.
Già questo è sufficiente perché il Qatar non possa rompere le sue relazioni con Teheran: i due paesi traggono da quel giacimento oltre i due terzi della rispettiva produzione di gas.
Contemporaneamente il Qatar ospita la sede del quartier generale statunitense nel Vicino Oriente, il Centcom, in cui sono di stanza almeno 10.000 militari.
La politica araba è a volte doppia, a volte tripla.
Nella situazione attuale la posizione eccentrica del Qatar rispetto agli interessi politici degli altri paesi della Penisola arabica non poteva restare senza conseguenze: in Siria e in Iraq, infatti, i jihadisti sono prossimi alla sconfitta, e le monarchie arabe si sono affrettate a “riposizionarsi”, allineandosi agli Stati Uniti come se non avessero mai appoggiato il radicalismo jihadista e riscuotendo il prezzo del voltafaccia in pingui aiuti militari Usa. Il Qatar invece insiste nel voler giocare in proprio.
È sempre difficile all’inizio di una crisi internazionale escludere oppure no che alla fine la parola passi alle armi, e per il momento si può solo prendere atto come la nota emittente televisiva qatariota Al Jazeera abbia modificato il linguaggio riguardo alla Siria, parlando per la prima volta di «esercito governativo» o «esercito siriano» a proposito delle truppe di Assad, finora definite «truppe del regime»; inoltre, a motivo dell’avvenuta chiusura dell’unico confine terrestre (quello con l’Arabia Saudita), a Doha viene ventilata l’ipotesi - più che probabile - di aumentare i commerci via mare con l’Iran.
Tuttavia non è affatto scontato che il Qatar entri a far parte del blocco iraniano: il farlo significherebbe anzi, con tutta probabilità, la guerra.
Iran a parte, la contrapposizione fra Arabia Saudita e Qatar non ha nulla a che fare con l’ideologia religiosa, trattandosi di due Stati wahhabiti. Il contrasto è politico e personale, e ha radici lontane: già nel 1995, quando in Qatar il padre dell’attuale emiro prese il potere con un colpo di Stato, l’Arabia Saudita arrivò a chiedere all’Egitto di Mubarak un intervento militare contro l’usurpatore, senza però ottenerlo.
Quando poi in Egitto al-Sisi rovesciò il presidente Morsi col sostegno saudita, si ebbe una breve sospensione dei rapporti diplomatici fra Riyad e Doha, che invece sosteneva i Fratelli Musulmani. L’appoggio qatariota a quest’ultima organizzazione non è mai cessato ed essa, per quanto non definibile ostile a priori al Wahhabismo, è però acerrima nemica politica della monarchia saudita - oltre che degli attuali regimi egiziano e siriano.
In più l’Arabia Saudita accusa da tempo il Qatar di fornire sostegno attivo alle minoranze sciite nei territori di Riyad e nel Bahrein, e questo getta ombre pericolose sullo Yemen, in cui i Sauditi si sono impantanati in una guerra contro i ribelli Houthi (sciiti), conflitto che finora non sono riusciti a vincere neanche con l’aiuto statunitense.
In definitiva, quella che doveva essere la “Nato araba” voluta da Washington è morta prima ancora di nascere, e la conseguenza potrebbe essere una grande instabilità in tutto il Golfo Persico. Trump ha voluto giocare una carta pericolosa e non ci sarà da stupirsi se ancora una volta i malaccorti tentativi statunitensi di destabilizzazione andranno a loro sfavore.
Soprattutto se fosse vero che Trump punta a uno scontro militare con l’Iran.

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