La vittoria elettorale di Donald Trump ha suscitato notevole clamore, quasi fosse destinato a diventare un novello Ronald Reagan. Certamente, la conquista della presidenza e delle due camere da parte di repubblicani radicalizzati verso destra è cosa che promette male per i lavoratori, i comuni cittadini statunitensi e gli immigrati. Non a caso Trump ha ricevuto sincere congratulazioni dalla destra pseudopopulista europea: da Marine Le Pen e dal padre, dall'ungherese Viktor Orbán, dall'austriaco Heinz-Christian Strache, l'olandese Geert Wilders, dal britannico Farage, dagli italiani Matteo Salvini, Roberto Fiore (Forza Nuova), via via fino a Putin, il caso più significativo. Non che nella postdemocrazia europea socialiberisti tipo Hollande o Renzi promettano chissà cosa…
Tuttavia, per le ragioni che seguono, non ritengo che il successo di Trump, in realtà un insuccesso di Hillary Clinton, costituisca una svolta per l'opinione pubblica statunitense, di sicuro non nel senso di una rivolta indirizzata a destra e in senso xenofobo dei forgotten men and women – un'allusione che evita termini sgradevoli come working class o working poor o unemployed. La questione cruciale - tanto più con le tendenze elettorali della postdemocrazia - è che la ripartizione dei voti validi è determinante ai fini istituzionali e del governo ma può non essere significativa per comprendere lo stato d'animo di un popolo in quel determinato momento o delle tendenze profonde e delle motivazioni1. Ed è questo che mi interessa ora. Per questo, però, occorre andare oltre il fuoco d'artificio del dato istantaneo e aggregato sui voti validi, altrimenti si resta abbagliati dallo spettacolo pirotecnico. E Trump in questo è stato bravo, come Berlusconi a suo tempo.
Diamo i numeri: ha vinto chi ha perso meno
La prima considerazione da fare è che Trump non ha vinto con il consenso del 47,7% degli elettori statunitensi, ma dei votanti. Questa è una percentuale calcolata sui voti validi, non sul totale degli elettori, o meglio sul totale della voting-eligible population (Vep), l'insieme di coloro - maggiori di 18 anni - che hanno diritto di voto, a sua volta da distinguere dalla voting-age population (Vap), popolazione in età di voto di cui una parte non è registrata o è stata privata del diritto di voto a causa di condanne penali. Ebbene, calcolato sul totale degli elettori (Vep) di 231.556.622, il consenso per Trump è al 25,8%, quello per Clinton al 25,9%. Nel 2008 Obama ottenne il 32% del consenso sul totale degli elettori, il 52,9% dei voti validi.
Il motivo è ovvio - benché puntualmente trascurato - ed è l'alto tasso di astensione dal voto: 99,8 milioni di persone. È fatto arcinoto che il drastico declino della partecipazione elettorale negli Stati Uniti avvenne durante la cosiddetta Progressive Era, tra la fine del XIX e i primi due decenni del XX secolo, riducendosi da circa l'80% al 50-60% per le elezioni presidenziali e al 40-50% per le legislative. Questi sono dati stabili oramai da un secolo, per cui il punto veramente interessante è: come si colloca nella serie storica la partecipazione a queste elezioni?
Nel secondo dopoguerra la partecipazione elettorale raggiunse il massimo del 64% nelle presidenziali del 1960 - quelle vinte da JFK, un record ineguagliato dal 1908 - cadde di 6 punti di percentuale tra le elezioni del 1968 e del 1972, iniziando una tendenza al calo interrotta dal primo successo di Reagan nel 1980 e in modo più significativo dalle presidenziali del 1992 – le prime vinte da Bill Clinton, partecipazione al 58%2. Nel 1996 Clinton venne rieletto, ma la partecipazione cadde al minimo storico dal 1948 (o dal 1836): sotto il 52%. Nelle successive tornate elettorali per la presidenza - quelle vinte da Bush Jr. - la tendenza fu alla crescita, specialmente tra il 2000 e il 2004: dal 54% al 60% (ma nel 2000 Bush ottenne la presidenza solo grazie al particolare sistema di elezione indiretta, perché nel voto popolare Gore era in vantaggio di mezzo milione di voti). La prima vittoria di Barack Obama nel 2008 vide solo un modesto aumento della partecipazione - al 61,6%, il tasso più alto dal 1972 - ma la seconda vittoria, nel 2012, si verificò in concomitanza di un calo di 3 punti, al 58,6%, pari a 129 milioni di votanti. Ebbene, la partecipazione alle elezioni presidenziali del 2016 è ulteriormente calata al 56,8%. Questo perché quasi 9 milioni di americani si sono astenuti dal voto relativamente alle presidenziali del 2008 e 6 milioni rispetto a quelle del 20123.
Fonte: United States Elections Project |
Fonte: United States Elections Project |
Nel 2000 Bush Jr. ottenne 11 milioni di voti in più del suo collega di partito Robert Dole nel 1996, o 3 milioni se si contano tutti i votanti per l'indipendente Ross Perot fra gli elettori di tendenza repubblicana; nel 2004 lo stesso Bush Jr. ottenne 11,5 milioni di voti in più sul suo risultato precedente: si assicurò la presidenza con 62 milioni di voti, contro i 59 di John Kerry, che pure aumentò di 8 milioni il voto democratico sul 20004.
Nel 2008 Obama portò il voto democratico a 69,4 milioni, aumentandolo di 7 milioni; il candidato repubblicano McCain perse invece 2,1 milioni di voti, sempre sul risultato del partito nel 2004. Tuttavia, pur vincendola con il consenso di 65,8 milioni di elettori, nella successiva gara elettorale Obama perse 3,6 milioni di voti, mentre il repubblicano Mitt Romney guadagnò 1 milione su McCain.
A loro modo, sia Bush Jr. nel 2004 che Obama nel 2008 conseguirono notevoli successi elettorali. Lo stesso non può dirsi per Donald Trump nel 2016: ha vinto con 59,7 milioni di voti, perdendone 1,1 sui suffragi espressi per Romney nel 2012, 200.000 su McCain nel 2008 e 2,3 milioni su Bush Jr. nel 2004. Il punto è che Hillary Clinton ha fatto anche peggio: votata da 60 milioni di americani, relativamente ai risultati di Obama nel 2012 e nel 2008 ha perso 5,4 e quasi 9 milioni di voti.
Quali cittadini e cittadine hanno votato per quale candidato?
Prima del voto e anche dopo, l'elettore tipo di Trump è per lo più presentato come un maschio bianco della working class, impoverito, spaventato, con un basso livello di istruzione.
In effetti, per Trump ha votato il 58% degli elettori/elettrici bianchi non «ispanici» e il 53% dei maschi, mentre per Hillary Clinton le percentuali sono il 37% per gli elettori/elettrici bianchi e il 54% delle donne (quest'ultima una quota abbastanza alta, ma inferiore al voto femminile per Obama, 55% e 56%).
Non si tratta però di un fatto qualitativamente nuovo, al contrario.
Tra gli elettori bianchi il Partito repubblicano ha da molto tempo un forte vantaggio su quello Democratico5. Nel 1980 il repubblicano Reagan venne eletto con il sostegno del 56% dei voti dei bianchi, di cui Carter ottenne il 36%: quasi le percentuali di Trump e Hillary Clinton. Addirittura, nel 1992 Clinton vinse con solo il 39% del voto dei bianchi, maschi e femmine, mentre Bush Sr. estrasse da questi il 41% e Ross Perot il resto. Bush Jr. ottenne il 55% e il 58% del voto bianco. Contro Obama, nel 2008 John McCain ebbe il 55% del voto dei bianchi e nel 2012 Mitt Romney il 59%, a quanto pare un punto di percentuale in più di Trump. Insomma, è da quasi quarant'anni che nell'elettorato di bianchi/bianche i candidati repubblicani hanno un vantaggio di almeno 20 punti di percentuale su quelli democratici e il risultato di Trump non ha nulla di straordinario.
Il fatto è che gli Stati Uniti sono un paese realmente multietnico, formatosi attraverso un flusso tuttora ininterrotto di immigrati: i cittadini etnicamente bianchi erano l'85% nel 1960, ma il 63% nel 2011, e si prevede - o si paventa, l'appello nativista è una realtà - che potrebbero scendere sotto il 50% entro la metà del secolo; in modo quasi parallelo, la quota di elettorato etnicamente bianco era pari all'88% del totale nel 1976, nel 2012 era il 72%. Tra gli afroamericani il vantaggio del Partito democratico sul Repubblicano rimane schiacciante, intorno agli 80 punti di percentuale. Comprensibilmente, Obama ottenne il massimo consenso fra i votanti afroamericani (95% e 93%), ma i risultati di Hillary Clinton sono in linea - o leggermente superiori - con i precedenti storici; ha ottenuto anche una forte maggioranza fra «ispanici» e «asiatici».
Guardando l'età, Hillary Clinton ha riscosso un netto vantaggio fra i più giovani, il 55% contro il
37%; il rapporto invece si inverte nelle fasce di età sopra i 45 anni, 53% per Trump contro il 44%. Tuttavia, la percentuale di Clinton nella fascia dei più giovani è inferiore di 5 punti di percentuale a quella di Obama del 2012. Scomponendo il voto, la candidata democratica ha avuto l'83% del voto dei giovani afroamericani (Trump il 9%) e il 70% del voto dei giovani latinos; Trump ha invece avuto la maggioranza tra i bianchi giovani, 48% contro il 43%.
Il grado d'istruzione è un indicatore molto rozzo della condizione sociale ed è quello più presente nei commenti. Il dato forte delle elezioni del 2016 è la forbice della distribuzione del voto in base all'istruzione: sul totale dei votanti, quelli con istruzione pari o inferiore al college hanno preferito decisamente Trump (52% a 44%) e viceversa (52%-43%). Se poi si considerano solo i votanti bianchi, il vantaggio di Trump su Hillary Clinton sale a ben 39 punti di percentuale tra coloro che hanno il livello d'istruzione inferiore: il 67% contro il 28%. In passato i due gruppi si erano mossi grosso modo nella stessa direzione. Il successo di Trump tra gli elettori bianchi meno istruiti non ha precedenti, tuttavia un forte stacco si era già manifestato con Reagan e poi la tendenza alla crescita del voto repubblicano in questo gruppo è stata continua a partire dal 2000, interrotta solo da Obama nel 2008. E comunque Trump ha vinto anche tra gli elettori bianchi più istruiti: il 49% contro il 45% di Clinton.
Se poi si guarda alle fasce di reddito - un indicatore più preciso - si nota che tra il 1992 e il 2008 il Partito repubblicano tendeva già a guadagnare nelle classi di reddito inferiore a 30.000 dollari, specialmente nella classe inferiore ai 15.000 dollari nel 1996 (+6 pp. di percentuale) e nel 2000 (+9 pp. di percentuale) e in quella fino a 29.999 dollari nel 2000 (+5 pp. di percentuale), mantenendo il risultato nel 2004. Questa tendenza pare interrotta solo da Obama nel 2008. Il dato del 2012 aggrega le tre classi di reddito fino a 49.999 dollari, con una percentuale di consenso per il repubblicano Romney del 35%, a fronte della media delle fasce inferiori pari al 38% nel 2008. Invece, il Partito democratico ha mostrato una tendenza alla crescita del consenso nelle fasce di reddito più alte: tra i 75.000-99.999 dollari nel 1996 (+9 pp. di percentuale, con stabilizzazione) e nel 2008 (+6 pp. di percentuale); e oltre i 100.000 dollari nel 2000 (+4 pp. di percentuale) e nel 2008 (+8 pp. di percentuale). Clinton non figura male tra i ricchissimi.
Fonti: iPOLL database of the Roper Center, Cornell University; «Election 2016: Exit Polls», nytimes.com, NOV. 8, 2016 Nel 2012 e 2016 alcune fasce di reddito sono state aggregate. Nel 2012 le fasce erano: <$50.000; $50.000-90.000; $100.000 & over. Nel 2016: under $30.000; $30.000-49.999; $50.000-99.999; $100.000-199.999; $200.000-249.999; $250.000 or more. Non ho riportato quest'ultima: 46% per Clinton, 48% per Trump. |
Valutazione dei risultati
L'editoriale di Mariuccia Ciotta su il manifesto del 6 novembre 2008 resta per me un esilarante capolavoro di apologetica fantapolitica che mi piace ora ricordare come monito:
«L'antidoto alla stagione di Bush si è materializzato nell'esponente di un'umanità cangiante, improponibile fino a poco tempo fa, Barack è andato oltre l'appartenenza di genere, irriconducibile perfino alla sua stessa etnia, oltre il suo stesso moderatismo. La scommessa ora è che si apra una stagione di lotte [segue elenco] e che non si guardi a Obama come un messia da incorniciare. "Non io - ha sempre detto - ma voi siete gli agenti del cambiamento". Ed è perciò che salutiamo Barack Obama con un sospiro di sollievo che mai come questa volta attraversa gli oceani».
Per quanto mi riguarda, apprendere alcuni mesi prima delle elezioni che Obama aveva tra i suoi consiglieri l'ex presidente della Federal Reserve Paul Volcker - l'artefice della svolta «monetarista» alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, del rialzo del tasso d'interesse sul dollaro e della conseguente crisi del debito per i Pvs e gli Stati «socialisti», che prima o poi sarebbe comunque emersa, e del balzo verso l'alto della disoccupazione nei paesi più avanzati, Usa compresi - mi chiarì inequivocabilmente come stavano le cose; e del resto Obama riportò in auge tutta la bella squadra protagonista della deregulation del sistema finanziario con Clinton, il Presidente sotto il quale Wall Street visse una vera epoca d'oro6.
Possiamo dire che Trump sia l'antidoto alla stagione di Obama e strapparci le vesti invece che tirare un sospiro di sollievo?
Non c'è dubbio, considerando il personaggio, che nel voto per Trump si esprimano anche il nativismo, il razzismo e il maschilismo più beceri. Tuttavia, così come la vittoria - in sé un fatto straordinario nella storia delle presidenziali statunitensi - del «profeta» afroamericano Obama non cancellò razzismo e maschilismo nel 2008, non si può dire che nel 2016 la vittoria del miliardario wasp Trump esprima una loro massiccia crescita. Guardando i numeri si potrebbe addirittura pensare che quelle attitudini siano in riduzione; ma è meglio non farsi illusioni.
Trump ha avuto contro buona parte dei potenti del Partito repubblicano, a partire da Paul Ryan, presidente della Camera dei rappresentanti, e l'ex candidato Romney (per cui Trump era a fraud). Il fatto che abbia vinto la nomination è significativo della radicalizzazione della base militante repubblicana, diretta contro il suo stesso establishment, o almeno verso la parte centrista di questo.
Resta il fatto che dovendo scegliere tra la peste e il colera - per così dire - altri milioni di americani e americane hanno razionalmente scelto di astenersi. Misura certamente non sufficiente, ma necessaria come forma di igiene politica: non hanno ceduto al ricatto del meno peggio.
Ricordiamo la favola raccontata per quasi vent'anni dalla sinistra italiana: che si stesse formando o fosse già nato uno specifico «regime berlusconiano». Quando invece il vero problema era la sostanziale convergenza tra i due schieramenti e i disastri «neoliberisti» fatti dal centrosinistra negli anni di governo, sostenuto sia a livello nazionale che locale dalla cosiddetta «sinistra radicale», verde e variamente comunista, in nome del meno peggio. Ma a questa logica al peggio è difficile por fine, per cui se ne scontano tutte le conseguenze, come è giusto che sia. Negli Stati Uniti si è verificato un fenomeno analogo: nel senso che il Partito democratico si è dimostrato assolutamente incapace - o meglio: nell'insieme assolutamente non desideroso - di far rivivere in qualche modo il blocco elettorale del New Deal, già compromesso negli anni Settanta del secolo scorso dalla crescita della disoccupazione, dai fenomeni di trasformazione socioeconomica e dall'attacco alla sindacalizzazione. Sulla bara di quel blocco Reagan mise i chiodi e nessuno li ha più tolti. Il Partito democratico non ha voluto neanche creare un nuovo blocco social-elettorale che si potesse dire la versione contemporanea del New Deal. Ad ogni spostamento verso destra del Grand Old Party anche i democratici sono andati a destra. Il successo di Obama fu dovuto all'aspettativa che questi potesse farlo, illusione che si è persa per strada ed è del tutto svanita con la nomination di Hillary Clinton, personaggio assimilabile a una «reaganiana democratica». I voti che Clinton ha perso sono la reazione a questo dato di fatto, a un fallimento storico che porta il nome suo ma anche quello di Barack Obama, presidente uscente. Un fallimento che si era già annunciato con le elezioni legislative di midterm e la scelta di molti governatori degli Stati. Nonostante la generosità di chi ha sostenuto Bernie Sanders e i suoi buoni nella corsa alla nomination, non pare che nel Partito democratico esista spazio per una prospettiva newdealista o vagamente socialdemocratica. Non allo stato attuale della lotta fra le classi.
Tasso di sindacalizzazione negli USA, settori privato e pubblico, 1983-2015
Fonte: United States Department of Labor - Bureau of Labor Statistics |
Quanto alla politica estera, bisogna essere inguaribili fans putiniani e campisti russocentrici per prendere sul serio e valutare positivamente le dichiarazioni sul tema di Trump. Una presidenza Usa «isolazionista», semplicemente, non è una possibilità che può darsi nel mondo reale; quel che può darsi è invece un grado minore o maggiore di unilateralismo, ed è questo che sembra promettere Trump. A proposito, mi permetto una concessione all'idiotismo complottistico in voga: un ipotetico Presidente che possa dirsi effettivamente isolazionista - che si disinteressasse del resto del mondo - verrebbe rimosso in qualche modo. La decisione più concretamente probabile di Trump potrebbe essere un indurimento della politica commerciale verso la Cina, problema che non è una novità. D'altra parte, la Cina ha assolutamente bisogno di continuare a esportare negli Stati Uniti, necessità di rilievo molto superiore ai rapporti commerciali e agli accordi con la Russia sull'energia che, in fin dei conti, sono strumentali proprio all'esportazione verso l'«occidente», non per un blocco politico «eurasiatico» alternativo. Forse i rapporti fra Stati Uniti e Russia potrebbero tornare ai tempi della pragmatica cooperazione fra Putin e Bush, ma è un grosso forse, perché i contrasti d'interesse tra le due maggiori potenze militari mondiali - il confronto sulla potenza economica è ridicolo - in fondo possono attenuarsi, non sparire.
Direi che la politica estera di Trump potrebbe stare a quella che avrebbe praticato Hillary Clinton come quella del di lei marito Bill alla politica di Bush Jr. Bill Clinton rilanciò interventismo militare statunitense e Nato sotto la parvenza dell'umanitarismo; Bush Jr. iniziò disastri che sono ancora cronaca corrente. Non pare che l'intelligenza politica di Trump sia superiore a quella già modesta di Bush le petit.
1 Mi permetto di rimandare al mio Capitalismo e postdemocrazia. Economia e politica nella crisi sistemica, Massari ed., Bolsena 2012.
2 I dati sono ripresi dal sito, spesso utilizzato, United States Elections Project. Si veda anche «Election 2016: exit polls», The New York Times, 8 novembre 2016.
Più specifico sul voto giovanile: «Young people reject Trump, but older voters propel him to unexpected victory», civicyouth.org, 9 novembre 2016.
3 Dati dell'American Presidency Project.
4 Ibidem.
5 I dati che seguono sono ripresi dal sito del Pew Research Center; si veda anche l'iPOLL database of the Roper Center, Cornell University.
6 Sulla Clintonomics e il primo Bush Jr. si veda ad es. Robert Pollin, Contours of descent: U.S. economic fractures and the landscape of global austerity, Verso, London/New York 2005 (2ª ed. aggiornata); sulla finanza in quegli anni: Doug Henwood, Wall Street: how it works and for whom, Verso, London 1998. Su Obama: Tariq Ali, The Obama syndrome, Verso, London/New York 2010 [Sindrome Obama, Dalai, Milano 2012]. Su Hillary Clinton, pure di Doug Henwood, decisamente distruttivo a tutti i livelli: My turn: Hillary Clinton targets the presidency, OR Books, New York/London 2016.
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