Non ho dubbi: se c'era un premio Nobel da dare l'avrei senz'altro conferito a un più completo (nel senso della letteratura e della poesia) Leonard Cohen, poeta e scrittore di talento - a differenza di Bob Dylan - cantante acclamato da più generazioni; schivo e solitario, perennemente inquieto e insoddisfatto, ma non per questo disdegnoso del confronto coi media.
Di Cohen Fabrizio De André disse: «Lui è il maestro. Tutti noi siamo partiti da lì».
Ed ecco come tutto cominciò: «È stato Lorca a commettere il terribile crimine contro natura, spingendomi verso la letteratura. Avevo quindici anni quando mi accostai alla sua opera. I primi versi che lessi furono:
Sotto l'arco di Elvira
voglio vederti passare
per conoscere il tuo nome
e iniziare a piangere.
Quella frase distrusse la mia vita. Compresi che la mia esistenza sarebbe stata uno sforzo continuo per scrivere, un giorno, una frase come quella».
Un personaggio enigmatico e poliedrico, dunque, e non poco contraddittorio. Leonard Cohen, ebreo canadese, eterno girovago, ha comunque saputo proporre in lunghi anni di attività artistica una disamina lucida e rigorosa dei moderni scandagli intellettuali dell'io. Un io rabbioso e dolente, annegato nella precarietà del quotidiano ma costantemente assetato di certezze intangibili; un io stanco e deluso, ma sempre alla ricerca di quei miti sopravvissuti alla catastrofe dello scetticismo - dove il sacro si affaccia nei sensi e nell'estasi del bello. Cohen ha offerto nei libri e nelle canzoni la continuità di un'indagine ansiosa e sfaccettata, mai gratuita o formalistica, delle inquietudini sotterranee di una critica modernità. Forse il suo contributo maggiore resta quel disperato tentativo, già presente nei suoi primi lavori e poi sempre approfondito, di riconoscere nell'apparenza dei sensi i segni di una rivelazione divina, di un ordine superiore; di rivestire d'eterno ciò che ha tutti i caratteri del transitorio. Le tematiche sono più attuali che mai, Cohen continua a distinguersi con uno stile personalissimo e intransigente, intriso e di «retorica biblica» e di «slang quotidiano, un miscuglio di realismo e surrealismo in cui si rincorrono i motivi della morte-sensualità, violenza-erotismo, bellezza-sangue». (A. Lorenzin). I temi di Cohen sono universali, assoluti: religione, morte, amore, sesso, mito - in un orizzonte culturale più europeo che americano. Cohen non è mai stato un idolo della moltitudine (a differenza di Dylan), non ha mai urlato dai palcoscenici, si è concesso poco ai nuovi veicoli di comunicazione. La sua poesia discreta e misurata resta, letta o ascoltata, la parola del vocabolo; il gioco dei sottintesi e delle pause assume un rilievo che conferisce al testo una sorta di comunicazione diretta, immediata, non discorsiva, quasi sacrale. L'arte diventa una sottile alchimia che trasforma la sconfitta - l'unica vera esperienza dell'essere umano - dice Cohen - in orazione, la degradazione in ascesi, il disordine in ordine.
In un'intervista disse: «Un artista lavora sul caos e sulla disperazione per estrarre una forma, un senso, come Dio quando fece il mondo, appunto il caos»… e ancora: «Ogni teoria che abbia come punto di partenza il riconoscimento della bellezza attraverso il caos e la desolazione è per me puro chiacchiericcio culturale».
Nell'arco di tempo che va dal '68 ad oggi la poetica di Cohen presenta differenze sia formali che contenutistiche, un graduale trapasso da temi e soggetti di rassegnate inquietudini a esplosioni beffarde e sarcastiche, talvolta amarissime, che investono un mondo sempre più vuoto e dove la stessa presenza dell'io creatore viene ridicolizzata e messa in discussione.
Restare in ascolto, questo vuol dirci Cohen: «Sono vuoto, ma accolgo. Non sono diventato più saggio. Sono solo come sulla cima di una collina: vedo il lato da cui sono venuto, ma vedo anche l'altro versante».
Struggente il commiato che prese pochi mesi fa dalla sua compagna, Marianne, nell'ultima lettera che le scrisse dopo aver saputo della malattia di lei:
«Marianne, siamo arrivati a quel punto della vita in cui siamo vecchi e i nostri corpi si sgretolano. Penso che ti seguirò molto presto. Sappi che ti sono così vicino che se tendi una mano puoi raggiungere la mia. Ti ho sempre amata per la tua bellezza e per la tua saggezza. Ma so che non devo dire più nulla a tal proposito, perché sai già tutto. Voglio solo augurarti buon viaggio. Arrivederci vecchia amica. Amore infinito. Ci vediamo lungo la strada».
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