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giovedì 1 settembre 2016

77 ANNI DA QUANDO HITLER E STALIN ALLEATI DIEDERO INIZIO ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE: ATTUALITÀ POLITICA E PROBLEMI STORIOGRAFICI E TEORICI DEL PATTO NAZI-SOVIETICO, di Michele Nobile

Nella notte del 23 agosto 1939 la Germania nazista e l'Unione Sovietica firmarono un Patto di non aggressione con il quale
«Le due parti contraenti s'impegnano ad astenersi da ogni atto di violenza, da ogni atteggiamento aggressivo e da ogni attacco contro l'altra parte, e questo sia da sole sia assieme ad altre potenze»1.
Così, nell'imminenza dell'aggressione nazista alla Polonia, Stalin si impegnò per dieci anni a intrattenere relazioni pacifiche e amichevoli con il Terzo Reich. Noto come patto Molotov-Ribbentrop, preferisco indicare il trattato del 23 agosto 1939 fra Germania e Unione Sovietica come patto fra Hitler e Stalin, perché questa denominazione rende meglio la sostanza dell'accordo e ben altra è la risonanza emotiva e politica suscitata dall'associazione di quei due nomi.
Al patto era allegato un Protocollo segreto. Nel poscritto alla bozza di trattato di non aggressione trasmessa il 19 agosto da Vjačeslav Michajlovič Molotov - presidente del governo sovietico, il Sovnarkom, e ministro degli Esteri – all'ambasciatore tedesco Friedrich-Werner von der Schulenburg, si specificava che il trattato sarebbe entrato in vigore «soltanto con la firma simultanea di un Protocollo speciale, includente i punti d'interesse delle parti contraenti nell'ambito della politica estera. Il Protocollo sarà parte integrante del Patto»2.
Il poscritto di Molotov fornisce l'interpretazione autentica dell'accordo con Hitler: Protocollo e Patto sono inseparabili. È importantissimo prendere nota di questo fatto perché quella della separabilità o meno del Patto e del Protocollo è ancora oggi questione politicamente scottante. L'affermazione di Molotov è pure indispensabile per comprendere il motivo che spinse Stalin ad accordarsi con Hitler e per stabilire quando venne presa questa decisione a Mosca.
Il Protocollo è inseparabile dal Patto perché ne fu la condizione e la sostanza: fu la disponibilità nazista a concordare con la dirigenza sovietica le sfere d'interesse tra Polonia e Baltico e fino al Mar Nero che convinse Stalin a firmare un patto di non-aggressione con Hitler. Il primo articolo del Protocollo segreto recita infatti che
«Nel caso di una nuova sistemazione politico-territoriale nell'area degli Stati baltici (Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania), il confine settentrionale della Lituania segnerà il limite tra la sfera d'influenza della Germania e quella dell'Urss; col che le due parti riconosceranno che il territorio di Vilna rientra nella sfera d'interesse della Lituania».
Il secondo articolo stabilì che «nel caso di una nuova sistemazione politico-territoriale nell'area dello Stato polacco, le sfere d'influenza della Germania e dell'Urss saranno definite all'incirca dalla linea dei fiumi Narew, Vistola e San». Le parti contraenti decisero di rimandare al corso «degli ulteriori sviluppi politici» il problema del «mantenimento di uno Stato polacco indipendente». Infine, l'Unione Sovietica faceva presente di avere interessi in Bessarabia e la Germania dichiarava di non avere alcun interesse politico in questa zona»3.
A questo Patto seguì il 28 settembre - a guerra mondiale iniziata e Polonia distrutta - la firma del trattato tedesco-sovietico di amicizia e delle frontiere, con altri documenti segreti allegati4. L'accordo fra Terzo Reich e Unione Sovietica provocò una crisi politica in Giappone, che il 30 agosto portò alla caduta del governo di Hiranuma Kiichirō; nell'aprile 1941 venne firmato il trattato di non-aggressione nippo-sovietico, rotto dall'Urss soltanto il 9 agosto 1945.
Dunque Stalin venne a patti con Hitler invece che con le potenze liberali perché il dittatore della Germania gli offrì ciò che Francia e Gran Bretagna non potevano dargli: la costruzione di una sfera d'interesse sovietica comprendente Finlandia, Estonia, Lettonia e Polonia, poi ampliata con l'inclusione della Lituania. Sorge quindi la domanda: in qual modo sarebbe stata realizzata? Formalmente, nel Patto non erano previsti accordi militari, ma nell'agosto 1939 era ovvio che per Hitler «una nuova sistemazione politico-territoriale» della Polonia dovesse darsi attraverso la guerra. Stalin poteva lasciare l'iniziativa a Hitler e intervenire in un secondo momento, secondo le circostanze determinate sui campi di battaglia della Polonia. Questa motivazione e l'analisi dei negoziati che tra maggio e agosto 1939 l'Urss svolse in modo parallelo con Francia e Gran Bretagna, da una parte, e il Terzo Reich, dall'altra, permette anche di comprendere quando a Mosca venne presa la decisione di fare il Patto con Hitler: non oltre la metà del luglio 1939. Perché? Si consideri che nell'incontro del 17 luglio con gli ambasciatori francese e britannico, con cui stava negoziando il trattato di mutua difesa, in pratica un'alleanza antinazista, Molotov lasciò cadere il problema della definizione dell'aggressione indiretta a paesi terzi, malgrado avesse a lungo insistito che si trattava di questione imprescindibile, e pretese che iniziassero subito i colloqui tra gli esperti per redigere una convenzione militare, prima che si formalizzasse l'accordo politico. Si trattava di una richiesta sorprendente, di una procedura diplomatica così insolita da indurre britannici e francesi a pensare che Stalin intendesse ottenere attraverso i colloqui tra gli esperti militari ciò che non gli riusciva nella discussione con i rappresentanti politici. Comunque i governi di Francia e Gran Bretagna acconsentirono alla richiesta, come già avevano ceduto su tutte le richieste sovietiche, tranne che sulla definitiva redazione della clausola circa l'aggressione indiretta. Intanto i colloqui con i nazisti, ripresi ad aprile e intensificatisi dai primi di maggio, ebbero come primo risultato l'inizio - il 21 luglio - dei negoziati per l'accordo economico fra Terzo Reich e Unione Sovietica. Questa era già una decisione politica, che entrambe le parti sapevano essere un preliminare per il più ampio accordo strategico. Ovviamente era stata presa giorni prima, con ogni probabilità prima della sorprendente richiesta di Molotov del 17.
Nell'estate del 1939 Stalin era decisivo per il rapporto di forza tra la Gran Bretagna, la Francia e il Terzo Reich. Per questa ragione, per mesi fu in grado di giocare le sue carte su due tavoli, aspettando di vedere quale delle parti gli avrebbe offerto le condizioni più vantaggiose. Il suo atteggiamento non fu passivo: sapeva che lo scorrere dei giorni avvicinava sempre più una crisi internazionale che, probabilmente, sarebbe sfociata in una grande guerra europea e che il passar del tempo rafforzava la sua posizione, consentendogli di dirigere la partita su entrambi i tavoli negoziali. A metà luglio aveva preso la sua decisione, mantenendola nascosta agli altri giocatori. Doveva solo curarsi di concretizzarla in modo da mantenere fino all'ultimo Hitler sulle spine - per estrarre, come fu, le migliori condizioni per estendere il suo potere su altri popoli. Per quanto riguarda l'antifascismo internazionale, doveva fare in modo da far apparire i governi di Francia e Gran Bretagna come responsabili del fallimento di una grande alleanza antinazista. Cosa non difficile, viste le loro responsabilità nell'appeasement; ma Stalin iniziò a orientarsi verso Hitler proprio quando la posizione di quei governi era cambiata. Tuttavia, sarebbe stato politicamente pericoloso mandare in frantumi la possibilità di una grande alleanza antinazista cavillando sulla definizione dell'aggressione indiretta. Stalin avrebbe così prestato il fianco all'accusa di volersi intromettere, con la scusa della sicurezza, negli affari interni dei paesi vicini, anteponendo l'obiettivo di delineare una sfera d'interesse sovietica rispetto a quello della lotta all'espansionismo nazista. Più opportuno era invece porre durante i colloqui militari un problema che facesse apparire in malafede i governi di Daladier e Chamberlain, come se non fossero veramente intenzionati a stipulare un'efficace alleanza militare per contrastare Hitler e che, anzi, in preda all'anticomunismo, intendessero tendere una trappola all'Urss con l'intento di distruggerla, spingendola verso la guerra con la Germania. Quel problema fu la richiesta che Francia e Gran Bretagna ottenessero dalla Polonia l'autorizzazione all'ingresso di truppe sovietiche in caso di guerra con la Germania. La risposta negativa del governo polacco era scontata, la sua posizione sulla questione nota da mesi. Ciò che si comprende dall'analisi delle trattative parallele è confermato da un documento emerso dagli archivi: che il copione dei colloqui militari era stato fornito da Stalin a Kliment Vorošilov, maresciallo dell'Unione Sovietica e commissario del popolo alla Difesa, già il 7 agosto, prima dell'arrivo delle delegazioni militari occidentali a Mosca. La rottura del negoziato per l'alleanza antinazista con le potenze liberali fu la conseguenza e non la causa dell'accordo con il Terzo Reich.
Questo è il testo integrale delle direttive impartite da Stalin a Vorošilov:

«1. Accordo di entrambe le parti sul segreto.
2. Primo, presentare i nostri pieni poteri per condurre i negoziati, poi chiedere ai capi della delegazione anglo-francese se anche loro dispongono dei pieni poteri [delegati] da parte dei loro governi per firmare una convenzione militare con l'Urss.
3. Se non hanno i pieni poteri, mostrare sorpresa, alzare le mani e "rispettosamente" chiedere a quale scopo i loro governi li hanno inviati in Unione Sovietica.
4. Se rispondono che sono stati inviati a negoziare e a preparare il terreno per la firma della convenzione militare, chiedere loro se hanno un qualche piano per difendere i futuri alleati, vale a dire Francia, Inghilterra, Urss ecc., contro l'aggressione da parte del blocco degli aggressori europei.
5. Se sembra che non abbiano alcun piano concreto di difesa contro l'aggressione, in una variante o un'altra, il che è improbabile, chiedere loro in base a quale piano di difesa francesi e inglesi pensano di condurre trattative con la delegazione militare dell'Urss.
6. Se francesi e inglesi insistono ancora sui negoziati, dirigere la discussione su distinte, separate questioni, principalmente sul consenso al passaggio delle nostre truppe attraverso il corridoio di Vilna e la Galizia, anche attraverso la Romania.
7. Qualora risulti che il libero passaggio dei nostri eserciti attraverso il territorio della Polonia e della Romania è escluso, dichiarare che senza [l'adempimento di] questa condizione l'accordo è impossibile, perché senza il libero passaggio degli eserciti sovietici attraverso i territori indicati qualsiasi variante di difesa contro l'aggressione è condannata a fallire, e che noi non prendiamo in considerazione la possibilità di partecipare a un'impresa che è destinata a fallire.
8. A richieste di mostrare alle delegazioni francese e inglese le nostre fabbriche per la difesa, istituti, unità militari e centri di istruzione militare, dire che dopo la visita del pilota Lindbergh in Urss nel 1938, il governo sovietico vieta di mostrare le imprese per la difesa e le unità militari agli stranieri, tranne che ai nostri alleati, quando questi appaiono sulla scena»5.

La prima, immediata e maggiore conseguenza del Patto fu il via libera a Hitler per l'aggressione alla Polonia il 1º settembre, otto giorni dopo la firma. Stipulando quel trattato Stalin faceva infatti cadere il principale fattore deterrente che - almeno in quel momento - poteva impedire l'attacco nazista alla Polonia: il rischio che la Germania si trovasse ad affrontare una guerra su due fronti, a occidente con la Francia e la Gran Bretagna, a oriente con la Polonia e l'Unione Sovietica. Il Patto fu dunque il detonatore dell'esplosione della Seconda guerra mondiale; e con la conquista della Polonia aprì anche la strada alla «soluzione finale del problema ebraico».
Seconda conseguenza fu che, sulla base della delimitazione delle aree d'influenza in Polonia stabilite dal Protocollo segreto e della dinamica che apriva, all'invasione nazista della Polonia seguì quella sovietica - il 17 settembre – con il pretesto di liberare i fratelli ucraini e bielorussi, oppressi dal nazionalismo polacco, e del tracollo dello Stato polacco. Accadde mentre Varsavia resisteva e i soldati polacchi si battevano contro la Wehrmacht. Questo fu il colpo di grazia alla resistenza polacca - che continuò fino alla fine del mese e poi, clandestinamente, per tutta la durata della guerra - e alla possibilità di salvare una parte consistente dell'esercito polacco6.
La terza macroscopica conseguenza - visibile da lì a nove mesi - fu la possibilità data alla Wehrmacht, essendo essa sicura sul fianco orientale, di concentrare le proprie forze per lanciare l'assalto alla Danimarca, alla Norvegia, all'Olanda, al Belgio e alla Francia. Sia mediante la conquista militare sia per la sua minaccia e per il consenso dato - più o meno estorto - entro un anno dal Patto Hitler controllava quasi completamente l'Europa continentale.
La quarta conseguenza - nel giugno 1941 - fu che, forte dell'impero, del bottino di guerra, della continuità della produzione industriale e della disponibilità di carburante - anche grazie agli accordi commerciali nel frattempo stipulati con l'Urss - Hitler fu in grado di lanciare la sua potenza militare, ora superiore a quella del 1939, alla conquista della stessa Russia europea. E per poco non ci riuscì.
A questi effetti del Patto se ne devono aggiungere altri, meno visibili o noti a chi non approfondisca l'argomento: la collaborazione diplomatica fra Terzo Reich e Unione Sovietica, amichevole e utile fino a tutto il 1940 - Hitler, a differenza di Mussolini, non ebbe nulla da dire sull'attacco sovietico alla Finlandia - ma nel 1941 si delinearono i contrasti d'interesse sul Danubio e i Balcani7; lo scambio di popolazioni e di prigionieri di guerra - inclusi ebrei e comunisti consegnati ai nazisti; il comune accordo nella distruzione fisica dei quadri, effettivi e potenziali, della resistenza polacca - in questo i sovietici furono perfino più efficaci e letali dei nazisti: nella loro zona, non in quella tedesca, la resistenza organizzata polacca fu stroncata entro l'estate del 1940, e fecero sistematica strage di ufficiali, funzionari, professionisti, insegnanti e intellettuali polacchi catturati, poco meno di 22 mila vittime, nella foresta di Katyń e in altri siti8; la collaborazione economica - importante specialmente per la Germania, altrimenti sottoposta a un blocco economico completo9; l'indebolimento della linea difensiva sovietica a occidente a causa dell'incompletezza e della frettolosa costruzione delle fortificazioni sul nuovo confine. Quanto ai fratelli ucraini e bielorussi, se questi salutarono la «liberazione» da parte dell'Armata rossa, si ritrovarono poi sottoposti a un regime molto più repressivo e culturalmente destabilizzante di quello polacco e deportati a centinaia di migliaia10. Si tenga anche conto che nel 1938 erano stati sciolti - caso unico nella storia del Comintern - il Partito comunista polacco (Kpp) e i partiti comunisti dell'Ucraina occidentale (Kpzu) e della Bielorussia occidentale (Kpzb), e massacrati i dirigenti e i militanti di quei partiti che ebbero la sfortuna di trovarsi nella «patria del socialismo» - fatto, quest'ultimo, meno insolito.
La dirigenza sovietica dimostrò una tale duplicità e un tale cinismo etico-politico da sbalordire perfino il mondo non proprio cristallino della diplomazia internazionale. L'accordo fra Hitler e Stalin era stato paventato e considerato una possibilità, ma in fondo non ritenuto veramente realizzabile - se non da pochissimi - perché si ritenevano insuperabili l'ostilità ideologica e la reciproca demonizzazione dei due regimi. Inoltre, dal 1934 all'agosto 1939 la linea politica estera ufficiale sovietica era stata ispirata dal principio della sicurezza collettiva e dell'accordo con le potenze imperiali «democratiche» per contrastare le spinte espansionistiche delle «potenze aggressive» (il Giappone, l'Italia e la Germania), nonché dai princìpi della Società delle nazioni (una sorta di Onu dell'epoca). Non si era eretta l'Unione Sovietica a paladina della lotta al fascismo? Non era stata la diplomazia sovietica fortemente critica dei fautori del compromesso con Hitler, gli appeasers? E tuttavia, non avevano sostenuto i sovietici che in realtà l'Urss non aveva motivo di temere la Germania nazista e che l'appeasement si sarebbe rivolto contro i suoi stessi sostenitori in occidente? E sì, contrariamente a quanto poi affermato dalla propaganda giustificativa del Patto, era questo l'apprezzamento dell'appeasement prevalente sulla stampa e nelle dichiarazioni sovietiche. E attraverso il Comintern, non era il governo sovietico promotore dei fronti popolari o uniti con i partiti socialdemocratici e borghesi progressisti in funzione antifascista? Inoltre, l'Unione Sovietica era appena emersa da una sorta di psicosi paranoica: centinaia di migliaia di persone erano state liquidate in quanto spie e sabotatori al soldo del nazismo o dei servizi polacchi o giapponesi; vennero perseguitati anche esuli antifascisti italiani11. Paradossalmente, nonostante le pretese egualitarie e democratiche, nessun altro paese al mondo come la «patria del socialismo» - all'epoca e fino ad oggi - è mai stato così infestato da tanti presunti traditori e agenti al soldo dello straniero, in particolare della Germania, della Polonia e del Giappone. E dunque, dopo aver scatenato un così grande terrore di massa, processi spettacolari e perseguitato i cittadini sovietici di origine tedesca, non era forse follia pensare che Stalin potesse venire a patti con Hitler? Nel 1939 si sentivano ancora gli effetti - si sentiranno per decenni - del terrore di massa, delle deportazioni nei campi di lavoro neoschiavistici, delle epurazioni e della destabilizzazione degli apparati - fra questi la ferita mortale all'apparato del Comintern, preludio al suo scioglimento12 - e la quasi totale distruzione dei quadri militari superiori. La purga dell'Armata rossa e la generale destabilizzazione dell'apparato amministrativo furono tra le ragioni, peraltro non ingiustificate, della sottovalutazione delle capacità militari dell'Urss alla vigilia dell'esplosione del conflitto.
Stalin disponeva di altre alternative al Patto con Hitler.
Il consenso anticipato del governo polacco all'ingresso dell'Armata rossa in caso di guerra con la Germania non era indispensabile. I polacchi non erano affatto disposti a impegnarsi in un'alleanza con l'Unione Sovietica, ma avevano lasciato intendere che dopo lo scoppio delle ostilità con la Germania avrebbero potuto chiedere aiuti, cosa che fecero. Comunque, Stalin avrebbe potuto accantonare la questione, come anche la divergenza intorno alla definizione dell'aggressione indiretta: i negoziatori britannici e francesi concordavano sul fatto che occorresse tener conto di situazioni che minacciassero dall'interno, sotto pressione estera, l'indipendenza di uno Stato europeo, ma Molotov pretendeva - per conto del suo capo - una definizione vaga, che permettesse di intervenire a discrezione. Se in buona fede, Stalin avrebbe potuto comunque ripiegare su un trattato di mutua difesa con Francia e Gran Bretagna, con una clausola che prevedesse consultazioni per l'azione congiunta in situazioni critiche. Per Hitler sarebbe stato un colpo durissimo: con ogni probabilità non sarebbe riuscito a imporsi sui suoi generali. Oppure, chissà, forse uno di loro si sarebbe deciso a sparargli.
Perfino prendendo sul serio la tesi per cui i governi della Francia e della Gran Bretagna in realtà non volessero concludere un'alleanza con l'Urss - che è errata se ci si riferisce all'agosto 1939 – Stalin avrebbe potuto, semplicemente, assumere una linea di neutralità armata - una posizione abbastanza simile a quella di Roosevelt, condizionato dalle tendenze «isolazioniste» presenti nel Congresso ma intenzionato ad aiutare britannici e francesi.
Oppure avrebbe potuto decidere di intervenire autonomamente in difesa dell'indipendenza e della libertà della Polonia, a prescindere dalla posizione francese e britannica. Ma, certo, allora non sarebbe stato più Stalin.
Stalin si risolse invece a un'alleanza di fatto con Hitler, camuffata dalla formula diplomatica pseudopacifista della non-aggressione, volta a spartirsi la Polonia e i paesi baltici; fu un'alleanza precaria, intrisa di sospetto e assai miope ma strategicamente decisiva per il successo nazista nella guerra europea.
Ho indicato possibilità che non si realizzarono per sottolineare che la decisione del Patto con Hitler non fu affatto imposta «dalla forza delle cose» o da una qualche «legge» della strategia o delle relazioni internazionali. Fu una scelta libera, ponderata, presa con calma, al termine di una doppia partita diplomatica giocata duramente e con astuzia, ben prima del 14 o del 20 agosto, sulla pelle dei popoli della Polonia e dei paesi baltici, in ultimo di tutti i popoli d'Europa.
Le considerazioni precedenti portano alla questione dello stato di preparazione militare dell'Armata rossa nel 1939. Si può lasciare la parola al capo dello stato maggiore sovietico Boris Michajlovič Šapošnikov. Nella riunione delle delegazioni militari del 15 agosto questi dichiarò orgogliosamente che sul suo fronte l'Unione Sovietica avrebbe potuto spiegare, entro 8-20 giorni, 120 divisioni di fanteria, 16 di cavalleria, 5.000 cannoni pesanti e obici, tra 9.000 e 10.000 carri armati, tra 5.000 e 5.500 caccia e bombardieri13.
L'Urss non era affatto indifesa: il numero di carri armati di cui disponeva era pari alla somma di quelli della Germania, della Francia e del Regno Unito, e non erano di qualità media inferiore ai carri tedeschi. Altra questione, è vero, è quanti di quei carri armati fossero realmente operativi o in manutenzione, un problema derivante da quelli cronici della fisiologia dell'industria sovietica, caratterizzata dalla priorità per la quantità a scapito della qualità, da sprechi enormi, da colli di bottiglia. Nella valutazione delle capacità militari sovietiche nel 1939 occorre anche considerare che l'alto comando era stato distrutto nel Grande Terrore; la dottrina operativa delle Forze armate - che era stata la più avanzata del mondo - era regredita, proprio perché prodotta da coloro che Stalin aveva epurato; conseguentemente era regredita anche la strutturazione delle forze corazzate, che vennero diluite; i piani operativi sbagliati, la formazione e il numero degli ufficiali inferiori inadeguati, come pure l'addestramento dei soldati, di cui assai sgradevoli erano le condizioni di vita14. La prova dell'Armata rossa nella guerra con la Finlandia fu pessima. Gli errori di Stalin in campo militare sono stati denunciati da tempo, fin dall'epoca di Nikita Chruščёv. Ma il punto cruciale è un altro.
La Wehrmacht non vinse gli alleati franco-britannici perché disponesse in assoluto di una schiacciante superiorità materiale, ma perché diretta in modo audace ed efficace e perché, grazie al Patto fra Hitler e Stalin, ebbe la possibilità di concentrare tutta la sua forza in occidente. Nel 1939 la Wehrmacht era potente ma niente affatto invincibile ed era meno forte che nel 1941. Il tempo che la propaganda staliniana pretende fosse stato guadagnato dall'Urss grazie al Patto con Hitler non fu soltanto tempo sprecato a tutto vantaggio del rafforzamento materiale della forza militare e politica del nazismo. Ancor più grave fu la rinuncia alla condizione strategica che meglio avrebbe garantito la sicurezza dell'Urss - nell'improbabile eventualità che Hitler si fosse comunque deciso a una guerra su due fronti. Al contrario, per ventun mesi il Patto fornì a Hitler tutti i vantaggi. Il tempo che permise di salvare Mosca dai nazisti non fu quello della diplomazia staliniana, ma del sacrificio delle vite di centinaia di migliaia di soldati sovietici, che si accumularono rallentando gli invasori. A quattro mesi dall'invasione furono uccisi, feriti o catturati oltre quattro milioni di militari, senza contare i civili: l'Armata rossa fu più che dimezzata, senza contare le enormi perdite di materiali e di industrie (nonostante l'evacuazione).
E quanto vale la tesi stalinista secondo cui Chamberlain e Daladier avrebbero indirettamente incoraggiato l'aggressione nazista alla Polonia o, addirittura, che Baldwin e Chamberlain fossero in collusione con Hitler per distruggere l'Unione Sovietica15?
L'appeasement nei confronti di Hitler era una combinazione di distensione e deterrenza in cui prevaleva decisamente il primo aspetto; tuttavia il secondo aspetto, di particolare rilievo per i francesi, è troppo spesso tralasciato, come se fosse inesistente. Tra l'altro i francesi costruirono la linea Maginot fra il 1928 e il 1935; tra il 1935 e il 1938 la spesa militare britannica aumentò dal 15% al 38% delle spese centrali; in valore assoluto rimase però vincolata dall'ortodossia economica prevalente nel Tesoro e nella City. Sotto l'appeaser Chamberlain venne privilegiata l'aviazione, i caccia in particolare, e l'avveniristica radio direction finding, poi nota come radar: fatti che poi permisero a Churchill di vincere la «battaglia d'Inghilterra». Strategicamente si presupponeva che il potere aereo e navale britannico in congiunzione con le forze di terra francesi avrebbero costituito un deterrente sufficiente nei confronti della Germania.
Sia gli statisti francesi sia quelli inglesi volevano evitare una grande guerra europea perché sapevano che da essa avrebbero tratto vantaggio o la Germania - questa con ogni probabilità - oppure l'Unione Sovietica e, sicuramente, gli Stati Uniti d'America. Francia e Gran Bretagna - specialmente questa - avevano imperi troppo estesi per poter essere adeguatamente protetti, risorse troppo limitate per affrontare minacce o conflitti contemporaneamente in tre teatri: l'Europa, il Mediterraneo e l'estremo oriente. Erano imperialismi che desideravano mantenere lo statu quo.
I britannici, a differenza dei francesi, non avevano mai veramente accettato le condizioni vessatorie imposte alla Germania con il trattato di Versailles, ne desideravano la rinascita economica, erano disposti ad ammettere come «naturale» una posizione di forte influenza del capitale tedesco in Europa centrale. Più dei francesi, erano disposti a riconoscere come legittima la sostanza ma non i modi delle rivendicazioni territoriali della Germania su altri Stati, fino a dove esse riguardavano aree popolate da una maggioranza tedesca. Il grande errore di Chamberlain e degli appeasers fu di non comprendere subito che il regime hitleriano andava ben oltre le rivendicazioni revisionistiche dei politici tedeschi della repubblica di Weimar; e che Hitler non era un politico tradizionale, che potesse venir ricondotto alla ragione mediante il calcolo fra i benefici della pace e i costi della guerra.
I limiti delle concessioni possibili a Hitler vennero superati quando questi si prese quel che rimaneva della Cecoslovacchia a metà marzo 1939: da allora la linea prevalente fu quella della deterrenza. Non in modo coerente e privo di errori. Ad esempio, Chamberlain e Halifax interpretarono a loro modo la posizione maggioritaria espressa dal gabinetto britannico il 18 marzo, favorevole alla formazione di un fronte ampio comprensivo dell'Urss, impegnandosi invece con la garanzia unilaterale della Polonia. Tuttavia, a quel punto Hitler andava fermato, anche a costo di rischiare la guerra, anche a costo di allearsi con l'Unione Sovietica. A malincuore, anche Chamberlain si convinse che la distensione non funzionava, che bisognava creare un argine. Non potevano permettere che Hitler costruisse un impero: e, viceversa, è per questo che nel 1938 Hitler decise che avrebbe dovuto rischiare la guerra con gli occidentali. Neutralizzando l'Urss avrebbe ancor più indebolito la volontà politica e la forza militare dei «vermi», così considerava Chamberlain e Daladier. Ebbe sicuramente ragione per il fattore militare; meno per quello politico: si era garantito un'alleanza di fatto con la «patria del socialismo», ma si ritrovò con due dichiarazioni di guerra da parte delle potenze liberali.
Il fatto è che per gli statisti britannici un impero tedesco, che ad esempio comprendesse l'Ucraina sovietica, non solo avrebbe radicalmente alterato gli equilibri europei, ma avrebbe fatto del Terzo Reich una potenza mondiale a tutti gli effetti, una minaccia reale all'Impero britannico, dal Mediterraneo (come fu effettivamente, sia pure con diversa dinamica) verso la Persia e fin verso l'India, il cuore dell'Impero. Espansionismo nazista e giapponese avrebbero potuto convergere, fino a costituire una reale unità operativa (come non fu, a differenza dell'alleanza anglo-americana). Il peggiore degli incubi. Davanti a una tale visione, perfino la distruzione manu militari dell'odiato bolscevismo avrebbe avuto conseguenze inaccettabili e l'alleanza con Stalin era il minore dei mali.
Per quanto duro possa essere il giudizio sull'appeasement - che venne abbandonato nel marzo 1939 in seguito all'occupazione della Cecoslovacchia - quanto a infamia il Patto lo supera di gran lunga. Quel che ho sommariamente esposto punta infatti alla conclusione che il Patto fra Hitler e Stalin fu l'accordo interstatale più gravido di terribili conseguenze su scala mondiale e più scellerato e cinico dell'intero XX secolo, molto probabilmente dell'intera storia diplomatica moderna.
Le conseguenze del Patto fra Hitler e Stalin furono talmente evidenti e gigantesche che qualsiasi osservatore o militante politico dotato di buon senso e capace di usare in modo indipendente l'intelletto poteva e doveva - da subito, già allora - intenderle perfettamente.
Fin qui la valutazione del patto Hitler-Stalin, basata però su fatti macroscopici, grossi come montagne, sicuri come è sicuro che la Terra giri attorno al Sole, duri come granito, sui quali si infrange qualsiasi tentativo di giustificazione, che non può che basarsi - come fu e per alcuni incurabili ancora è - su fantasie complottistiche, congetture e, nel migliore dei casi, una selezione estremamente unilaterale di fatti, dichiarazioni, memorie e tante omissioni. In ogni caso, evadendo il fatto incontrovertibile che il Patto fu la condizione strategicamente necessaria dell'aggressione nazista alla Polonia e che il governo di Stalin collaborò con quello di Hitler in un momento cruciale per il destino dei popoli europei; e che - nonostante la purga militare - per l'Urss sarebbe stato preferibile combattere contro Hitler insieme alle potenze liberali nel 1939 invece che nel 1941. Per quanto mi riguarda, chi riesce a digerire il Patto è psicologicamente, intellettualmente, politicamente ed eticamente predisposto a digerire qualsiasi orrore: basta tingerlo del colore giusto e dargli il gusto del male minore o della imposta necessità.

La Grande guerra patriottica come mito di legittimazione e il Patto fra Hitler e Stalin come problema nella politica internazionale di oggi

Il discorso sul Patto fra Hitler e Stalin non finisce qui. Esso non appartiene al passato remoto. Al contrario, nel presente è un argomento scottante delle relazioni fra la Russia, da una parte, e Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Ucraina dall'altra. Nell'Europa centrale e orientale sono tante le questioni spinose connesse alla Guerra mondiale (ma non solo) ancora vive o tornate alla vita pubblica, rilevanti nella politica interna e internazionale, ma il Patto è un po' il «padre» di tutte. La storiografia più recente è stata molto arricchita dall'apertura degli archivi e dalla libertà di stampa, è più veritiera di quanto fosse in passato, ma rimane anche molto soggetta alle tensioni e alle passioni politiche del presente. E c'è ancora molto da scavare negli archivi ex sovietici: dopo la relativa apertura tra la fine degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta, la loro consultazione è nuovamente tornata difficile.
Le questioni fondamentali sono la valutazione del ruolo di Stalin e del suo entourage durante la Seconda guerra mondiale e il significato per i paesi dell'Europa centrale e orientale della sconfitta della Wehrmacht da parte dell'Armata rossa. Queste valutazioni - da argomentare razionalmente - a loro volta comportano giudizi diversi sul Patto fra Hitler e Stalin. Prima di entrare nel merito è bene tratteggiare la specificità della guerra sul fronte orientale: l'aggressione nazista nei confronti dell'Unione Sovietica ebbe caratteristiche qualitative diverse da quelle della guerra condotta sugli altri fronti, per almeno quattro motivi.
Innanzitutto, perché la maggior parte degli ebrei d'Europa si concentrava nell'area compresa fra la Polonia e la Russia. Dunque fu nel quadro della guerra orientale che ebbe modo di dispiegarsi pienamente la barbarica «soluzione finale» nazista nei confronti degli ebrei e delle altre «razze inferiori». E per quanto il genocidio fosse dettato da un'ideologia dall'apparenza pre-moderna, esso venne attuato con tutti gli strumenti della modernità: dell'organizzazione burocratica, della logistica, dello sfruttamento economico e della tecnologia.
Soldati sovietici e tedeschi fraternizzano a Brest (Polonia), settembre 1939
In secondo luogo, la stessa ideologia animava l'espansione imperialistica nella particolare forma di costruzione di un Lebensraum, di uno spazio vitale per la razza eletta. Questa presupponeva la riduzione in condizione di servitù degli slavi mediante un feroce terrore, la negazione d'ogni dignità e indipendenza culturale, la deportazione e la riduzione della popolazione autoctona a condizioni materiali ai limiti della sopravvivenza, anche in questo caso con tendenze al genocidio. L'efferata spietatezza e il senso di assoluta superiorità conseguente dall'ideologia razziale fu una delle ragioni della contraddittorietà dell'espansionismo nazista in Europa orientale, incapace di consolidare ed estendere le basi del collaborazionismo politico, che pure ci fu, anche grazie ai risultati della collaborazione di Stalin con Hitler e all'occupazione sovietica dei paesi baltici e di parte dello Stato polacco. Relativamente alla popolazione, il collaborazionismo con il nazismo fu più importante in Estonia e Lettonia; importante nell'Ucraina occidentale «liberata» dai sovietici, specialmente in Galizia; ridottissimo in Polonia16.
In terzo luogo, nella guerra contro l'Urss vennero intensificati i tratti barbarici intrinseci alla moderna guerra totale, in cui l'avversario viene disumanizzato e si offusca e tende a sparire la distinzione fra combattenti e non-combattenti.
Infine, punto connesso al precedente, la guerra fra Terzo Reich e Urss non fu solo uno dei più importanti teatri militari della Seconda guerra mondiale. Se il conflitto fra la Germania nazista e il Giappone e l'Italia, da una parte, e la Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, dall'altra, può essere interpretato come scontro fra Stati imperialisti, in continuità con la guerra del 1914-1918, l'assalto nazista all'Urss si configura anche come guerra fra società diverse: fra uno Stato capitalistico e uno Stato sorto da una rivoluzione socialista rapidamente degenerata in una nuova forma di società totalitaria, integralmente statizzata, non-capitalistica ma neanche socialista17.
Per questo insieme di motivi le perdite umane dell'Unione Sovietica durante la Seconda guerra mondiale furono enormi: la stima più recente, del 1990, è di non meno di 26 milioni di morti18.
Non c'è dubbio che l'enormità delle perdite umane e delle sofferenze inflitte ai comuni cittadini sovietici durante la guerra contro il Terzo Reich è la ragione per cui ancora oggi la memoria del conflitto e del dolore da esso causato ha una forza emotiva e simbolica che si è in gran parte persa nei paesi dell'Europa occidentale. Essa merita il massimo rispetto.
Tuttavia, la memoria storica non è cosa semplice: le tradizioni sono anche invenzioni, i fatti sono trasfigurati e selezionati, le emozioni canalizzate dalle e nelle istituzioni statali. Il rispetto richiede che si sottragga il dolore e l'eroismo alle cerimonie, in realtà tributi allo Stato. Il vero rispetto richiede che si intenda il dramma umano reale, offuscato dalla trasfigurazione di uomini e donne in allegorie del potere.
Il paradosso di tutte le diverse fasi della narrazione sovietica della Grande guerra patriottica - e anche nella Russia postcomunista – è che la memoria del dolore e dell'eroismo sono stati strumentalizzati per l'apologia di Stalin e dello Stato sovietico, nonostante su Stalin e il regime di cui era espressione e vertice ricada gran parte della responsabilità delle sofferenze della guerra.
Si prenda, ad esempio, il dato - tanto terribile quanto basilare - delle vittime di guerra. Nel marzo 1946 Stalin dichiarò che le vittime sovietiche erano state 7 milioni: probabilmente per non far intendere quanto la perdita demografica potesse aver indebolito il potenziale bellico dell'Urss e - ancor più - per non compromettere la propria immagine di capo vittorioso e lungimirante. Altrimenti non sarebbe stato insensato chiedersi quanto, in quell'enormità, si potesse imputare alla responsabilità della sua direzione. Infatti fu solo con Chruščëv - impegnato in una relativa destalinizzazione - che la cifra ufficiale delle vittime fu portata a 20 milioni; infine, nel discorso in occasione del 45º anniversario della vittoria, Gorbaciov dichiarò che le vittime erano state «quasi 27 milioni». Non c'è motivo di dubitare della correttezza della cifra fornita da Gorbaciov, ma non si può neanche fare a meno di notare che l'enfasi sul costo umano e sul sacrificio dei comuni cittadini fosse funzionale al tentativo di mantenere insieme le Repubbliche dell'Unione e di alimentare la speranza che, come nella guerra, la minaccia della catastrofe sarebbe stato superata dall'impegno patriottico.
Quante delle vite perse nella guerra con la Germania nazista possano essere attribuite a decisioni e non-decisioni di Stalin è fatto incalcolabile: nel senso della obiettiva difficoltà di un calcolo che produca una cifra esatta, ma anche della percezione che si tratta di una parte importante del totale, di milioni di uomini e donne, civili e militari. In fondo, quel che conta non è l'esattezza della stima quantitativa ma la consapevolezza che una parte significativa del costo umano della guerra non è imputabile all'invasore ma a responsabilità di chi era al potere; e che non si trattò solo di errori individuali - che possono essere perdonati - ma di qualcosa che scaturì da quella specifica struttura di potere. Nel contesto della crisi finale dell'Unione Sovietica fu possibile andare oltre la critica cruscioviana dell'individuo Stalin e del culto della sua personalità. Si poteva - giustamente - considerare il sovrappiù di costo umano come risultato di una caratteristica intrinseca del sistema sovietico: della costrizione a ottenere un determinato risultato a qualsiasi costo, dell'imposizione coattiva dell'efficacia a dispetto dell'efficienza, una ben nota caratteristica sistemica dell'economia sfociata nella stagnazione, che può estendersi alla valutazione della condotta della guerra. Nel caso specifico: si trattava della salvezza del regime attraverso la consumazione fisica di innumerevoli vite, resa possibile dall'ampiezza demografica, di un sacrificio umano compensativo non solo degli errori degli individui ai vertici dello Stato ma di difetti intrinseci al sistema, amplificati dalla condizione estrema del conflitto. L'eroismo e il trionfo celebrati nei riti e nei miti ufficiali può così essere visto in modo diverso e problematico.
In questa luce, la memoria e il rispetto per quanti si sacrificarono e furono sacrificati non può non accompagnarsi a un rendere conto complessivo della natura del sistema. Tra l'altro si tratta di rendere conto del Patto con Hitler e dei protocolli segreti; dell'invasione della Polonia e del massacro di Katyń; dell'occupazione dei paesi baltici; dei prigionieri di guerra sovietici perseguitati o maltrattati come traditori per il solo motivo di essere stati catturati dal nemico; delle risorse distratte dal fronte per essere assegnate al controllo poliziesco; dell'importanza degli aiuti statunitensi; della criminalizzazione e deportazione di interi gruppi etnici come i tatari della Crimea, i calmucchi, i ceceni e gli ingusci. Una buona sintesi è questa:
«La vittoria venne attraverso una combinazione di un grande sacrificio umano, apprendimento dell’alto comando attraverso tentativi ed errori, disinteressato sacrificio sul fronte di contadini e operai, uomini e donne, aiuto materiale degli alleati, leadership politica e organizzazione dell'economia di guerra, per nominare solo alcune delle molte componenti del successo dello sforzo bellico. L'omaggio finale deve essere attribuito, tuttavia, al cittadino sovietico, uomini e donne, che svolse il suo ruolo e pagò il prezzo per l’impreparazione dell'esercito e del regime nel 1941»19.
Nel corso della storia sovietica la vicenda della guerra contro l'assalto nazista venne interpretata con sfumature particolari adatte alle esigenze politiche del momento, un fenomeno continuato nella Russia postsovietica specialmente con Putin20. Sfumature diverse che, tuttavia, mantenevano il nocciolo ideologico intrinseco alla narrazione della Grande guerra patriottica e, con esso, un paradosso politico e una deformazione storica. Si trattava di una narrazione con funzione di mito di fondazione dell'unità «nazionale» - nel senso che aveva di una società multinazionale come quella sovietica - ovvero di legittimazione dello Stato, del partito unico e del suo vertice.
Con Stalin vivente, durante la relativa destalinizzazione cruscioviana, poi nei decenni di Brežnev e fino a Gorbaciov e poi da Eltsin a Putin, sul substrato dell'esperienza, del sentimento e della memoria popolari si è sovrapposto l'intervento statale che ne ha in gran parte riplasmato l'interpretazione, secondo una particolare logica narrativa, molto accentuata nella tradizione culturale russa, ma non esclusiva di essa (russa, non solo sovietica; e vale anche per la Polonia), di resurrezione attraverso l'ingiustizia patita, la sofferenza, l'eroica riscossa. È proprio sulla sincerità del sentimento e sul valore della memoria che la rappresentazione istituzionale e la rimemorazione mediatica - anche attraverso il nuovo canale telematico del Web - fanno leva, per canalizzare sentimento e memoria in una determinata direzione, secondo le finalità politiche del momento e la congiuntura internazionale. Non si può essere tanto ingenui da non pensare - ad esempio - che la partecipazione di Putin con la foto del padre marinaio alla sfilata del Reggimento immortale non abbia valore per la propria legittimazione.
Il risultato è stato una specifica trasfigurazione della vicenda e dell'esperienza bellica, in cui la verità si combina con la distorsione e l'omissione per dar vita a un mito fondativo dell'identità individuale e collettiva: la Grande guerra patriottica. La parola chiave è patriottica: il patriottismo implica un'appartenenza e una fedeltà, un significato esistenziale in dimensione collettiva. La forza sociale di un mito dipende molto da quella della realtà che esso trasfigura e delle esigenze a cui risponde. In questo caso i termini fondamentali sono, da una parte, l'enormità della sofferenza e, dall'altra, il trionfo finale contro il nemico nazista. Il valore politico, a uso interno e internazionale del mito, è sempre stato quello di legittimare il potere del partito e dello Stato (in particolare, nella prima fase, il potere personale di Stalin) e di compattare intorno alle istituzioni i popoli sovietici, o di dare almeno l'apparenza di compattezza; nonché di dimostrare, con l'eroismo del sacrificio, il superamento dell'estremo pericolo e la vittoria, il valore del sistema sovietico e la sua superiorità su quello capitalistico.
Il paradosso implicito nel mito è dunque che questo immenso carico di dolore venne utilizzato - attraverso la storiografia ufficiale, le cerimonie, i musei, i monumenti, il cinema, le visite d'istruzione (molto gradite), tutta la panoplia possibile in un sistema che non ammetteva confronto con posizioni che uscissero dall'ortodossia - per occultarne la ragione più importante, a monte delle altre: la decisione di collaborare con Hitler per ritagliare al potere del Cremlino una sfera d'influenza sulla pelle dei popoli vicini. Che Stalin effettivamente abbia collaborato con Hitler e per quella ragione erano fatti così pericolosi per la funzione legittimante della trasfigurazione mitica della guerra contro il Terzo Reich in Grande guerra patriottica, che il significato del Patto di non-aggressione fu stravolto, da alleanza di fatto con un potere barbarico in necessità dettata dalla malafede o vigliaccheria d'altri; la ragione dell'invasione della Polonia fu distorta; fino all'ultimo fu negata la stessa esistenza del Protocollo segreto - un segreto di Pulcinella per il resto del mondo. Ancora nel XXI secolo, ufficialmente il Patto di non-aggressione è difeso come necessità e sulle conseguenze del Protocollo segreto - l'occupazione di parte dello Stato polacco dell'epoca e il colpo portato al suo esercito in guerra con la Wehrmacht, l'occupazione nel giugno 1940 dei paesi baltici e la loro successiva annessione - si preferisce glissare, con conseguenze diplomatiche e, molto peggio, anche sulla politica interna dei paesi interessati: si tratta di una linea che va a tutto beneficio della destra e dell'estrema destra nazionalista.
Nella Russia di oggi, non nella «patria socialista» ma nella Russia capitalista di Putin, in cui lo stemma zarista dell'aquila a due teste ha sostituito la stella rossa, il nocciolo del mito della Grande guerra patriottica è tuttora vivo. Esso continua a svolgere in sostanza la medesima funzione di legittimazione e di integrazione politica che aveva nell'epoca sovietica. Come mito popolare e interclassista - ma in una società fortemente oligarchica - ed esempio di riscossa e rinascita - dopo gli anni di povertà, di declino dell'aspettativa di vita della transizione postsovietica, della disgregazione dell'Urss e dell'arretramento sulla scena internazionale - esso ben si presta all'orgoglioso rilancio del nazionalismo grande-russo, dello statalismo autoritario e della Russia come grande potenza. La celebrazione delle vittorie dell'Armata rossa contro la Wehrmacht può essere anche la celebrazione della rinascita delle Forze armate della Russia neoimperiale di oggi. Il mito si accompagna perfino a una certa rivalutazione della figura di Stalin - Grande Terrore a parte - anche nei libri di testo su cui studia la nuova generazione. Un po' come se in Italia Benito Mussolini venisse rivalutato come un grande statista, nonostante alcuni suoi inaccettabili errori ed eccessi.
Non solo per il fine della legittimazione interna, ma anche per motivi di politica internazionale era necessario che la dirigenza sovietica mostrasse di avere le mani pulite nei confronti del nazismo. Questo ne legittimava lo status di grande potenza politica e militare, rafforzandone il prestigio nelle assise internazionali e nei confronti dei nuovi Stati ex colonie; aveva grande valore propagandistico e identitario per i partiti comunisti, utili sostenitori della politica sovietica nel resto del mondo. E certamente non la meno importante delle ragioni - anzi - della pretesa di non essersi sporcati le mani con il nazismo era la legittimazione delle acquisizioni territoriali e dell'espansione ulteriore della sfera d'influenza nell'Europa centrale, liberata dal nazismo dall'Armata rossa. Quindi, il patto di non-aggressione con il Terzo Reich doveva essere presentato come una necessità pacifista, invece che un'alleanza di fatto su più livelli, e l'esistenza di un Protocollo semplicemente negata.
La questione cruciale - paradosso ulteriore della narrazione della Grande guerra patriottica - è che i paesi liberati dalla barbarie nazista vennero forzosamente inclusi nell'area dominata dal Cremlino e «sovietizzati» i regimi politici e le società21. La rivolta di Berlino Est nel 1953, la resistenza ucraina, l'invasione dell'Ungheria, quella della Cecoslovacchia, le rivolte in Polonia nel 1956, 1970 e 1976, le proteste del 1980 e la formazione di Solidarność, la rapida successione di crolli politici nel 1989, attestano che quei regimi erano imposti e incapaci di interna rigenerazione.
Dalla seconda metà degli anni Novanta e in modo più coerente con Putin - che ha modificato i rapporti tra governo e gruppi capitalistici oligarchici, colpendone alcuni, appropriandosi di gran parte della rendita energetica per rafforzare l'apparato statale - la linea prevalente nel ceto politico è quella del rilancio della Russia come grande potenza imperialistica interessata, innanzitutto, a ristabilire la propria influenza nei paesi che costituivano l'Unione Sovietica. È per questo motivo che del tutto ipocritamente - perché la Russia di oggi è certamente un capitalismo fortemente concentrato, non un qualche genere di socialismo - i regimi di Eltsin e del suo ex pupillo Putin hanno salvato il Patto e rimosso i Protocolli segreti, rispolverando simboli e riti dell'era sovietica e perfino Stalin, come patriota, in una prospettiva fortemente russocentrica. Lo Stato russo rivendica - pragmaticamente - una certa eredità geopolitica sovietica e, all'occorrenza, fa uso di una retorica che ricorda i vecchi tempi dell'aquila bicipite o della bandiera rossa.
La negazione o la svalutazione della natura politica criminale del Patto fra Hitler e Stalin e la rivalutazione di Stalin sono utili al rilancio della Russia come potenza imperiale. Inversamente, il riconoscimento della verità storica delle ragioni e delle conseguenze del Patto fra Hitler e Stalin è necessario per la liberazione della memoria dalla manipolazione del potere, non solo per la politica interna della Russia ma anche per i suoi rapporti con la Polonia, l'Ucraina, la Lituania, l'Estonia e la Lettonia; ed è necessario anche per la politica interna di questi paesi - in particolare per l'Ucraina e i paesi baltici. Infatti, se in Russia il problema è la rimozione o la mistificazione del Patto, in questi paesi, al contrario, ne sono ben vivi la memoria e le conseguenze. Un esempio rilevante: la disgregazione su linee nazionali dell'Urss iniziò il 23 agosto 1987 con la richiesta dei nazionalisti baltici di pubblicare il testo del Protocollo segreto firmato 48 anni prima, la base per l'annessione di quei paesi all'Unione Sovietica; il testo - già noto da decenni nel resto del mondo - venne pubblicato dai quotidiani baltici l'anno seguente, quando si svolsero anche grandi manifestazioni nell'anniversario del Patto. Nel giugno 1989 Gorbaciov - che come i predecessori aveva negato l'esistenza del Protocollo – fu costretto ad accettare una speciale commissione del Congresso dei deputati del popolo sul Patto, che concluse i lavori a dicembre con una posizione di compromesso approvata a maggioranza dal Congresso: ammissione dell'esistenza del Protocollo segreto e sua condanna perché illegale e immorale, ma giustificazione del Patto di non-aggressione; infine, nel 1992 venne ritrovata la copia sovietica dei documenti firmati il 23 agosto 193922.
S'intende facilmente che popoli che per decenni sono stati sottoposti a un regime repressivo - conseguente dall'occupazione militare e poi dalla dottrina della sovranità limitata - non possono accettare la narrazione unilaterale e semplicistica della Grande guerra patriottica e la giustificazione del Patto fra Hitler e Stalin. Il passato entra direttamente in gioco nella politica contemporanea. Il punto costituisce materia di polemica diplomatica: come in Russia anche nei paesi baltici, in Polonia e in Ucraina la valutazione storica e, per questi ultimi paesi, la pretesa di un pieno riconoscimento delle responsabilità sovietiche è uno degli strumenti, simbolicamente molto importante, della politica estera. Questa, a sua volta, è anche un modo per rafforzare o costruire un'identità nazionale23.
Il problema è che la storia è usata e abusata da due nazionalismi - politicamente entrambi collocabili sulla destra dello spettro politico. La verità storica non è dalla parte della Russia e di chi giustifica il Patto fra Hitler e Stalin, ma l'abuso di questa verità da parte dei nazionalismi non-russi rende più forte le oligarchie economiche e politiche dei paesi che erano stati annessi dall'Unione Sovietica o inclusi a forza nella sua sfera di potere. Il risultato drammatico si vede nella guerra civile in Ucraina, dove più problematica è l'identità nazionale e tanto più vitale la necessità di distinguere e separare il futuro dei russofoni dal passato staliniano e dal nazionalismo grande-russo, oggi travestito con i panni della «lotta al nazismo di Kiev»24.
La trasfigurazione della Grande guerra patriottica è un mito costituente non solo per l'Urss del dopoguerra ma anche per quella sinistra che non può e non vuole liberarsi dalla soggezione psicologica e ideale all'Unione Sovietica. Non si tratta necessariamente di stalinisti convinti. In pratica questi individui o gruppi, anche quando non se ne rendono conto, possono utilizzare la versione cruscioviana del mito, fortemente critica della persona di Stalin, oppure quella brezneviana, in cui la critica di Stalin retrocesse ma fu fortemente rivalutato il ruolo dell'Armata rossa come istituzione, ovvero come strumento di potere dello Stato sovietico, che Stalin aveva subordinato all'intelligenza della direzione sua e del partito. Il mito ha oggi tanto più valore perché, di fronte al crollo di quella garanzia statale della vitalità del comunismo e della rivoluzione data dall'Urss, la gloria passata è consolante e rassicurante. Col risultato di fornire ottime armi alla destra antirussa.

Il Patto fra Hitler e Stalin come banco di prova per l'interpretazione dell'Urss e la teoria delle relazioni internazionali

La Russia è un indovinello racchiuso in un mistero dentro un enigma, disse Churchill in una trasmissione radio il 1º ottobre 1939, dopo che le truppe sovietiche s'erano unite a quelle tedesche nella distruzione dello Stato polacco. Benché nel frattempo la ricerca storiografica abbia fatto enormi passi avanti, quello delle fondamenta sociali e della logica politica della burocrazia «socialista» resta, a mio parere, il problema storico, sociologico e politico di più difficile comprensione della nostra epoca. Se si hanno presenti le tante interpretazioni della «natura sociale» dell'Unione Sovietica - esempio compiuto di socialismo, capitalismo di Stato, collettivismo burocratico, variante moderna del «modo di produzione asiatico», totalitarismo, Stato operaio degenerato e tante sfumature per ciascuna classe di teorie - non stupisce che a decenni di distanza esistano opposte spiegazioni anche del Patto fra la Germania nazista e l'Unione Sovietica. Anche prescindendo dalla propaganda staliniana e degli epigoni e considerando solo i lavori più seri, articolati e più o meno accademici, la gamma delle posizioni che interpretano la politica estera sovietica degli anni Trenta è relativamente ridotta, ma perché ancora polarizzata fra una prospettiva «realista» e una «totalitaria». In fondo, il problema interpretativo del Patto dell'agosto 1939 fra Hitler e Stalin nasce proprio dalla difficoltà di comprendere la specificità del sistema sovietico e della sua casta dominante, l'ambiguità delle sue motivazioni e obiettivi, la peculiare combinazione di cinismo «realista» e professione di fede ideologica totalitaria, di statalismo nazionalista e appello all'«internazionalismo proletario» in nome del socialismo25.
Il Patto è un caso di eccezionale valore per lo studio dei rapporti tra le grandi potenze e un banco di prova per la teoria delle relazioni internazionali, proprio perché di un cinismo così straordinario ma realizzato tra regimi politici e sistemi sociali totalitari, che quasi tutti gli osservatori e i militanti politici dell'epoca ritenevano del tutto inconciliabili per motivi ideologici.
Ad entrare in gioco sono i concetti fondamentali della teoria «realistica» e «neorealistica» delle relazioni internazionali; il ruolo della soggettività dei policy makers e dell'ideologia nel modo di percepire l'ambiente internazionale; il rapporto fra decisioni di politica estera e sistemi politici interni; i luoghi, le procedure e l'applicazione delle decisioni; il rapporto fra vincoli o potenzialità economiche e ambizioni politiche; l'effetto di tutto questo sulle alleanze internazionali e la politica militare.
Dal punto di vista di un approccio alle relazioni internazionali di tipo «realistico» - che tratta gli Stati come entità mosse sostanzialmente dalla stessa logica di potere in un ambiente mondiale «anarchico» o caratterizzato dalla lotta per l'egemonia - il Patto fu mossa cinicamente dettata da una ragion di Stato e da considerazioni geopolitiche o strategiche qualitativamente non difformi da quelle di qualsiasi altra grande potenza. Tipico di questo approccio è la tesi - in comune con la storiografia sovietica - per cui Stalin decise di venire al Patto con Hitler soltanto dopo il fallimento del negoziato con la Francia e la Gran Bretagna, a causa del rifiuto del governo polacco all'ingresso di truppe sovietiche nel proprio territorio in caso di guerra26. Si può dunque dire che il Patto fu conseguenza e non causa del fallimento del negoziato con le potenze liberali; che, in definitiva, l'accordo con Hitler fu l'ultima conseguenza dell'appeasement praticato dalle potenze liberali verso il Terzo Reich; che nel 1939 (o nel 1938-1939) la politica estera sovietica fu passiva o reattiva invece che attiva. In questa corrente storiografica si può riconoscere l'esistenza di linee diverse nella politica estera sovietica: quella di Litvinov, della sicurezza collettiva e dell'accordo con le potenze liberali, quella isolazionista» o più orientata verso la Germania di Molotov e di Andrej Aleksandrovič Ždanov27. Occorre però dar loro una spiegazione.
Approccio opposto al precedente è quello per cui il Patto non fu altro che la naturale convergenza fra i totalitarismi, conseguente da pulsioni espansionistiche dettate dall'ideologia, nel caso di Stalin dall'ideologia marxista-leninista dell'espansione della rivoluzione invece che dal razzismo. Nella versione estrema, Stalin puntò su Hitler già nel 1933 o addirittura prima che questi ascendesse al potere, con l'obiettivo di spingere alla guerra i paesi capitalistici e cogliere l'occasione per costruire un impero sovietico28.
La storiografia di impianto «realista» - non vi comprendo la letteratura staliniana e i suoi epigoni - per metodo e fonti è meglio fondata di quella di impianto «totalitario», più articolata e problematica. Suo merito è proprio quello di trattare la politica estera sovietica in modo disincantato, di abbassare Stalin dal ruolo di un «machiavellico» Mefistofele - sinistramente affascinante - alla dimensione umana di altri statisti: calcolatore, cinico, opportunista, miope, soggetto a gravi errori di valutazione.
Per questo approccio «realistico» la questione di fatto storiograficamente cruciale è quella del quando Stalin decise di accordarsi con Hitler: se prima o dopo il fallimento del negoziato con le potenze liberali - questione che poi retroagisce sul perché. Come già detto, ritengo che la precisa e ragionata ricostruzione delle trattative parallele dei sovietici con gli anglo-francesi e con i tedeschi dimostri che la decisione di giungere a un accordo con Hitler - tuttavia non rivelata ai nazisti - venne presa a metà del luglio 1939 e che, conseguentemente, il colloquio con i rappresentanti militari della Francia e della Gran Bretagna venne fatto deliberatamente saltare, secondo un copione predisposto nei primi di agosto. Prova ulteriore è che i sovietici conclusero il colloquio prima che potesse arrivare la risposta definitiva del governo polacco (peraltro scontata) alla condizione, da essi data come irrinunciabile, del consenso all'ingresso dell'Armata rossa in Polonia in caso di guerra con la Germania. Su questo punto di fatto l'approccio «realistico» è da criticare.
Quanto al secondo approccio, esso è tipico, ma non esclusivo, della Guerra fredda; in Russia fu molto forte nei primi anni della transizione postsovietica, in cui prevaleva l'intento di liberarsi dal passato e di avvicinarsi all'occidente. Appare fortemente inquinato da quel che imputa a Stalin: l'ideologia. Esso interpreta in modo unilaterale la storia della politica estera sovietica e del Comintern, con un fondo complottistico speculare a quello della propaganda stalinista e russofila, che attribuisce ai governi britannici la volontà di lasciare mano libera a Hitler per distruggere l'Urss. Prende troppo sul serio la fraseologia marxista-leninista e troppo poco sul serio la volontà di Mosca, assai concretamente dimostrata, di collaborare con governi e partiti borghesi in tutto il mondo - dalla Cina a Cuba all'Europa. Così il Cremlino anteponeva la collaborazione con la borghesia «progressista» in nome dell'antifascismo o dell'indipendenza nazionale alla radicalizzazione della lotta sociale e politica in senso anticapitalista, ciò anche attraverso epurazioni e con grave danno dei partiti comunisti locali. Questa corrente si scontra col dato di fatto che per gran parte degli anni Trenta i maggiori sforzi della diplomazia sovietica furono orientati dalla linea di Litvinov, ministro degli Esteri fino al 3 maggio 1939, e che questa era coerente con quella dei fronti popolari antifascisti.
Un esempio importante circa la questione del ruolo dell'ideologia nella politica sovietica: per l'ortodossia L'imperialismo di Lenin era un testo sacro. Tuttavia, la politica sovietica d'accordo con uno degli imperialismi o uno dei blocchi imperialisti - le potenze liberali o il Terzo Reich - era in totale contrasto con il primo principio della politica leniniana di fronte alla Guerra mondiale e con la ragione determinante della separazione della sinistra rivoluzionaria dai partiti della Seconda internazionale per fondare i partiti detti comunisti: il rifiuto di schierarsi con uno degli imperialismi. Che nel frattempo fosse nato uno Stato socialista non modifica il punto; e, senza dubbio, in nessun caso Lenin avrebbe sostenuto l'alleanza di fatto con l'imperialismo più barbaro e ferocemente nemico di qualsiasi possibilità di organizzazione autonoma del proletariato e delle sue organizzazioni politiche e sindacali. Il marxismo-leninismo sovietico era un'insalata che poteva essere condita e presentata in qualsiasi modo utile per giustificare scelte politiche già fatte, non un apparato teorico in dialettica con la pratica e in grado di orientarla. Quanto all'idea della «inevitabilità della guerra interimperialista»: la politica della sicurezza collettiva presupponeva che esistessero potenze «pacifiche» - la Francia, la Gran Bretagna - e potenze «aggressive» - la Germania, il Giappone - e che sarebbe stato possibile evitare la guerra se le prime si fossero poste su una posizione ferma e - specialmente - di completa integrazione dell'Urss nel sistema internazionale degli Stati. Malgrado venisse presentata come leninista, la vittoria dell'idea di costruire il socialismo in un paese isolato fu il sigillo posto su una svolta che abbandonava la prospettiva rivoluzionaria e globale dei primi anni, a favore di un corso conservatore e nazionalista (nel senso della subordinazione dell'attività dei partiti del Comintern ai particolari interessi dell'Urss).
A parere di chi scrive Stalin fu il meno ideologico fra i «grandi» uomini di Stato del tempo, con ciò intendendo che i suoi processi di pensiero non rispondevano a uno schema teorico - le categorie marxiane e leniniane erano liberamente reinterpretate a seconda della necessità - né a un criterio di valore, se non quello della conservazione del proprio potere personale e della riproduzione del potere dello Stato di cui era a parte - con qualsiasi mezzo, non esclusi il terrore di massa e il genocidio.
Altra questione è quella dell'elaborazione e della gestione dell'informazione da parte degli apparati di uno Stato totalitario, in cui la decisione politica è estremamente centralizzata e non sottoposta a discussione, in cui certe informazioni sgradite possono essere bollate dai vertici come deliberata disinformazione da parte del nemico29. Nell'Urss staliniana una valutazione del genere poteva avere effetti letali sul messaggero: la purga del Narkomindel (il ministero degli Esteri) tra il 1937 e il 1939 fu devastante, con l'effetto di paralizzare l'iniziativa dei diplomatici sovietici30. In un sistema come quello sovietico si esaspera all'estremo la tendenza degli apparati spionistici e diplomatici a selezionare le informazioni e a presentarle in modo che esse risultino coerenti con le aspettative dei vertici.
Quel che colpisce nella politica estera staliniana fra l'agosto 1939 e il giugno 1941, è che il pragmatismo totale e la durezza nella contrattazione con il Terzo Reich per il conseguimento di vantaggi a breve termine - territoriali e, in minor misura, economici - si combinarono con una straordinaria miopia sugli effetti strategici di quella collaborazione. È questo che permette di spiegare la «sorpresa» e la catastrofe quasi fatale del 1941, con milioni di uomini uccisi, feriti o prigionieri, con Leningrado assediata per due anni e mezzo e le truppe tedesche a poche decine di chilometri da Mosca. L'imminenza dell'attacco era stata ampiamente segnalata da una miriade di fonti e di osservazioni sul campo, sicché la «sorpresa» fu l'effetto di un autoinganno di Stalin, che non poteva ammettere con se stesso e con gli altri di aver sbagliato il calcolo con Hitler. Alcuni pensano che i movimenti delle truppe tedesche vennero intesi da Stalin come strumento di pressione politica, non come preparazione di un attacco, e che comunque Hitler gli avrebbe rivolto un ultimatum, pretendendo l'Ucraina e Baku31. È comunque accertato che l'impreparazione militare fosse anche dovuta alla precisa volontà di non provocare Hitler; e, pure a fini di appeasement del dittatore nazista, nella primavera del 1941 e fino alla notte dell'invasione i rifornimenti sovietici al Terzo Reich fluirono copiosi e senza i ricatti e gli intoppi burocratici che tanto avevano innervosito negoziatori e funzionari tedeschi nel precedente anno.
C'è, però, un fondo di verità nella linea interpretativa della convergenza fra i totalitarismi: è vero che Stalin, anche prima del Patto, non fu affatto il paladino senza macchia della lotta al fascismo. Non si tratta solo dell'enorme errore della linea del socialfascismo dei primi anni Trenta o degli autentici crimini commessi contro gli anarchici e il Poum in Spagna, che indebolirono il fronte repubblicano. Il punto è che - anche per vie esterne al ministero degli Esteri - i sovietici cercarono veramente di mantenere buoni rapporti con il Terzo Reich - a partire da quelli economici - perché, come del resto tante volte ribadito, l'Unione Sovietica intendeva avere normali rapporti con tutte le potenze a prescindere dal loro regime interno. Nei primi anni Trenta Stalin non intendeva allearsi con Hitler contro le potenze liberali, ma praticare un suo appeasement nei confronti di Hitler: fu però respinto e costretto alla linea della sicurezza collettiva. In altre parole: l'obiettivo di fondo della politica estera sovietica - sotto Stalin e dopo - fu sempre la pacifica coesistenza con l'insieme di tutte le altre potenze, Italia fascista e Germania nazista comprese. È per questo motivo che, malgrado alcune questioni territoriali pendenti - Ucraina e Bielorussia occidentali, Bessarabia - l'Urss non era una potenza destabilizzante lo statu quo internazionale, come l'Italia per l'Abissinia, il Giappone per la Cina, la Germania con la sua rimilitarizzazione e le rivendicazioni etnico-territoriali. La possibilità di iniziare a costruire una propria sfera d'influenza si profilò quando Francia e Gran Bretagna si decisero a negoziare un'alleanza antinazista con l'Urss, ma Stalin ne fu deluso (è quanto sotteso nei negoziati dalle discussioni intorno alle garanzie a Stati terzi e alla definizione dell'aggressione indiretta); l'amo con l'esca appetitosa venne invece lanciato da Hitler e Stalin, opportunisticamente, abboccò. Poi, scampata la catastrofe, fece del suo meglio per tenersi stretto il bottino.
Tuttavia, l'Unione Sovietica non era uno Stato come gli altri. Al contrario dell'approccio «realista», non ritengo si possa separare ciò che l'Unione Sovietica era internamente dal suo agire internazionale. Era uno Stato creato da una rivoluzione che, nei suoi primi anni, si concepiva come il primo passo di una rivoluzione mondiale e riteneva che la sua miglior difesa, se non proprio la possibilità di durare, fosse affidata al successo di processi rivoluzionari analoghi, in primo luogo in Germania32.
L'Urss rimaneva una formazione sociale nuova, diversa da quella capitalistica; continuava a portare il marchio della sua nascita e dei suoi primi anni rivoluzionari; si faceva forte di una peculiare ideologia di legittimazione dai tratti ecclesiastici - imponendola all'interno e nei partiti del Comintern con metodi e con una pervasività da superare quelli dell'Inquisizione d'altri tempi - e di essa e del prestigio dell'origine si serviva per promuovere i propri interessi attraverso i partiti del Comintern. La paranoia, il pragmatismo e le oscillazioni di Stalin in campo internazionale si possono spiegare con il desiderio di avere normali rapporti con gli Stati e le grandi potenze, ma unito alla consapevolezza che l'Unione Sovietica per l'economia mondiale capitalistica era una sorta di corpo estraneo.
La duplicità politica caratteristica delle burocrazie «socialiste» - pragmatismo statalista e appello alla mobilitazione di base combinato alla giustificazione del momento in cui credere ciecamente - era l'altra faccia dell'ambiguità storica, se così può dirsi, delle loro formazioni sociali nazionali - né capitaliste né socialiste, nate in modo rivoluzionario ma cristallizzate in apparati totalitari. La pretesa di una ferrea ortodossia ideologica - in realtà essenzialmente la fedeltà ai capi e alla linea seguita al momento dal partito - era complementare al terrore di massa ed espressione dell'instabilità risultante dalle acute contraddizioni interne. Da qui anche le violente oscillazioni in politica interna - dal «contadini, arricchitevi» alla distruzione fisica della classe contadina; dalla estrema centralizzazione ai tentativi di riforma decentralizzatrici - e in politica internazionale: dall'accordo anglo-russo e dal sostegno del Kuomintang (fino al massacro dei comunisti cinesi; il Kuomintang era il partito nazionalista al governo della Cina) all'equiparazione della socialdemocrazia al fascismo; da qui ai fronti popolari con le socialdemocrazie e alla diplomazia della sicurezza collettiva; poi al Patto con Hitler, al sostegno diplomatico della sua «campagna di pace» e all'equivalenza fra tutti i regimi borghesi, liberali e totalitari; infine - ovviamente per «causa maggiore» - la grande alleanza con le potenze liberali, la ripresa della linea frontista con i partiti antifascisti e l'oscuramento della lotta fra le classi in nome della democrazia (borghese) e della liberazione nazionale (di società capitalistiche). Il tutto sempre mantenendo il sogno, per i militanti dei partiti comunisti non al potere, della statalizzazione integrale e della «dittatura del proletariato», ovvero del partito unico: ma in funzione identitaria e di coesione ideale, organizzativa ed elettorale, perché senza concreti ponti con la politica del presente, essendo l'avvento rimandato alla maturazione di un futuro vago, nebuloso.
Fra il 1934 e l'agosto 1939, in forza della posizione antisovietica della Germania nazista, prevalsero la linea della «sicurezza collettiva», meglio incarnata da Litvinov, e dei fronti popolari, con il capo del Comintern Dimitrov come uomo «per tutte le stagioni», dai fronti al Patto con Hitler. Occorre quindi relativizzare il contrasto tra Molotov e Litvinov. Rappresentavano due varianti tattiche di un unico obiettivo strategico: la coesistenza con il mondo capitalistico e la conservazione del potere della burocrazia dominante in Unione Sovietica, in modo anche più specifico, del mantenimento del potere di Stalin e della sua cricca più intima.
Il mistero dell'enigmatica duplicità sovietica e dei suoi voltafaccia richiede la soluzione dell'indovinello costituito dalla genesi, dalla riproduzione sociale, dal funzionamento amministrativo e della logica politica della burocrazia «comunista», di un apparato di potere la cui ragion d'essere è l'inversione del rapporto tra mezzi e fine e la trasformazione del potere in fine in sé. Qualcosa che va molto al di là delle teorie delle relazioni internazionali. E che costituisce uno dei grandi problemi - retrospettivamente forse il problema - fondamentale per il futuro dell'umanità.
Tra tutte le nefandezze del regime staliniano, ritengo che la più grave per il futuro del mondo sia stata la firma di Vjačeslav Michajlovič Molotov accanto a quella di Joachim von Ribbentrop. La fantastoria mi piace leggerla ma non scriverla; ma non posso fare a meno di pensare che senza quella firma il mondo sarebbe stato migliore di quello che è.
Tuttavia, per chi spera in un mondo migliore di quello presente, il Patto fra Stalin e Hitler è tanto uno straordinario documento di nichilismo morale quanto un esempio di quanto stupido possa rivelarsi il cinismo ammantato di «realismo» e credere che qualsiasi mezzo sia giustificabile dal fine.


* I riferimenti bibliografici di queste note sono deliberatamente non sistematici, molto soggettivi, in qualche caso perfino sentimentali.

1 Il testo del trattato è in Walther Hofer (a cura di), Lo scatenamento della seconda guerra mondiale. Uno studio sui rapporti internazionali nell'estate del 1939. Con documenti, Feltrinelli, Milano 1969, p. 150. Una prima lista di libri sul patto fra Hitler e Stalin e l'esplosione della guerra: Angelo Tasca, Due anni di alleanza germano-sovietica. Agosto 1939-giugno 1941, La Nuova Italia, Firenze 1951 (Tasca fu stretto collaboratore di Gramsci ai tempi de L'Ordine Nuovo, tra i fondatori del Pcd'I, membro del suo Comitato centrale e della Segreteria fino al 1929); Philipp Fabry, Il patto Hitler-Stalin 1939-1941, Il Saggiatore, Milano 1965; Arturo Peregalli, Il patto Hitler-Stalin e la spartizione della Polonia, Erre emme, Roma 1989. Si vedano anche l'Introduzione e i documenti in Lo scatenamento della seconda guerra mondiale. cit. Un'ottima introduzione al periodo fra il settembre 1938 e il settembre 1939 è Donald Cameron Watt, 1939. Come scoppiò la guerra, Leonardo, Milano 1991. Si vedano anche Richard Overy, Le origini della seconda guerra mondiale, il Mulino, Bologna 2009 e, più circoscritto, Sull'orlo del precipizio. 1939, i dieci giorni che trascinarono il mondo in guerra, Feltrinelli, Milano 2009; Nicholas Bethell, The war Hitler won. September 1939, The Penguin Press, London 1972.
Sulla politica estera sovietica è importante la trilogia di Jonathan Haslam e, in particolare, The Soviet Union and the struggle for collective security in Europe, 1933-39, Macmillan, London 1984. Si vedano anche Adam B. Ulam, Storia della politica estera sovietica (1917-1967), Rizzoli, Milano 1970 e Silvio Pons, Stalin e la guerra inevitabile, 1936-1941, Einaudi, Torino 1995.
2 Corsivi miei. Il testo della bozza sovietica del trattato di non-aggressione è in Documents on German foreign policy 1918-1945, serie D, vol. VII, «The last days of peace, August 9-September 3, 1939», Her majesty's stationery office, London 1956, doc. n. 133, pp. 150-1, e in Raymond James Sontag-James Stuart Beddie (a cura di), Nazi-Soviet relations, 1939-1941. Documents from the archives of the German foreign office, Department of State, Washington 1948, pp. 65-6: indicato come Nsr. Nsr, è la prima e fondamentale raccolta di documenti diplomatici sui rapporti fra Germania nazista e Unione Sovietica. Si tratta di documenti tratti dagli archivi del ministero degli Esteri tedesco, presi dagli Alleati nel 1945. L'anno successivo gli statunitensi decisero di pubblicare in edizione a parte i documenti pertinenti ai rapporti nazi-sovietici. S'intende lo scopo politico, ma non esistono dubbi sulla loro autenticità. D'altra parte, lo studio della questione è stato limitato per decenni dall'inaccessibilità degli archivi sovietici. La risposta sovietica a Nsr fu Falsificatori della storia, Edizioni in lingue estere, Moskva 1948.
Si vedano anche Jane Degras (a cura di), Soviet documents on foreign policy, vol. III: 1933-1941, Oxford University Press, London 1953, raccolta di documenti pubblici; E.L. Woodward-Rohan Butler (a cura di), Documents on British foreign policy 1919-1939, terza serie, vol. VI e vol. VII, Her majesty's stationery office, London 1939 (seconda ed. 1967); Documents on German foreign policy 1918-1945, serie D, volumi dal V al VII, Department of State, Washington, 1954 e 1956.
3 Il testo del Protocollo segreto è in Lo scatenamento della seconda guerra mondiale, cit., p. 156.
4 Con il secondo trattato di settembre l'Urss e il Terzo Reich stabilirono i propri confini, «nell'interesse dei loro rispettivi interessi nazionali», all'interno del territorio dello Stato polacco che avevano distrutto; fu Stalin a respingere la possibilità di un residuo statale polacco, fosse pure come Stato-fantoccio. Venne deciso lo scambio di popolazioni, a cui seguì anche lo scambio di prigionieri di guerra polacchi (sulla base della loro residenza), la consegna ai nazisti di oltre 500 antifascisti e comunisti tedeschi e austriaci; un primo protocollo segreto emendò quello del 23 agosto, assegnando la Lituania alla sfera d'interesse sovietica; il secondo protocollo segreto stabilì che «le due parti non tollereranno nei loro territori alcuna agitazione polacca che potesse interessare i territori dell'altra parte. Essi soffocheranno nei loro territori ogni inizio di tale agitazione e si informeranno reciprocamente circa le misure appropriate per questo scopo». Venne inoltre decisa la promozione dei rapporti commerciali tra i due paesi, ciò mentre la strategia degli alleati puntava sullo strangolamento economico della Germania nazista.
5 Corsivi miei. Le direttive di Stalin a Vorošilov sono in Anna M. Cienciala, «The Nazi-Soviet pact of August 23, 1939: when did Stalin decide to align with Hitler, and was Poland the culprit?», in M.B.B. Biskupski (a cura di), Ideology politics and diplomacy in East Central Europe, University of Rochester Press, Rochester 2003, pp. 203-4. Il riferimento alla documentazione sovietica è Dokumenty vneshnei politiki, vol. XXII, 1939, kniga I, n. 597, Moskva 1992.
Il punto sui pieni poteri fa pensare che Stalin disponesse d'informazioni in merito dai servizi di spionaggio; comunque, non è prassi che i militari dispongano di pieni poteri: occorre sempre la ratifica politica.
6 Sull'invasione sovietica della Polonia: Steven Zaloga, L'invasione della Polonia. La "guerra lampo", RBA Italia, Milano 2009; John Erickson, «The Red army's march into Poland, September 1939» e Ryszard Szawłoski, «The Polish-Soviet war of September 1939», entrambi in Keith Sword (a cura di), The Soviet takeover of the Polish Eastern provinces, 1939-41, Macmillan, Basingstoke 1991. La campagna di Polonia nel quadro generale: 1939. Come scoppiò la guerra, cit., e The war Hitler won. September 1939, cit. Segnalo Anita J. Prazmowska, Britain, Poland and the Eastern front, 1939, Cambridge University Press, Cambridge 1987, e Britain and Poland, 1939-1943. The betrayed ally, Cambridge University Press, Cambridge 1998, per un quadro abbastanza vergognoso dell'atteggiamento britannico verso l'alleato. Cosa, però, che non ha nulla a che fare con il complottismo staliniano giustificativo del Patto con Hitler. Nel 1939 gli alleati occidentali pensavano che la Polonia sarebbe stata «salvata» solo dalla sconfitta della Germania in una guerra lunga; e tanto più questo era vero dopo che Hitler ebbe l'appoggio di Stalin.
7 Sui rapporti fra Terzo Reich e Urss nel 1939-1941: Gabriel Gorodetsky, Grand delusion. Stalin and the German invasion of Russia, Yale University Press, New Haven 1999. Impulso per questo lavoro di Gorodetsky venne dalla necessità di contestare la tesi di Viktor Suvorov e altri (Suvorov è lo pseudonimo di Vladimir Bogdanovič Rezun, un ex funzionario del Gru, il servizio segreto militare dell'Urss, rifugiatosi in Gran Bretagna nel 1978), secondo cui Stalin appoggiò Hitler fin dal 1927 e che l'attacco all'Urss fu un colpo d'anticipo a un'offensiva programmata da Stalin. Libri di Suvorov: Icebreaker. Who started the Second World War?, Hamish Hamilton, London 1990; Chief culprit. Stalin's grand design to start World War II, Naval Institute Press, Annapolis, Maryland 2008; Stalin, Hitler, la rivoluzione bolscevica mondiale, Spirali, Milano 2000. Una critica: Teddy J. Uldricks, «The icebreaker controversy. Did Stalin plan to attack Hitler?», in Slavic Review, vol. 58, n. 3, 1999.
La posizione di Suvorov supportava quella di Ernst Nolte nello Historikerstreit in Germania, secondo cui il nazismo non fu altro che una reazione alla rivoluzione russa e i campi di sterminio hitleriani in sostanza la medesima cosa del terrore e dell'arcipelago Gulag staliniani (chi scrive ritiene che per orrori del genere non si possano fare distinzioni, ma che terrore di massa, genocidi nazionali e Gulag staliniani ebbero genesi e finalità diverse dal genocidio nazista). Sulla storia del concetto di genocidio, di come esso nel dopoguerra venne circoscritto per volontà sovietica e per la discussione dei genocidi staliniani è interessante Norman Naimark, Stalins genocides, Princeton University Press, 2010.
8 Si vedano: George Sanford, Katyn e l'eccidio sovietico del 1940. Verità, giustizia e memoria, Utet, Torino 2007; Viktor Zaslavsky, Pulizia di classe. Il massacro di Katyn, Il Mulino, Bologna 2006. Il testo migliore, che riporta 122 documenti, ritengo sia Anna Cienciala, Natalia S. Lebedeva, Wojciech Materski (a cura di), Katyn. A crime without punishment, Yale University Press, New Haven 2007.
9 Ottimo Edward E. Ericson, Feeding the German eagle: Soviet economic aid to nazi Germany, 1933-1941, Praeger, New York 1999, con documentazione statistica e accurata ricostruzione dei negoziati.
10 Le stime di dirigenti e militanti comunisti polacchi assassinati durante il Grande Terrore variano fra 500 e 5 mila; per una mia valutazione l'ordine di grandezza è circa 2.500, non per qualche regola del giusto mezzo ma per estrapolazione da altri dati. Comunque è una congettura, fatto sicuro è lo sterminio dei quadri. Nel 1938 lo scioglimento dei partiti venne interpretato come una mossa di apertura per venire a un qualche accordo con il governo polacco; col senno del poi, vi si può vedere l'intenzione di arrivare alla spartizione della Polonia con Hitler. Deutscher colloca la persecuzione dei comunisti polacchi dentro il meccanismo autoalimentantisi del terrore; e certamente la diffidenza dei burocrati russi verso i polacchi era antica. Questo spiega le repressioni degli individui, ma è meno convincente per quel che riguarda lo scioglimento dei partiti. Questo fatto induce a pensare che forse Stalin avesse in mente qualcosa di particolare per la Polonia. Cosa? Non esistono certezze, solo un dubbio.
Nel quadro dell'«operazione polacca», una delle diverse operazioni repressive condotte contro nazionalità, vennero condannati a morte in 111 mila, su un totale di 681.692 (il dato ufficiale) o 752/741 mila fucilati nei soli anni 1937-1938.
Per il modo in cui venne recepita l'Armata rossa e l'occupazione sovietica in tutti i suoi aspetti si vedano Jan T. Gross, Revolution from abroad. The Soviet conquest of Poland's Western Ukraine and Western Belorussia, Princeton University Press, Princeton 1988, e i saggi contenuti in The Soviet takeover of the Polish Eastern provinces, 1939-41, cit.
11 Segnalo: Robert Conquest, Il Grande Terrore, Mondadori, Milano 1970 e Rizzoli, Milano 1999; John Arch Getty-Oleg V. Naumov, Road to terror. Stalin and the self-destruction of the Bolsheviks, 1932-1939, Yale University Press, New Haven/London 1999; Elena Dundovich, Francesca Gori, Emanuela Guercetti (a cura di), Gulag. Storia e memoria, Feltrinelli, Milano 2004; Oleg V. Chlevnjuk, Storia del Gulag. Dalla collettivizzazione al grande terrore, Einaudi, Torino 2006; Nicolas Werth, Nemici del popolo. Autopsia di un assassinio di massa. Urss 1937-1938, Il Mulino, Bologna 2011. Rimando su questo sito al mio «L'"operazione polacca" nel quadro del Grande Terrore di Stalin, 1937-1938» e a Roberto Massari, «Precisazioni sul Gulag».
Sulla persecuzione di antifascisti e comunisti italiani rifugiatisi in Unione Sovietica cito da Elena Dundovich, Francesca Gori ed Emanuela Guercetti, «L'emigrazione italiana in Urss: storia di una repressione», in Gulag. Storia e memoria, cit.: «complessivamente furono circa 1.000 gli italiani che, tra il 1919 e il 1951, subirono una qualche forma di repressione latu sensu: fucilazione, internamento in un campo di lavoro, deportazione, confino, espulsione, privazione dei diritti civili». Nello stesso volume si riporta che nel 1934-36 vennero arrestati 51 italiani, di cui 11 fucilati; e che nel 1937-38 ne vennero arrestati 204, ma non si capisce se i fucilati furono 105 oppure 96.
Segnalo i volumi autoprodotti di Dante Corneli (1900-1990), comunista italiano costretto a rifugiarsi in Urss per aver ucciso nel 1922 il segretario del fascio di Tivoli. Venne arrestato nel 1936 e passò i successivi undici anni come deportato nell'area carbonifera di Vorkuta; arrestato nuovamente nel 1949 e deportato nella cittadina di Igarka, oltre il circolo polare artico, dove rimase fino alla riabilitazione nel 1960. Della serie Lo stalinismo in Italia e nell'emigrazione antifascista segnalo in particolare: 3: Rappresentanti del Comintern, dirigenti e funzionari di partito. Persecutori e vittime, s.l., 1979 (tip. monotipia Ferrante di Tivoli, come gli altri); 4: Il dramma dell'emigrazione italiana in Unione Sovietica; 5: Elenco delle vittime italiane dello stalinismo. (Dalla lettera "A" alla "L"), 1981; 6: Elenco delle vittime italiane dello stalinismo. (Dalla lettera "M" alla "Z"), 1982; 7: Due lettere aperte del redivivo tiburtino agli ex senatori comunisti Vittorio Vidali e Antonio Roasio, Villanova di Guidonia 1983. Di Alfonso Leonetti, stretto collaboratore di Gramsci nel gruppo dell'Ordine Nuovo, di cui fu anche redattore capo, tra i fondatori del Pcd'I, direttore de L'unità, membro del primo centro illegale del partito in Italia e della Segreteria, espulso con Tresso e Ravazzoli nel 1930 per essersi opposto alla svolta del «terzo periodo», si vedano: Vittime italiane dello stalinismo in Urss, La salamandra, Milano 1978; Un comunista (1895-1930), Feltrinelli, Milano 1977. Si segnala inoltre: Antonella Marazzi (a cura di), Alfonso Leonetti. Storia di un'amicizia. Testi inediti, ricordi e corrispondenza con Roberto Massari, 1973-1984, Massari editore, Bolsena 2004.
12 Ritengo che il testo migliore sulla repressione nel Comintern sia William Chase, Enemies within the gates? The Comintern and the stalinist repression, 1934-1939, Yale University Press, New Haven/London 2001, con 47 documenti: verbali, risoluzioni, lettere interne e telegrammi del Comintern, documenti prodotti dagli inquisiti.
13 Documents on British foreign policy 1919-1939, terza serie, vol. VII, 1939, appendix II: «Further material on the Anglo-Franco-Soviet military conversations in Moscow, August 1939», doc. 1, in Minutes of Meetings of the Anglo-Franco-Soviet Military Delegations held in Moscow, August 1939, p. 575.
14 Sulla storia dell'Armata rossa: Roger R. Reese, The Soviet military experience. A History of the Soviet Army, 1917–1991, Routledge, London/New York 2000; John Erickson, The Soviet High command, Macmillan, New York/London 1962 (terza ed. Frank Cass, London 2001). Nella storia della guerra l'aspetto teorico, la dottrina che guida la preparazione delle forze in tempo di pace e il loro utilizzo in guerra è una questione cruciale per la definizione dei rapporti tra militari e politici. La condanna della dottrina elaborata dai militari purgati significò, tra l'altro, l'equiparazione a sabotaggio dell'uso di formazioni meccanizzate e di cavalleria indipendenti per la penetrazione in profondità, e il ritorno a uno schieramento lineare. Fu il colpo della Wehrmacht, devastante non solo e forse non tanto per superiorità tecnica ma per concezione, a costringere i sovietici a «riscoprire» la loro stessa dottrina - a prezzo carissimo - che i tedeschi avevano in parte assimilato. Sulla dottrina militare sovietica: David M. Glantz, Soviet military operational art. In pursuit of deep battle, Frank Cass, London 1991; Richard W. Harrison, Architect of Soviet victory in World War II. The life and theories of G.S. Isserson, McFarland & Company, Jefferson, North Carolina, 2010. Per far comprendere l'impatto dell'epurazione staliniana sull'alto comando, Richard Harrison (p. 180) fa questa comparazione: nel 1941-45 l'Armata rossa perse 180 ufficiali dal rango di comandante di divisione in su; durante la purga ne perse 500, di cui 412 fucilati e 29 morti in prigione.
Sui rapporti fra guerra, produzione e pianificazione, in anni recenti si distingue Mark Harrison, Accounting for war soviet production, 1940-1945, Cambridge University Press, Cambridge 2002; a sua cura, Guns and rubles. The defense industry in the stalinist state, Yale University Press, New Haven 2008; e «The USSR and total war. Why didn't the Soviet economy collapse in 1942?», in Chickering, Roger, Förster, Stig, Greiner, Bernd (a cura di), A World at total war. Global conflict and the politics of destruction, 1937-1945, Cambridge University Press, Cambridge 2004. Harrison scrive che «entro la fine del 1942, sul fronte russo erano state vinte battaglie decisive. Ma il prezzo fu una mobilitazione economica eccessiva, che spogliò di risorse il settore civile e l'infrastruttura economica generale, che non ne lasciò a sufficienza per mantenere la popolazione e lo stock di capitale. Era diventato immensamente urgente ampliare il flusso di risorse per questi usi. I primi segni di ripresa della produzione nazionale nel 1943 da soli non erano sufficienti, e il simultaneo rapido accumularsi di aiuti stranieri fu una condizione necessaria per lo sviluppo della controffensiva strategica sovietica nel 1943» («The Soviet Union: the defeated victor», in Richard W. Harrison (a cura di), The economics of World War II. Six great powers in international comparison, Cambridge University Press, Cambridge/New York 1998, p. 287.
Qui si tocca un tasto assai dolente per la storiografia ufficiale sovietica e la narrazione mitica della Grande guerra patriottica, quello dell'importanza dell'aiuto degli Alleati, in particolare degli Stati Uniti, allo sforzo bellico. La questione diventa bruciante quanto si compara questo aiuto a ciò che l'Urss ottenne dal Terzo Reich: nel settore militare essenzialmente materiale navale che durante la guerra rimase inutilizzato. D'altra parte, «per l'interno periodo della collaborazione nazi-sovietica, la Germania aveva spedito beni per un valore inferiore a 500 milioni di Reichsmarks. Nel solo 1942, gli Alleati inviarono ai russi 1,36 miliardi di dollari di materiali vari, per un valore di più di 5 miliardi di Reichsmarks! Per il 1944, la cifra era salita a 3,44 miliardi di dollari (Feeding the German eagle: Soviet economic aid to nazi Germany, 1933-1941, cit., p. 182).
15 Per la combinazione di fatti, distorsioni e omissioni, un esempio in questo senso, senz'altro consigliato ai nostalgici del «padre di tutti i popoli», è il libro di Clement Leibovitz e Alvin Finkel, Il nemico comune. La collusione antisovietica fra Gran Bretagna e Germania nazista, Fazi, Roma 2005, la cui tesi s'intende dal titolo. Il libro è la versione più articolata, aggiornata e radicale di Falsificatori della storia, del 1948. Non val la pena di perdersi in una infinità di dettagli. Il valore della ricostruzione si comprende dal fatto che il Patto fra Hitler e Stalin, certamente l'atto di politica internazionale più importante dell'Urss negli anni Trenta, qui si riduce a qualche riga asettica. Del resto tutto si spiega con l'idea della «perfida Albione» in salsa staliniana. Gli autori dedicano però undici pagine ai piani britannici e francesi di operazioni militari contro l'Urss nel 1939-1940. È cosa nota e, direi, ovvia: infatti Stalin era obiettivamente alleato di Hitler e stante la strategia alleata dello strangolamento economico della Germania nazista era ovvio e giusto che quei piani dovessero essere formulati; sarebbe sorprendente il contrario. Quindi fu per questo che francesi e britannici studiarono piani per operazioni contro Baku (in Azerbaigian), cui faceva capo gran parte della produzione petrolifera sovietica; oppure, per bloccare i Dardanelli e il delta del Danubio o per bombardare o impadronirsi dei pozzi di petrolio della Romania. Considerarono anche la possibilità di intervenire a favore della Finlandia nella guerra iniziata per iniziativa sovietica alla fine del novembre 1939: sarebbe stata operazione parte di una più ampia campagna mirante a fermare il trasporto di ferro dalla Svezia alla Germania. Questa è una delle ragioni per cui forze francesi, britanniche e polacche - dell'esercito polacco in esilio, tra cui un sommergibile - sbarcarono sulle coste della Norvegia nei primi giorni dell'aprile 1940. Tuttavia, questi piani non furono mai realizzati, non solo per difficoltà tecnico-militari o politiche (la collaborazione della Turchia, ad esempio), ma per una considerazione politica più ampia. Benché l'Urss collaborasse con il Terzo Reich, francesi e britannici si aspettavano che, prima o poi, quest'alleanza di fatto entrasse in crisi: quindi decisero di non far nulla che potesse spingere Stalin ad abbracciare ancor più strettamente Hitler. Con una curiosa acrobazia logica - o meglio con una delirante argomentazione paranoide-complottistica in contrasto con la dura realtà - la propaganda filostaliniana sostiene che Francia e Gran Bretagna avessero dichiarato guerra alla Germania per giungere alla guerra con l'Urss. In tal caso, quale migliore occasione ebbero gli inglesi per far pace con Hitler e unirsi a lui nella crociata antibolscevica che quella offerta dalla sfolgorante offensiva tedesca contro l'Urss nel giugno 1941? Allora, per quale ragione quella «collusione», per tanti anni agognata e praticata, infine non concretizzò il suo obiettivo più ambizioso? Per quale ragione anche la Gran Bretagna fornì aiuti materiali all'Urss?
Quella di Leibovitz e Finkel e altri tardostalinisti è la stessa forma mentale, ma con contenuto specularmente opposto, di chi sostiene che Stalin avrebbe sostenuto Hitler - in ultimo col Patto del 1939 – perché lo considerava il rompighiaccio della rivoluzione europea, per dirla alla Suvorov: nel senso, attenzione, non della più feroce repressione antidemocratica e anticomunista, ma perché involontario agente della rivoluzione attraverso la guerra. D'altra parte, non c'è dubbio che la linea del «terzo periodo» del Comintern, in particolare la tesi che equiparava socialdemocrazia e fascismo, agevolò - involontariamente - i nazisti, dividendo i lavoratori quanto il legalitarismo socialdemocratico (il «terzo periodo» copre gli anni tra il IX plenum del Comitato esecutivo del Comintern del febbraio 1928 e il suo VI congresso (luglio-settembre 1928), fino al 1934 - adesione dell'Urss alla Società delle nazioni e convergenza tra partito comunista e Sfio in Francia - e al VII e ultimo congresso del Comintern (fine luglio-agosto 1935), che adottò - tipicamente senza alcuna autocritica - la linea dei fronti popolari con gli ex «socialfascisti» e i partiti borghesi «progressisti». Significativo che questa svolta del Comintern fosse anticipata dall'alleanza difensiva tra Francia e Urss nel maggio 1935.
16 Ma è sbagliato - e fare il gioco della destra - non distinguere tra le diverse correnti del nazionalismo ucraino: durante la guerra fu diviso tra una componente che collaborò pienamente con i nazisti e un'altra - quella capeggiata da Stepan Bandera, internato con altri nel campo di concentramento nazista tra il 1942 e il 1944, ostile sia ai tedeschi che ai sovietici, ai secondi più che ai primi, nonché tutti feroci liquidatori di polacchi e di ebrei.
Inoltre, come in altri casi, ad es. Castro e Chávez, anche tra i nazionalisti che rimasero all'interno dell'Ucraina si verificò un'evoluzione che li portò ad abbandonare ideologia e programma precedenti, con risultati assai sorprendenti. Si vedano le istruzioni interne di Petro Fedun «Poltava», direttore del centro di propaganda dell'Organizzazione dei nazionalisti ucraini e dell'Esercito insurrezionale ucraino, del gennaio 1946, ritrovate negli archivi dei servizi di sicurezza dell'Ucraina e pubblicate nel 2013. Vi si legge che occorre fare una netta distinzione fra stalinismo e socialismo; che non bisogna confondere imperialismo stalinista e popolo russo; «che non si può attaccare solo il sistema bolscevico e tacere sul capitalismo, ma dobbiamo obbligatoriamente attaccare allo stesso tempo entrambi i sistemi»; esprime sostegno alle lotte di liberazione nazionale in Vietnam e in Indonesia; si augura la vittoria delle sinistre in Francia e in Gran Bretagna. Questi che erano clandestini in Ucraina erano in rottura con il centro estero dell'Oun di cui era a capo Bandera. Insomma, un quadro completamente diverso dallo stereotipo di un nazionalismo ucraino monoliticamente nazista, privo di differenze interne e di evoluzione, che è stato alimentato dalla propaganda sovietica, dalla non conoscenza della documentazione secretata, dalla barriera linguistica. Prendo queste informazioni dal sito di Zbigniew Marcin Kowalewski, militante rivoluzionario, dirigente di Solidarność prima del golpe, esperto del nazionalismo ucraino. Si vedano, sul sito zmkowalewski.pl: «Poltava: on some political and propaganda mistakes» (riporta anche il testo delle istruzioni in ucraino); «Ukraine: revolutionary nationalism and the anti-bureaucratic revolution» (1985) e l'«aggiornamento del 2015».
Per la discussione dei problemi della storia ucraina di rilievo politico, David R. Marples, Heroes and villains. Creating national history in contemporary Ukraine, Central European University, Budapest 2007.
17 Si veda a proposito Ernest Mandel, The meaning of the Second world war, Verso, London 1986, in particolare la sintesi a p. 45. Per il loro specifico significato sociale e politico Mandel distingueva nella Seconda guerra mondiale cinque diversi conflitti: a) la guerra inter-imperialista per l'egemonia mondiale, vinta dagli Stati Uniti; b) «la giusta guerra di autodifesa da parte dell'Unione Sovietica contro un tentativo imperialista di colonizzare il paese e distruggere le conquiste della rivoluzione del 1917»; c) «una giusta guerra del popolo cinese contro l'imperialismo che si sarebbe sviluppata in una rivoluzione socialista»; d) «una giusta guerra dei popoli coloniali asiatici contro le varie potenze militari e per la liberazione nazionale e la sovranità, che in alcuni casi (ad esempio, Indocina) si sarebbe estesa in rivoluzione socialista; e) «una giusta guerra di liberazione nazionale combattuta dalle popolazioni dei paesi occupati d'Europa, che sarebbe diventata rivoluzione socialista (Jugoslavia e Albania) o guerra civile aperta (Grecia, nord Italia). Nell'Oriente europeo, il vecchio ordine crollò sotto la doppia, irregolare pressione delle aspirazioni popolari e dell'azione militare-burocratica sovietica, mentre nell'Europa occidentale e meridionale l'ordine borghese fu restaurato - spesso contro la volontà delle masse - da parte delle truppe alleate occidentali. Con l'uso dell'espressione «rivoluzione socialista» Mandel rende l'idea della rottura con l'imperialismo e delle potenzialità rivoluzionarie, ma il corso di queste rotture fu segnato fin dall'inizio dalla burocratizzazione sull'esempio stalinista; e nell'Europa centrale e orientale furono l'Armata rossa e l'occupazione sovietica ad avere il ruolo preminente nel determinare il destino dei popoli.
18 Per la storia delle cifre delle vittime di guerra sovietiche e l'analisi dei dati: Michael Ellman-S. Maksudov, «Soviet deaths in the Great patriotic war: a note», in Europe-Asia Studies, vol. 46, n. 4, 1994. Ellman e Maksudov concludono con queste osservazioni: a) la cifra di 26-27 milioni è la stima della «perdita di popolazione durante la guerra», non tutta direttamente causata dalla guerra, quindi include anche vittime della repressione sovietica e cittadini sovietici che combattevano con i nazisti e anche l'emigrazione netta; esistono incertezze per i territori annessi nel 1939-40 e rimasti all'Urss nel 1945; non sono compresi i feriti in guerra morti dopo la fine del conflitto; b) la cifra non comprende la perdita di circa due milioni di tedeschi, finlandesi e giapponesi espulsi o fuggiti dai territori occupati dall'Urss; c) la cifra sottostima l'effetto demografico della guerra in quanto esclude gli effetti della caduta della natalità da essa conseguente. Una stima ipotetica di questo effetto eleverebbe la perdita demografica a 35 o 40 milioni, a seconda del tasso di natalità applicato; d) gli autori ritengono sovrastimata di 900 mila unità la cifra di 8,7 milioni di militari uccisi in servizio; d'altra parte, negli 8,7 milioni non sono compresi coscritti uccisi prima che raggiungessero le loro unità né i partigiani, difese antiaeree locali, polizia in aree di frontiera ecc.; e) il problema maggiore rimane quello della determinazione delle vittime civili.
19 Citazione The Soviet military experience. A history of the soviet army, 1917-1991, cit., p. 137. Sull'esperienza complessiva della guerra con la Germania, consiglio anche I soldati di Stalin. Vita e morte nell'Armata rossa, 1939-1945, Mondadori, Milano 2007.
20 Sulla storia della storiografia sovietica e russa si vedano: R.W. Davies, Soviet history in the Gorbachev revolution, Palgrave Macmillan, London 1989 e Soviet history in the Yeltsin era, Palgrave Macmillan, London 1997. In particolare sulla storiografia, la memoria e la mitizzazione in funzione di legittimazione della Grande guerra patriottica, ieri e oggi: Nina Tumarkin, The living and the dead. The rise and fall of the cult of World War II in Russia, Basic Books, New York 1994; Catherine Merridale, «War, death, and remembrance in Soviet Russia», in J. Winter-E. Sivan (a cura di), War and remembrance in the twentieth century, Cambridge University Press, Cambridge 1999; Teddy J. Uldricks, «War, politics and memory. Russian historians reevaluate the origins of World War II», in History and Memory, vol. 21, n. 2, 2009; Thomas Sherlock, Historical narratives in the Soviet Union and post-Soviet Russia. Destroying the settled past, creating an uncertain future, Palgrave Macmillan, New York 2007; Patrick Finney, Remembering the road to World War Two. International history, national identity, collective memory, capitolo I («On virtue: Stalin's diplomacy and the origins of the Great patriotic war»), Routledge, London/New York 2010.
Il punto di vista lituano nel fatidico 1989: Kęstutis Girnius, «The historiography of the Molotov-Ribbentrop Pact», in Lituanus, vol. 34, n. 2, 1989; Asta Banionis, «The Summer of 1988 and the Molotov-Ribbentrop Pact in Lithuania», in Lituanus, vol. 35, n. 1, 1989.
21 A questo proposito poco importa che la sovietizzazione dell'Europa centrale fosse una reazione al tentativo statunitense e britannico di «riprendersi» nel primo dopoguerra quel che Churchill e Roosevelt avevano dovuto riconoscere alla conferenza di Yalta, la divisione dell'Europa fra un'area d'influenza anglosassone e una sovietica - stante la necessità di mantenere l'alleanza con l'Urss contro l'Asse e la situazione militare in Europa centrale. Quella che dal punto di vista della dirigenza sovietica era una mossa difensiva, era invece una mossa offensiva per l'indipendenza nazionale e la libertà dei popoli interessati di decidere da sé, quale che fosse, il proprio regime politico e sociale. Infatti gli accordi di Yalta sono considerati un tradimento da gran parte dell'opinione e dei politici polacchi, baltici e ucraini - non, ovviamente, dai filorussi e dai nostalgici. Negli Stati Uniti Yalta è attaccata dai repubblicani come svendita dell'Europa centrale e orientale ai comunisti: nel 2005 il presidente Bush la paragonò alla conferenza di Monaco e al Patto Molotov-Ribbentrop; è invece difesa in quanto necessità dai democratici. In Russia è difesa dal governo e dai nazionalisti. Si veda Serhii Plokhy, Ukraine and Russia. Representations of the past, capitolo V («Remembering Yalta»), University of Toronto Press, Toronto 2008.
22 Sui Protocolli e la storia della loro «scoperta»: L. Bezymensky, «The secret protocols of 1939 as a problem of Soviet historiography», in G. Gorodetsky (a cura di), Soviet foreign policy, 1917–1991. A retrospective, Cass, London 1994.
23 Ilya Prizel, National identity and foreign policy. Nationalism and leadership in Poland, Russia and Ukraine, Cambridge University Press, Cambridge 1998.
24 Sulla guerra civile in Ucraina consiglio gli articoli di Zbigniew Marcin Kowalewski nel blog di UR: «Ucraina: le guardie bianche russe nel Donbass» e «Imperialismo russo».
25 Per la rassegna delle interpretazioni del Patto fra Hitler e Stalin: Geoffrey K. Roberts, «On Soviet-German relations. The debate continues. A review article», in Europe-Asia Studies, vol. 50, n. 8, 1998; Teddy J. Uldricks, «Debating the role of Russia in the origins of the Second World War», in Gordon Martel (a cura di), "The origins of the Second World War" reconsidered. The A.J.P. Taylor debate after twenty-five years, Routledge, London 1992.
26 Il maggior rappresentante della linea «realistica» è Geoffrey K. Roberts: The unholy alliance. Stalin's pact with Hitler, I.B. Tauris, London 1989; «The Soviet decision for a pact with nazi Germany», in Soviet Studies, vol. 44, n. 1, 1992; «The fall of Litvinov: a revisionist view», in Journal of contemporary history, vol. 27, 1992; The Soviet Union and the origins of the Second World War. Russo-German relations and the road to war, 1933-1941, Macmillan, Basingstoke 1995. Anche Michael Jabara Carley, «End of the "low, dishonest decade": failure of the Anglo-Franco-Soviet alliance in 1939», in Europe-Asia Studies, vol. 45, n. 2, 1993 e 1939. The alliance that never was and the coming of World War 2, I.R. Dee, Chicago 1999.
27 Nel 1939 Ždanov era membro dell'Ufficio politico e della Segreteria, a capo del dipartimento di agitazione e propaganda del Comitato centrale del partito, capo del partito a Leningrado, presidente del Soviet della Repubblica russa.
28 La prima, più interessante e umanamente intensa versione di questa linea spetta a Walter Germanovič Krivitsky, alias Samuel Ginsberg, che nel 1939 pubblicò In Stalin's secret service. An exposé of Russia's secret policies by the former chief of the Soviet Intelligence in western Europe, Harper & brothers, New York and London 1939. Krivitsky nacque in una famiglia ebraica della Galizia e presto entrò nel servizio segreto sovietico, lavorando all'estero. Era molto amico di un altro agente con cui aveva svolto operazioni pericolose, Ignace Reiss. Le purghe e il ripensamento della politica di Stalin convinsero Reiss a non tornare a Mosca e restituendo l'Ordine della bandiera rossa scrisse a Stalin che non poteva portare la medaglia «insieme ai boia dei migliori rappresentanti dei lavoratori russi» e che aderiva alla Quarta internazionale. Fu attratto in un tranello dal servizio segreto sovietico e massacrato a colpi di mitra. L'assassinio dell'amico Reiss convinse Krivitsky a seguirne l'esempio nel 1938, quando era responsabile delle operazioni in Europa occidentale. Ebbe rapporti con Victor Serge, Henk Sneevliet e Lev Sedov, il figlio di Trotsky. Nel 1938 Lev Sedov morì in circostanze non chiare, probabilmente assassinato; Sneevliet venne fucilato dai nazisti nel 1942 in Olanda, dove era tornato per organizzare la resistenza. E Krivitsky venne trovato morto a Washington nel 1941, quasi certamente eliminato dal servizio segreto sovietico.
Nel suo libro Krivitsky ricordò i tentativi di Stalin di avvicinarsi a Hitler nella prima metà degli anni Trenta e scrisse: «gli atti della politica di appeasement di Stalin nei confronti di Hitler - sia gli atti pubblici che quelli segreti - rivelano che quanto più aggressiva diventava la politica di Hitler, tanto più Stalin spingeva avanti il suo corteggiamento. E più strenuamente Stalin lo corteggiava, più audaci erano le aggressioni di Hitler» (ibidem, p. 4); oppure, a proposito dell'assai discussa missione di Kandelaki a Berlino nel 1937: «poiché Stalin stava giustiziando i suoi vecchi compagni bolscevichi come spie naziste e nello stesso tempo egli stesso stava conducendo negoziati segreti con Hitler, ovviamente queste trattative non potevano essere di ampia conoscenza. Negli alti circoli sovietici non era un segreto che Stalin si era a lungo sforzato per giungere a un accordo con Hitler. Erano passati quasi tre anni da quando la notte della sanguinosa purga in Germania lo aveva convinto - mentre era ancora in corso - che il regime nazista era fermamente consolidato, e che egli doveva venire a patti con questo potente dittatore» (ibidem, p. 126). In effetti, Kandelaki era vicecommissario al Commercio con l'estero: la sua missione aggirava il Narkomindel. Per questo può essere visto come agente di una linea diversa da quella di Litvinov, ministro degli Esteri fino al 2 maggio 1939, quando fu sostituito da Molotov.
Oltre a Robert Tucker e Suvorov, si veda R.C. Raack, Stalin's drive to the West, 1938–1945. The origins of the Cold war, Stanford University press, Stanford 1995. Nella versione più moderata Stalin avrebbe preferito accordarsi con Hitler invece che con le potenze liberali, ma il rifiuto oppostogli lo avrebbe costretto alla linea della sicurezza collettiva, fino a realizzare il proposito iniziale nel 1939.
29 Un esempio notevole in questo senso fu l'atteggiamento di grande sospetto da parte di Berija verso le preziose informazioni che provenivano da agenti piazzati nel programma nucleare statunitense durante la guerra, ad esempio dal fisico nucleare Klaus Fuchs, comunista tedesco fuggito in Gran Bretagna, del tutto sprezzante di una eventuale retribuzione del suo servizio. Fuchs confessò nel 1950, fu condannato a 14 anni di carcere ma fu liberato nove anni dopo, per poi emigrare nella Ddr.
30 Si vedano: Teddy J. Uldricks, «The impact of the great purges on the People's commissariat of foreign affairs», in Slavic review, 36, 1977; Alastair Kocho-Williams, «The Soviet diplomatic corps and Stalin's purges», in The Slavonic and East European review, vol. 86, gennaio 2008.
31 Per questo si veda Gorodetsky, Grand delusion. Stalin and the German invasion of Russia, cit., pp. 306-7, che cita ampiamente la descrizione dell'atmosfera del Cremlino a pochi giorni dalla guerra da parte del decano degli ambasciatori a Mosca, lo svedese Assarasson, e riporta anche parole di Aleksandra Kollontaj, allora ambasciatrice sovietica in Svezia, il giorno successivo all'attacco nazista: «certamente [Stalin] sperava e credeva che la guerra non sarebbe scoppiata senza previ negoziati con i quali si sarebbe trovata una soluzione per evitarla».
32 Una visione non equiparabile alla «esportazione» a mano armata della rivoluzione, benché un passo interpretabile in quel modo fu l'estensione della controffensiva, che fallì, dopo l'attacco polacco nel 1920. Trotsky era contrario, Lenin gli riconobbe ragione.

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