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venerdì 19 febbraio 2016

THE PROGRAM (Stephen Frears, 2015), di Antonio Marchi

Lance Armstrong e l'ossessione di vincere

[…] 4. QUANDO BARTALI E COPPI CORREVANO IN BICICLETTA
La partenza è l'Aubisque.
L'arrivo è l'Izoard.
Minuti di ritardo. L'episodio cruciale. E al tramonto
sul traguardo il colpo di reni, un colpo di pedale.
La memoria non si caccia via coi sassi come un cane.
La memoria è storia non è oblio.
QUANDO COPPI E BARTALI
ero giovane anch'io.
Gino sembrava un todesco, Fausto un gatto
anzi no, una livra
e andava su storto per la fatica prima di scomparire sotto
un ponte dietro l'acqua del fiume.
Era sudato e come un lume senza più olio è andato a morire.
(Roberto Roversi, da L'Espresso, 29 luglio 1979)

Cominciò tutto dopo la morte tragica di Fabio Casartelli, caduto per sempre sulle strade del Tour del '95. Il giorno dopo, i sei compagni di squadra di Casartelli tagliarono il traguardo schierati uno di fianco all'altro: vincitori per decisione di tutti gli altri, per ricordare uno del gruppo, lasciando arrivare per primo, mezza ruota avanti, Andrea Peron, amico più amico di Fabio. Due giorni dopo, un giovanissimo e sconosciuto atleta in maglia Motorola, Lance Armstrong - che non aveva ancora conosciuto lo spettro della malattia e l'onta del doping - vinse a mani alzate e con lo sguardo rivolto al cielo per onorare e salutare il compagno di squadra scomparso. Tutti i cicloamanti non dimenticano il dito di Armstrong che indica lassù, mentre vince a Limoges.
Vita a pedali, morte sportiva e miracoli chimici di un texano che amava solo vincere. A ogni costo… come a ogni costo ha lottato per anni e vinto la battaglia contro quel male maligno che sotto forma di metastasi voleva sottrarlo alla vita, come alle gare.
Dopo anni di sollecitazioni, il texano ha ammesso in un'intervista televisiva di aver effettivamente assunto sostanze proibite durante gran parte della sua carriera. «Il piano era conservativo, - ha ripetuto - per niente rischioso e matematico», ha aggiunto descrivendo il programma di doping della squadra US Postal. Armstrong ha ammesso di capire di non avere più credibilità e si è detto dispiaciuto che le sue bugie abbiano alimentato la speranza delle vittime del cancro, malattia da lui sconfitta: «Ho dato loro speranze, ho fatto pensare che la storia era perfetta. Mi piacerebbe cambiare tutto questo, ma non posso». L'ex ciclista ha fatto anche ammenda per esser stato tanto aggressivo con i giornalisti che sospettavano di lui: «È stato un tremendo errore».
Lo statunitense ha poi riferito di aver iniziato a doparsi nel 1995, durante quello che ha denominato «un movimento tettonico» che ha elevato il livello del doping nello sport della bicicletta. «Sentivamo che non c'era altra possibilità. Ovviamente c'era, saremmo potuti andare tutti a casa, ma sentivamo che per competere a quel livello non c'era un'altra opzione». Nonostante abbia iniziato a doparsi nel 1995 - e lo abbia fatto almeno fino al suo ritiro nel 2005, quando vinse il suo settimo Tour de France - l'ex ciclista ha assicurato che «il 99%» della sua carriera non ha niente a che vedere con il doping. Il grande bugiardo stavolta non ha voluto spergiurare. E ha fatto i nomi. Interrogato sotto giuramento nella causa intentatagli dalla società americana di assicurazioni Acceptance, Lance Armstrong - per la prima volta da quando nel gennaio del 2013 confessò in diretta TV a Oprah Winfrey di essersi dopato per anni (ammissione che gli è costata la perdita dei sette titoli vinti al Tour) - ha finalmente «cantato»: a fornirgli le sostanze illegali erano il trainer Pepe Martí e i medici Pedro Celaya, Luis García del Moral e Michele Ferrari.

The Program (diretto da Stephen Frears, regista inglese) mostra un ciclismo senza più fascino che ci fa vivere fatiche e brividi degli scalatori grazie a mini macchine da presa montate sulle bici, ma ci spiega subito che chi vince bara.
Sullo schermo scorrono la nascita del mito Armstrong e il «programma» del titolo: siringhe nelle lattine, maglie gialle e omertà. Da una parte Walsh (il giornalista) sospetta, indaga, finisce isolato; dall'altra il texano (Armstrong) inganna ingenui test antidoping, manipola e minaccia, si purifica nel fiume glorioso della lotta al cancro. Sappiamo come va a finire, ma un giallo può essere avvincente anche se si conosce in anticipo l'assassino. Le scene ambientate al Tour sono state filmate sul Galibier, in Francia, ingaggiando ex ciclisti come Andreas Klier e Servais Knaven. Mentre David Millar, che conosce molto bene il doping, faceva da consulente, Ben Foster passava sei settimane ad allenarsi in Colorado per riprodurre la postura di Armstrong. «Sembra un cobra attorcigliato», spiega l'attore, che per calarsi al meglio nei panni del ciclista racconta di essersi sottoposto a un trattamento di doping «sotto stretto controllo medico». I suoi sentimenti nei confronti di Armstrong sono «contrastanti, bisogna tener presente il periodo storico, guardare gli altri corridori, riconoscere che forse non era solo lui ad avere delle zone oscure». Immagine ideale per un film - conclude Foster - «incentrato sull'ossessione di arrivare primo e che solleva interrogativi: Lance vinceva perché ingannava o è uno dei più grandi di sempre perché ha fatto ciò che facevano gli altri, ma meglio?». Lui non risponde. Però confessa di essersi dopato per capire cosa significhi. Ammettendo amaramente: «Funziona»…
Il mondo ha bisogno di eroi e Lance Armstrong è stato uno dei suoi massimi eroi sportivi. Dopo una lunga ed estenuante battaglia contro il cancro, nel 1999 Lance tornò alla sua carriera ciclistica, più determinato che mai a vincere il Tour de France. Con l'aiuto del famigerato medico italiano Michele Ferrari (interpretato da Guillaume Canet) e del caposquadra Johan Bruyneel (Denis Ménochet) sviluppò il programma di doping più sofisticato della storia di questo sport, che permise a Lance e ai suoi compagni di squadra nordamericani di dominare il mondo del ciclismo.
Tuttavia, non tutti credettero alla favola. Il giornalista del Sunday Times David Walsh (Chris O'Dowd), che in un primo momento fu affascinato dal carisma e dal talento di Lance, cominciò presto a chiedersi se «il più grande atleta del mondo» fosse «pulito». Walsh cercò di scoprire la verità e intraprese una guerra con Armstrong che pose a rischio la sua carriera giornalistica, mettendogli contro l'intera comunità ciclistica. La battaglia costò al Sunday Times, la sua testata, centinaia di migliaia di dollari in spese legali. L'infaticabile Walsh riuscì finalmente a scoprire la verità, e sebbene allora poche persone erano pronte a farsi avanti per parlare rivelò al mondo uno dei più grandi inganni dei nostri tempi. «Armstrong era estremamente lucido e intelligente, da una parte un eroe, sopravvissuto al cancro e impegnato sul fronte della beneficenza, dall'altra un diavolo che, per sette anni, ha continuato a rubare premi»… e fiducia.
Impresa sorprendente, sostiene Frears, ma non realizzata in solitaria, e soprattutto non lontana da comportamenti molto diffusi: «Siamo tutti un po' bugiardi… Nell'ambiente di Armstrong esisteva l'omertà, non posso aggiungere altro, ma so che c'era».
Nel film il regista evita accuratamente ogni tipo di interpretazione assolutoria: «Orson Welles diceva che non tutto si può ricondurre a una motivazione psicologica. Possiamo dire, al massimo, che Armstrong sia stato vittima di una tentazione». Il pensiero corre a Michele Ferrari, il medico inventore del programma di doping «più sofisticato della storia del ciclismo». D'altra parte c'è poco da stupirsi: «Basta aprire i giornali, viviamo in un'epoca di corruzione dilagante, certe storie sembrano romanzi e sono realtà».
«È stata tutta una grossa bugia. Mi sono dopato per vincere i sette Tour. Altrimenti sarebbe stato impossibile. Ora chiedo scusa e pago il prezzo». La confessione tanto attesa va in onda. Lance Armstrong alza bandiera bianca dopo anni di bugie e risponde con una raffica di «yes» alle domande della regina dei talk show sull'uso di Epo, trasfusioni, testosterone, ormone della crescita. Un «sì» riassuntivo estende le pratiche illecite ai sette Tour de France vinti tra il 1999 e il 2005.
Senza la spinta del doping non sarebbe stato possibile vincere: «Non secondo me». Per tredici anni, il «cowboy» ha negato ogni accusa. Ora, con l'immagine a pezzi e il rischio di procedimenti, vuota il sacco. «Perché ora? È la domanda migliore, la più logica. Non so se ho la risposta giusta. Comincerò dicendo che è tardi per molte persone ed è colpa mia. È stata una grande bugia ripetuta tante volte», dice pensando ad una «storia perfetta» - «battere la malattia, vincere sette Tour, un matrimonio felice» - che «non era vera».
Alla fine, dice, era diventato «impossibile» continuare. Il doping, ripete Armstrong, era l'unica soluzione per vincere. «Non ho inventato io quella cultura, ma non ho provato a fermarla. E di questo devo scusarmi, è qualcosa per cui lo sport ora sta pagando un prezzo. Mi dispiace», ma «io avevo accesso a quello che era disponibile per tutti». Farebbe qualsiasi cosa per la vittoria? «In linea di massima. Vincere era importante, è importante. Voglio ancora vincere, ma adesso vedo le cose in maniera un po' diversa. Molte mie risposte oggi sarebbero differenti». L'agenzia antidoping statunitense (Usada) ha radiato Armstrong dopo averlo giudicato il cardine del più complesso sistema antidoping mai visto. «No. - ribatte lui - Era professionale, senz'altro scaltro ma anche molto prudente. Ma non è vero che fosse un programma più ampio rispetto a quello della Germania Est degli anni '70 o '80: non è vero». L'Usada assegna a Armstrong un ruolo da «boss»: «Io ero il leader del team, ma non il general manager o il direttore sportivo. Il leader dà l'esempio, ma non c'è mai stata un'imposizione dall'alto. Eravamo tutti adulti e ognuno ha fatto la propria scelta. Qualcuno ha deciso di non farlo».
Armstrong, che ha coinvolto anche il finanziatore della US Postal, Thomas Weisel, e il general manager Mark Gorski, ha dichiarato di essersi sempre pagato di tasca propria il doping e di aver quasi sempre provveduto di persona a somministrarselo, «anche se in alcune occasioni sotto la supervisione dei dottori Celaya, Ferrari (il «dottor Epo», condannato nel 2004 ad un anno di prigione per aver esercitato illecitamente la professione di farmacista, e che nel suo portfolio clienti vantava legioni di ciclisti illustri, compreso quel Filippo Simeoni che lo inguaiò con le sue deposizioni) e Del Moral» (pista spagnola).
«C'erano situazioni gestite come se fosse un'organizzazione mafiosa: c'erano parole d'ordine per alcune cose, avevamo telefoni riservati e codici segreti. Usavamo parole come Poe o Edgar Allan Poe per l'Epo», dice. Proprio l'eritropoietina era uno degli ingredienti del suo «cocktail»: «Epo, ma non molto, trasfusioni e testosterone. Ero quasi giustificato a prendere» il testosterone «perché, visto che avevo avuto il cancro ai testicoli, il livello doveva essere basso». Tutto programmato in vista delle competizioni, con la consapevolezza che i controlli si sarebbero svolti solo in gara: «A quei tempi non venivano a casa tua. Non sono mai risultato positivo, ma alcuni campioni sono stati ricontrollati e tecnicamente non li ho superati». Armstrong fa riferimento a «[suoi] errori» e limita il discorso alla propria esperienza: «Non voglio accusare nessun altro». Tra gli «errori», dice il texano, non c'è il Tour de France 2009, quello chiuso al terzo posto dopo il clamoroso ritorno alle competizioni. «È l'unica cosa che mi fa davvero arrabbiare. Non mi sono mai dopato dopo il mio ritorno, ho superato il limite per l'ultima volta nel 2005», dice rivendicando la «pulizia» del 2009 e del 2010. «Mi pento di essere tornato nel 2009? Se non fossi rientrato, ora non saremmo qui». Tutta la vita, e non solo la carriera, è stata dominata dall'«irrefrenabile desiderio di vincere a tutti i costi».
Lance Armstrong
E, grazie al doping, «le vittorie erano quasi automatiche. Era come gonfiare le gomme, come mettere l'acqua nelle borracce». Ora però «mi vergogno assolutamente». Il pensiero va al discorso tenuto dopo l'ultimo trionfo al Tour del 2005: «Mi sono ritirato subito dopo. Ci si può congedare in maniera migliore. Quella faceva schifo», dice ora. All'epoca però non si sentiva un imbroglione: «Non la vedevo così, pensavo di competere allo stesso livello degli altri». Armstrong ha dato battaglia all'Usada quando ha saputo che il suo caso, un anno fa, sarebbe stato riaperto: strategia sbagliata, dice ora. «Non combatterei, ascolterei. Loro sono venuti da me dicendo: "Che vuoi fare?". Se tornassi indietro, direi: "Datemi tre giorni, fatemi chiamare la mia famiglia e un po' di gente. Fatemi chiamare i miei sponsor e la mia fondazione per dire cosa sto per fare". Ma non si può», dice lasciando trasparire le proprie emozioni.
Per essere stato ciclista, aver pedalato, lottato sul filo dei centimetri e sul filo dell'equilibrio per non cadere, sul filo della vita e della morte, aver studiato e letto di ciclismo… uscito dalla sala in cui si proiettava il film mi sono detto che tutto quello che ho visto l'ho già vissuto: il ciclismo è sport brutalmente viscerale, fatto dagli uomini che lo pedalano, che lo soffrono, che lo sudano.
È fatto pure dal sangue versato, come pure dal suo anacronismo vivo, dal suo nazionalismo, e (se è mai esistita) dalla sua «pulizia morale» nell'oscenità fisica, dalla sua povertà (al confronto con altri sport), dalla sua violenza mai morbida, dal suo possesso assoluto e dal suo essere squartato dalle attenzioni; quasi che il campione, anzi il corridore, fosse sempre atteso da quella curva, con i suoi odori di sudore, di canfora, di gioia e di tristezza.
Perché si parte insieme, ma a vincere è uno solo.

Piccola riflessione
Così scrivevo due anni fa a proposito di Armstrong, in una confidenza malinconica di incerta parola o di spaurita ammirazione verso uno sport che è tanto poesia quanto cronaca nera, ma quando nello stringere la penna pare di stringere ancora il manubrio lucido della bicicletta, allora è emozione che non passa via, ma rimane:

Ricostruendo l'epopea (truccata) dei sette Tour di Armstrong (ormai senza padrone), Pantani ne esce «pulito», anche se tardivamente e colpevolmente riscattato («In un mondo dove le pratiche del doping erano diffuse, perché colpire soltanto Lui?»). E Aldo Grasso (Corriere della Sera) lo riscatta, sentenziando tutti coloro che si sono schierati con il texano senza avere un'ombra di sospetto con una semplice domanda, che è di legittima accusa: «che ne facciamo ora di tutte quelle belle parole che abbiamo sprecato per Lance Armstrong», che costretto dall'evidenza si è dichiarato colpevole di aver vinto i sette Tour facendo uso di doping? Niente, non ne facciamo… perché da sempre a pagare è solo l'atleta, che diventa capro espiatorio di tutto un ambiente che si giustifica senza mai arrossire di colpevole e spudorata insulsaggine e complicità.
E il libro di Donati sul doping nello sport (e nel ciclismo in particolare)? Scandalo! A seguire, insulti e denunce dai «chiamati in causa» sulla stampa e nei tribunali… niente di nuovo: il sospetto non è una prova, e di sospetti tutta la società vive dentro e fuori lo sport; e qui sta il problema, e cioè: se la società è malata (e lo è), si può pretendere che lo sport sia sano?
Marco Pantani
Certo che di doping nello sport (ma non solo) si continua a vivere (e a vincere) e - purtroppo - a tradire e morire. «Vado così forte in salita per abbreviare la mia agonia», diceva Marco Pantani al termine di una discesa esistenziale che non ha cancellato la grandezza e il sapore delle vittorie in vetta.
«Non respiro più»: così Alessio Galetti, 37 anni, è morto in prossimità del traguardo della corsa, in cima a una salita delle Asturie (Vuelta a España); perché per chi corre la bici è la droga più stupefacente di tutte. E chi corre può morire giovane, giovanissimo, in ogni luogo: dal dentista (Zanette), nel sonno (Fois, Salanson), in una camera d'albergo fuori stagione (Pantani), al bar del quartiere (Rusconi)… Chi fabbrica atleti e vive e prospera attorno alla società dello spettacolo - che richiede esaltanti vittorie o eroiche imprese per legittimarsi - lo sa e non può arrendersi… tanto - anche in presenza di controlli - il rischio per lui è minimo: a pagare - se beccato - sarà sempre l'atleta.

Il giornalista Carlo Martinelli - nella sua bella rubrica «Domenica Bestiale» («Ciclismo da ritrovare», dal Trentino del 30 aprile 2007) - scriveva sconfortato per l'insopportabile trama di indagati e sospettati, dichiarazioni e smentite, tra uno scandalo annunciato e uno in via di sviluppo che accompagnano il mondo del ciclismo. Una ragnatela di nomi, un elenco sterminato che sembra non avere fine, che non smette mai di stupirci e che ci scoraggia, perché durante un Giro d'Italia difficilmente si può scrivere serenamente di uno scatto, un'impresa, una vittoria, senza essere smentiti - dopo un mese, o un anno - dal verdetto di una provetta di urina o di sangue. Una delusione continua. Basta ripercorrere gli ultimi quindici anni di storia ciclistica del Giro d'Italia e del Tour de France per essere messi di fronte alla sconcertante evidenza che pochi si salvano dal doping o dal sospetto (da Armstrong, che dopo aver dominato sette Tour senza colpo ferire viene sbugiardato, a Jan Ullrich, finito nella rete dei magistrati che indagano sullo scandalo dell'Operación Puerto, lo stesso che ha messo nei guai Ivan Basso): è dunque fin troppo facile accanirsi contro «qualcuno» (un Pantani di turno…) piuttosto che contro il sistema delle due ruote, incapace di fare una profonda autocritica, perché col doping è colluso, ci campa e convive.
E allora ben venga, nell'oscura notte, la bella favola di Aldo Bulato, ottantaseienne vicentino che fra i monti di Trento ha smarrito la via di casa per troppa foga sportiva, dopo una passeggiata di 160 chilometri: perché fa scattare la fuga della nostalgia ma anche l'impresa della narrazione, perché il mito del ciclismo si alimenta così, e nonostante tutto si reinventa…

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