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domenica 13 dicembre 2015

SCHWARZ: SURREALISMO E RIVOLUZIONE, ANCHE, di Roberto Massari

IN DUE LINGUE (Italiano, Francese)

«Il surrealismo si è formato su una concezione rivoluzionaria dell'uomo e del mondo, in un'epoca in cui le visioni tradizionali dei loro rapporti erano sprofondate nella [Grande] Guerra… Seguendo modalità particolari, i surrealisti diventarono marxisti e freudiani, portando l'accento sulla duplice rivoluzione da compiere: "trasformare il mondo", "cambiare la vita". Pensavano di poterci arrivare con un'attività globale di creatività a partire dall'individuo, considerato a sua volta come una totalità, e per mezzo di uno strumento, la poesia, che si confondeva con l'attività propria dello spirito. Questa permanenza creatrice doveva esercitarsi nella libertà incondizionata del sentire e dell'agire, fuori dai compartimenti della vita e dell'arte, e col desiderio di recuperare integralmente l'individuo».
Skira, 2014
Così Maurice Nadeau nell'aggiunta del 1957 alla sua opera classica del 1944 (Histoire du Surréalisme, Seuil, 1964, pp. 189 e 190), che si può considerare pionieristica e longeva ancor più dell'autore, morto a 102 anni nel 2013 - lucido e in piena attività come ci apparve quando lo incontrammo nei giorni del suo centesimo compleanno.
La sintesi sopra riportata è alla base della tradizione di pensiero in cui possiamo collocare anche le tesi di fondo o alcune riflessioni sostanziali che Arturo Schwarz espone nel suo nuovo imponente lavoro su Il surrealismo. Ieri e oggi (sottotitolo: Storia, filosofia, politica, Skira, 2014, pp. 540 - con CD allegato). L'intento analitico - e allo stesso tempo polemico verso usuali e infondate generalizzazioni - viene formulato da Schwarz in apertura, quando afferma che il surrealismo è fondamentalmente uno «stato d'animo», una concezione della vita libera da qualsiasi costrizione esterna o interiore, un inno alla libertà stessa: pura e cangiante come il flusso di un fiume in cui ciò che è stato non sarà più e il tragitto percorso non potrà condizionare le future imprevedibili svolte o accelerazioni della corrente. Concetti ripresi all'inizio del cap. 4 (p. 99, ma si veda anche p. 107), dove si afferma che «il surrealismo è un'altra filosofia dell'esistenza, un modo di pensare, di agire e di riflettere - in entrambi i sensi - l'individuo, la storia e l'arte».
Ma come per i fiumi non è sempre possibile ritrovare la sorgente, perché essa a volte si nasconde all'interno di un monte o sotto un cumulo di rocce, così per il surrealismo non si può stabilire una data di nascita ufficiale, anche se diffusa è l'opinione che esso abbia cominciato a vivere di vita propria tra il 1914 e il 1918 - con particolare visibilità nel 1916 - sotto il cumulo delle rovine provocate dalla prima grande carneficina mondiale. Di qui la vecchia diatriba (del tipo l'uovo o la gallina) se sia nato prima Dada (il Dadaismo di Tristan Tzara) o il Surrealismo (fondatore Breton).
Il termine fu coniato da Apollinaire, ma sarà usato in senso specificamente «surrealista» - cioè riferito a una creazione artistica fondata sull'automatismo psichico, sul sogno, sulla derive (quale verrà ripresa in àmbito situazionista) - solo a partire dal 1920 nella rivista Littérature. Ma difficilmente si potrebbero immaginare altre due correnti di pensiero estetiche, artistiche o filosofiche o le tre cose insieme, più vicendevolmente condizionantesi, più geneticamente intrecciate. Sono invece i loro diversi sviluppi e destini che possono spiegare le incertezze teoriche riguardo alla loro comune origine, da intendersi in senso teorico-spirituale e non necessariamente pratico-editoriale. E fra le varie possibili motivazioni fu certamente il tipo di impegno politico prevalente tra i collaboratori raccolti intorno a Breton, a segnare in primo luogo una divaricazione dei surrealisti dal movimento fondato da Tzara.

Il forte interesse per le vicende politiche contemporanee da parte dei surrealisti viene ricostruito dettagliatamente da Schwarz, 1) a partire dalle premesse ideologiche (distinzione operata da Breton tra «rivolta» e «rivoluzione», favorevole alla seconda, anche se poi nella pratica surrealista prevarrà la prima), 2) passando per la confluenza dei gruppi tendenzialmente comunisti già costituiti (la rivista Correspondance in Belgio, Clarté in Francia, il gruppo Philosophies comprendente nomi come Georges Friedmann, Henri Lefebvre ecc.), 3) arrivando addirittura all'adesione dei surrealisti al Partito comunista francese (nel 1927, per un breve periodo).
Nella ricostruzione storica la vicenda dei rapporti di amore-odio-amore e poi definitivamente odio con gli stalinisti francesi riceve l'attenzione e la documentazione che merita. Anche se diventa via via più difficile nascondere che si trattò di un brutto cordone ombelicale, poco compatibile con i princìpi del surrealismo, solo in parte giustificabile e solo nei primi anni (quando la Rivoluzione russa era sembrata aprire nuove speranze di realizzazione della grande utopia epocale comunistica e aveva tratto in inganno anche lucidi testimoni, attivi sur place, come Victor Serge). Ma proprio quell'adesione così «contronatura» era destinata a operare fratture e lesioni interne al movimento surrealista francese e internazionale. Ciò fu vero soprattutto a partire dal momento in cui questi si schierò apertamente con Trotsky nel pieno trionfo della controrivoluzione staliniana. Non si può dimenticare, però, che a marzo del 1921 c'era già stata Kronštadt, mentre il ben documentato libro del socialrivoluzionario in esilio Sergej Mel'gunov (Il terrore rosso in Russia. 1918-1923, Jaca Book, 2010) era già apparso in inglese nel 1925 e da Payot, a Parigi, nel 1927.
Del movimento trotskista Arturo Schwarz ha fatto parte in gioventù (dando vita addirittura a una sezione della Quarta internazionale, in Egitto) e in anni importanti della sua vita, prima di uscirne e abbracciare posizioni da lui definite «anarchiche», ma in realtà inconsapevolmente marxiste libertarie, sia pure molto sui generis. E non a caso è con non sopita passione che egli ricostruisce tutta la ricchezza di dibattiti, battaglie politiche, riflessioni drammatiche sulla degenerazione sovietica che il movimento surrealista e Breton in particolare ricavarono dall'insegnamento e dall'esempio di Trotsky.
Fa piacere che ciò sia esposto con accuratezza storica e con i giusti riferimenti teorici, perché spesso le ricostruzioni della vicenda surrealista tendono a sorvolare, a sminuire - tacere, no, perché sarebbe impossibile - il legame profondo che unì Breton e i suoi più stretti collaboratori alle vicende del «Profeta disarmato» e soprattutto del «Profeta in esilio»: il tutto molto prima che Trotsky e Breton scrivessero insieme il celebre Manifesto per un'arte rivoluzionaria e indipendente (in Messico, luglio 1938), da considerare come un'autentica pagina spartiacque nella storia dell'elaborazione estetica, della creatività artistica e della riflessione su entrambe. E se si pensa poi che quell'urlo liberatorio fu lanciato nel momento più buio nella storia del Novecento - un anno prima che il patto fra Stalin e Hitler desse avvio alla seconda grande carneficina mondiale, quando si avviavano i piani dell'Olocausto antiebraico, nella fase di massima espansione del Gulag, mentre tendenze variamente fascistiche crescevano in varie parti d'Europa e si rafforzava il regime in Italia - si avrà un'idea per quanto approssimativa della lucidità rivoluzionaria e del coraggio etico che ci volle per arrivare a lanciarlo.
Ebbene, questo rapporto intenso e costruttivo fra Breton e Trotsky - anello fondamentale per la ricostruzione della catena politico-artistica del surrealismo e indispensabile anche per spiegare molte burrascose vicende interne ed esterne al movimento - spesso non ha ricevuto la giusta enfasi o considerazione storiografica: per es. in un'altra monumentale storia del surrealismo, peraltro ottima sotto il profilo della documentazione, pubblicata nel 2002 (Paola Dècina Lombardi, Surrealismo 1919-1969. Ribellione e immaginazione, Editori Riuniti, pp. 696).
Per la definizione del rapporto dei surrealisti con Trotsky e con il «trotskismo» organizzato (non si dimentichi al riguardo il ruolo contestatissimo svolto da Pierre Naville in entrambi i movimenti, nonché i suoi lavori sull'argomento, tra i quali spero di pubblicare prima o poi in italiano Le temps du surréel, Galilée, 1977) il lavoro di Schwarz offre una ricostruzione preziosa nel cap. 3, alle pp. 39-72; ma la dolorosa assenza di un indice dei nomi (veramente ingiustificata per un volume di questo genere) impedisce di valorizzarla come meriterebbe1. I lettori interessati, comunque, conoscono già il lavoro classico di Schwarz su questa materia, apparso in tre edizioni diverse, di cui l'ultima più recente è la mia (Breton e Trotsky. Storia di un'amicizia, Massari editore, 1997, pp. 232).
La sezione del libro dedicata alla vicenda politica del surrealismo prosegue con riferimenti di Breton e dei suoi compagni alla vicenda cecoslovacca (a partire dal putsch di Praga, febbraio 1948), alla Polonia di Gomulka, alla collaborazione del gollismo col franchismo e alla Rivoluzione cubana, salutata con entusiasmo in un testo dell'estate 1964. Risulta invece eliminato, stranamente, un paragrafo sull'Algeria che compariva nella mia edizione già citata.
L'avvertenza ricorrente di Schwarz, tuttavia, è che il surrealismo non è mai stato un movimento politico: un'affermazione che, intesa sul piano organizzativo e in un senso storico-globale (quindi non per determinati singoli periodi), è certamente fondata.

Così come fondata è l'affermazione che il surrealismo non è mai stato una corrente artistica vera e propria. Gli esempi citati da Schwarz in campo figurativo (Max Ernst, André Masson, Man Ray, Joan Miró, Yves Tanguy - presenti nella prima mostra collettiva del 1925) stanno lì a dimostrarlo nella loro reciproca irriducibilità, nella diversità di strumentazione tecnica (per es. il ricorso di alcuni ma non tutti all'automatismo in pittura e scrittura), nella varietà delle espressioni estetiche, nell'accettazione o rifiuto dell'arte figurativa oppure astratta ecc. Sembrerebbe accomunarli invece l'afflato ideale, vale a dire un'esigenza di autenticità veramente… autentica - cioè sviscerata integralmente, anche a costo di rivelare (rovesciare? spargere?) all'esterno, senza inibizioni, i contenuti del proprio inconscio. Quest'ultimo da intendersi, a sua volta, come sorgente di motivazioni realmente vissute, ma anche come serbatoio immaginifico (cioè produttore di immagini letterarie, poetiche, pittoriche, fotografiche2).
L'inconscio, il sogno, lo stato psicopatologico, l'arcano, l'esoterico: sono elementi compositivi della riflessione autoanalitica più matura, in primo luogo dello stesso Breton, che il surrealismo filtrò e incluse nel proprio patrimonio creativo. Tali elementi non potevano essere trascurati ovviamente da un raffinato cultore di queste e altre manifestazioni psichiche o metapsichiche dell'io più profondo. Si vedano, in proposito, i libri da Schwarz dedicati più o meno direttamente a questi temi, a partire dall'Immaginazione alchemica (La Salamandra, 1980).
Di qui anche lo sperimentalismo - all'epoca tratto tipico del surrealismo, ma originario del dadaismo - che caratterizza la parola scritta, la creazione poetica, l'improvvisazione gestuale e teatrale, il gusto della provocazione spettacolare. Sono alcuni dei tanti elementi costitutivi della vicenda surrealista, ma incostitutivi di una determinata scuola letteraria o pittorica. Questa caratteristica così specifica - lo sperimentalismo con tutto ciò che ne consegue - potremmo collocarla al primo posto, se volessimo comporre un elenco dei tratti irrinunciabili del surrealismo più persistenti, cioè sopravvissuti fino ai nostri giorni.

Della sopravvivenza del surrealismo e della sua diffusione anche relativamente moderna su scala internazionale parla tutta la seconda parte del libro, dando la parola, paese per paese (dal Belgio alla Turchia, dall'Argentina al Giappone, dalla Cina all'Egitto), a studiosi, interpreti o cultori della materia. Un'antologia affascinante che meriterebbe d'essere letta sfogliando contemporaneamente il grande catalogo della mostra surrealista di Milano curata da Schwarz nel 1989 di cui si è detto, giacché esso contiene un'ampia scelta di illustrazioni a colori, rappresentative dell'attività artistica ispirata al surrealismo in varie parti del mondo.
Questa folta panoramica internazionale viene introdotta nel libro di Schwarz dal nostro amico Michael Löwy. Questi sottolinea l'attualità dell'impegno surrealista grazie alla capacità d'innovazione continua e intransigente, la passione per l'esplorazione dell'ignoto, «l'ostilità inconciliabile con la pseudocultura europea contemporanea». L'immaginazione creatrice - che in altre parti del libro (pp. 108 e 116) Schwarz riconduce direttamente a quel Charles Fourier cui Breton dedicò una celebre Ode - è per Löwy un tramite e un connotato del surrealismo che fa da guida alla ricerca mai interrotta di un suo cammino verso l'utopia3.

Al di là dei dati storici e documentaristici del contributo dato dai singoli autori, l'indagine che propone Schwarz si orienta in tre direzioni tra loro interdipendenti che egli stesso definisce per i loro caratteri come teorica, salvifica ed etica.
La prima direzione, teorica, non può non partire dal γνῶθι σεαυτόν (il «conosci te stesso» di greca e latina memoria), che, con l'accumulo di strati di coscienza e conoscenza (del Sé) ricavabili dalla poesia, dall'arte e dall'amore, potrebbe condurre alla rivendicazione della libertà integrale: libertà di creazione poetica e libertà di vita, non più scisse ma compenetrantesi.
«Per realizzare la pulsione irresistibile verso la libertà bisogna conoscere, e per conoscere bisogna amare. La conoscenza, la libertà e l'amore si concepiscono dunque soltanto in rapporto l'uno con l'altro. Ciascuno di questi tre termini è il lato di un triangolo che non potrebbe esistere senza gli altri due» (p. 101).
Arturo Schwarz
La definizione della dimensione salvifica, la seconda direzione che dovrebbe orientare l'arte surrealista, non è molto chiara, forse non per colpa solo di Schwarz, ma anche dello stesso Breton, che su questo piano ha finito col creare più perplessità di quante non ne abbia risolte. Basti dire che il fatto di ricondurre l'intenzionalità autorealizzatrice del surrealismo a un mai abbastanza precisato automatismo psichico rischia di trasformare quest'ultimo in una sorta di tecnica (come effettivamente si può dedurre dalle indicazioni di Breton), perdendo il contatto con la dimensione liberatoria più generale. Questa dimensione l'abbiamo indicata poco sopra, ricavandola dal testo di Schwarz e considerandola in sintesi come un impulso interiore riconducibile alla sfera dell'amore, della conoscenza del Sé e della creazione artistica. E quando si afferma che la scrittura automatica consente di «far affiorare, nella sua nudità e verità, il dettato dell'inconscio»; o che l'automatismo psichico «è la via reale per conoscere la parte sommersa della psiche» (p. 102), producendo in tal modo i materiali grezzi e soggettivi che il poeta e l'artista trasformeranno in «universale», non si capisce più che fine abbia fatto l'aspirazione umana alla libertà totale e assoluta costituiva del programma surrealista originario.
Non si può dimenticare, infatti, che fin dalle origini del surrealismo e perlomeno fino allo scoppio della guerra, nei testi di Breton e di altri suoi sodali questa aspirazione era stata sempre unita più o meno esplicitamente all'aggettivo «rivoluzionaria», ovviamente inteso nel senso più ampio del termine e non solo politico (includente, tuttavia, l'azione politica come fattore fondamentale anche se non risolutivo). A partire da un certo punto, invece, comincia a prevalere nei testi di Breton la ricerca di una dimensione prevalentemente psichica se non addirittura metapsichica, mentre la prospettiva concreta e storicamente determinata della rivoluzione mondiale (proiettata ovviamente in dimensione artistica, sociale e «amorosa») sembra svanire: essa cede il passo ai vapori dell'arcano e dell'esoterico che via via avvolgono nelle brume di un redivivo individualismo interiore l'idea originaria di liberazione collettiva universale.
Restando su un terreno analogo, non si capisce nemmeno che fine abbia fatto l'istinto più naturale e immediato della specie umana (volto alla ricerca della felicità, ma a mio avviso anche all'autoconservazione della specie), cui il fascino dell'utopia libertaria e socialista, e quindi anche surrealista, dovrebbe spalancare nuove strade di autorealizzazione, di rafforzamento della volontà «di cambiare il mondo e la vita», di raggiungere gli «stati di felicità della comunità umana» (ibid.). Ma di «salvifico» in senso comunitario qui rimane ben poco, e anche per questo non si giustifica l'adozione di un simile termine, così carico di significati se preso a prestito dalla gloriosa tradizione di studi antropologici sul messianismo e sul millenarismo. Oppure ci si deve fermare al significato biblico del concetto di «salvazione»? Non credo che così sia per Schwarz, e comunque non lo sarebbe stato per Breton.
La spiegazione fornita nel libro per il ricorso al «salvifico» come espressione di creatività poetica in campo surrealista è molto breve, poco chiara, poco convincente e - mi si perdoni se lo ripeto ancora - non riconducibile al discorso surrealista «classico» fondato sul carattere liberatorio del rapporto arte/rivoluzione in una prospettiva di superamento collettivo dell'alienazione sistemica (capitalistica e burocratico-stalinista). Non se ne dispiaccia Schwarz, ma tale spiegazione non è compatibile nemmeno con i fondamenti del pensiero anarchico «classico», quello più autentico, quello che va da Bakunin a Malatesta, passando per James Guillaume, Adhémar Schwitzgébel o Pëtr Kropotkin.
Infine la direzione etica. Schwarz la considera parte integrante del processo di conoscenza e quindi colloca l'etica del surrealismo in una dimensione cognitiva, ricorrendo anche al principio di responsabilità, onde introdurre il concetto di «solidarietà tra poesia e scienza». Al riguardo cita il fisico Marcello Cini, ma avrebbe potuto anche ricordare il padre di questa visione gemellare del rapporto etica/scienza, coincidente con la ricerca del bene e della conoscenza allo stesso tempo, nell'antico e celebre filosofo ateniese che i concittadini ripagarono con la pena di morte. Non mancano comunque riferimenti ai poemi cosmogonici presocratici, a Lucrezio, a Ovidio e poi via via fino ai filosofi della natura rinascimentali, all'imperativo kantiano, ad alcuni moderni pensatori (c'è purtroppo anche Martin Heidegger, ma preferisco far finta che Schwarz non l'abbia citato).
La dimensione etica qui brevemente tratteggiata è ulteriormente sviluppata in varie parti del volume e permea di sé numerosi altri riferimenti alla teoria e alla pratica surrealista. A volte corrisponde all'impegno politico dei surrealisti, a volte è presentata come un elemento propulsore della creazione artistica e soprattutto poetica. Importante la considerazione secondo cui è proprio l'etica (sempre intesa in simbiosi con la conoscenza di sé) a costituire il sostrato su cui può svilupparsi l'autenticità espressiva. Schwarz rifiuta l'idea che quest'ultima possa dipendere da motivazioni estetiche e la inserisce nel bisogno avvertito dal poeta di conoscere sé e conoscere il mondo per trasformarlo (in senso ovviamente rivoluzionario).
Molti altri temi meriterebbero di essere valorizzati. Tra questi uno mi starebbe particolarmente a cuore: il rapporto edipico che il situazionismo delle origini stabilì col padre-padrone surrealista. Ma ciò mi porterebbe molto fuori del quadro teorico tracciato da Schwarz in questa sua ennesima fatica. Preferisco concludere, quindi, ricordando le parole che egli ebbe a dire ad Antonella Barina, in un'intervista del 1997 apparsa sul supplemento di un celebre periodico in forma di servizio anche fotografico («Una vita contro»): Del surrealismo «mi sedusse quella filosofia della vita che rivaluta tutto ciò che il pensiero comune disprezza».
E se in ultima analisi fosse proprio questa, detta così semplicemente, la vera chiave esplicativa del fascino esercitato dal surrealismo ancor oggi in varie parti del mondo intero? Se fosse questa la motivazione più o meno consapevole di coloro che anche nel surrealismo qualcosa cercano, ancora non liberi, certo, ma aspiranti alla libertà pur vivendo in piena società dello spettacolo?

dicembre 2015


1 In realtà il problema è parzialmente risolvibile perché, dei sette capitoli che costituiscono l'ampia introduzione, tre (cap. 2, 3 e 6) erano già apparsi nel catalogo curato da Schwarz per la grande mostra di Milano (I surrealisti, Mazzotta, 1989) ed erano stati inclusi identici nel libro storico e fotografico da lui pubblicato presso la mia casa editrice nel 1997 - L'avventura surrealista. Amore e rivoluzione, anche. Il terzo capitolo - pp. 39-97 - è quello cui si fa qui riferimento. E poiché nella mia edizione non manca l'indice dei nomi, il lettore può sempre farvi riferimento.
2 L'accenno alla fotografia e alla pluralità di opzioni tecnico-artistiche ci richiama alla mente una delle ricerche più articolate di Schwarz - a parte i suoi testi più noti su Duchamp - racchiusa nella monografia dedicata a Man Ray (Giunti, 1998, alleg. al n. 139 di Art e Dossier). Ivi si parla di aerografie, rayografie, ma anche di readymade, inizi della bodyart, assemblages, collages, cartapeste dipinte ecc., oltre alle altre possibili variazioni sul tema della pittura, del disegno e del loro rapporto con la fotografia.
3 Il brano era già apparso in italiano nel libro di M. Löwy La stella del mattino. Surrealismo e marxismo (pp. 99-104), pubblicato da Massari editore nel 2001 in traduzione dall'originale francese (Syllepse, 2000). Nel libro di Schwarz è stata trascurata questa mia edizione e l'articolo di Löwy è stato preso dall'edizione brasiliana del 2002 e quindi ritradotto dal portoghese.

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