«Cossutta o non Cossutta, l'Ulivo è alla frutta». Così suonavano le conclusioni di un vecchio articolo di Giampaolo Pansa, a commento del naufragio della prima esperienza nazionale della coalizione di centrosinistra, due decenni fa. Correva il movimentato ottobre del 1998, e la (unitarissima) Rifondazione Comunista a salda guida Bertinotti-Cossutta stava per spaccarsi in due come una mela sulla questione del rapporto con il governo Prodi, portato al successo delle urne un paio di anni prima proprio dall'allegra ammucchiata ulivista.
Armando Cossutta - allora presidente di Rifondazione - separandosi in quel momento da Bertinotti fu l'artefice, in buona compagnia di Cossiga e Mastella, del salvataggio in extremis del centrosinistra a trazione PDS. Da allora in avanti, la sua nuova creatura (il Partito dei Comunisti Italiani) continuò invariabilmente ad essere e a concepirsi come l'appendice organica sinistra dell'area politica di centrosinistra; il suo confine sinistro, responsabile e "di governo", che assicurava stabilità e affidabilità al "campo progressista", opposto alle destre.
Da quel periodo è passata molta acqua sotto i ponti, e ai soggetti politici in questione (PRC e PdCI) nulla rimane dei fasti di allora. La Rifondazione Comunista bertinottiana, che per un tratto sembrò incarnare le aspirazioni di molti ad una vera presenza comunista e antagonista, finalmente slegata dal cappio dell'alleanza con i partiti borghesi, fu ben presto risucchiata, o per meglio dire ricondotta nell'alveo del centrosinistra, e quindi dell'inumazione dei propri stessi principi di esistenza politica. Nelle intenzioni di tutti i gruppi dirigenti della sinistra riformista, di ieri e di oggi, l'Ulivo era ed è tutt'altro che alla frutta.
Dove abbia portato questa storia è, oggi, cosa fin troppo facile a vedersi. Ma i primordi di quella stagione, il suo senso politico, pur nell'archiviazione successiva più o meno definitiva dei suoi singoli momenti e delle sue figure di riferimento (lo stesso Armando Cossutta è oggi sconosciuto ai più, e certamente ai militanti più giovani), continuano a riprodursi immodificabili nelle vicende e nelle logiche di quel che resta della sinistra italiana, anche in ambiti apparentemente più distanti da quelli dei diretti eredi dei protagonisti di allora.
Da questo punto di vista, la figura di Cossutta acquista tutta l'emblematicità del caso, rappresentando l'impersonificazione di posizioni politiche i cui peculiari tratti somatici sono appartenuti e appartengono a larga parte della sinistra italiana - e non solo a quella di derivazione PCI - al di là delle sigle e dei contenitori di volta in volta coinvolti.
Cossutta è stato infatti non solo il dirigente più filosovietico del PCI, "l'uomo del Cremlino" in Italia, il custode più strenuo dell'identificazione simbolica e del legame del PCI con l'URSS burocratica brezneviana. È stato allo stesso tempo, ben prima di divenire salvatore dell'Ulivo, l'uomo delle "larghe intese" (non si oppose al compromesso storico, salvo poi concedere, nel 1997: «Quando Togliatti realizzò il suo compromesso c'erano motivazioni storiche vere. Negli anni '70 è stato chiamato compromesso, che di storico non aveva nulla, un'intesa deteriore che ha portato a sostenere il governo Andreotti»), l'uomo delle prime alleanze di governo del PCI con la DC e con gli altri partiti borghesi nei comuni e nelle regioni (da responsabile Enti locali del partito), l'uomo dell'ordine e delle maniere forti contro l'estrema sinistra.
Non può stupire, quindi, che la sua eredità e il richiamo alla sua figura vengano oggi rivendicati trasversalmente dai cattolici del PD fino a Marco Rizzo, passando per Cuperlo e Ferrero. Quello di Cossutta e del cossuttismo è stato il marchio di fabbrica del "grande equivoco" attraverso il quale quella parte della sinistra che più teneva fieramente alzata la propria bandiera "comunista" e ben in vista i propri cimeli di famiglia (contro chi voleva sbarazzarsene) accettava e introiettava le logiche del sistema liberale capitalista e si predisponeva alla sua gestione non diversamente e in misura non minore di quanto facessero i più "spregiudicati" Berlinguer, Napolitano, Occhetto (e magari per qualcuno Togliatti). Sempre tenendo ben alta la bandiera, con la quale si copre la ferrea necessità stringente della collaborazione di classe. Ieri con la DC e i DS, oggi con il PD. Sempre in nome, beninteso, dell'"autonomia", della "indipendenza", della "diversità" e via dicendo dei comunisti.
Il "non c'è alternativa" cossuttiano del 1998 veniva da lontano, molto lontano, e sarebbe risuonato ancora a lungo. Anche in assenza, ormai, di cimeli da esibire.
Infine una nota sulla sorte ingrata della parabola politica di Cossutta. Il suo destino è stato quello di essere divorato ciclicamente dai propri partiti e dalle proprie creature politiche. Così è stato nella storia grande del PCI, dove da numero due del partito dopo Berlinguer subì un progressivo declassamento e marginalizzazione per via della sua relazione diretta col Cremlino. Così è stato nella storia di Rifondazione Comunista, dove da fondatore e presidente del PRC si vide sfilare il partito dalle mani proprio dal segretario da lui prescelto (Bertinotti). Così è stato infine nella piccola storia del Partito dei Comunisti Italiani, dove da fondatore e presidente della nuova formazione subì nuovamente l'onta della propria emarginazione e umiliazione da parte dei suoi prediletti figli politici (Diliberto e Rizzo). Con l'amarezza ogni volta di vedersi tradito da partiti di cui si considerava "proprietario" in quanto custode dell'apparato. Dunque lo stesso stalinismo che lo forgiò e ne formò la cultura lo trasformò ciclicamente nella propria vittima. Lungo una parabola declinante che fu, in definitiva, la metafora personale e biografica del crollo dello stalinismo italiano e mondiale. In questo senso Cossutta è stato a suo modo un'espressione organica della storia del movimento operaio.
www.pclavoratori.it, 16 dicembre 2015.
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