È la rielaborazione dell'intervento preparato per il Punto della Situazione n. 2 presso la Galleria Peccolo di Livorno (13 giugno 2015). Va considerato come il seguito di «Complicanze "spettacolari"», intervento per il Punto della Situazione n. 1 a Sesta Godano (19 settembre 2014), che a sua volta si poteva considerare come il seguito di «Debord: da La società dello spettacolo ai Commentari. Note di lettura», intervento al convegno dell'Aquila dedicato a Debord (21 giugno 2008). [r.m.]
Guy Debord e Raoul Vaneigem, novembre 1962 © Leo Dohmen |
Dire che rispetto all'itinerario debordiano il contributo teorico di Raoul Vaneigem è politicamente più incisivo (scava più in profondità, oltre che in estensione) e ideologicamente più definito, può sembrare una banalità. Anzi, in un certo senso lo è, visto che le prime riflessioni politiche significative del Vaneigem situazionista si trovano in due corposi articoli apparsi sull'Internationale Situationniste ad aprile 1962 e a gennaio 1963, che erano per l'appunto intitolati: «Banalités de base I» e «II»1.
Urbanismo unitario vs. geologia della menzogna
La sua critica al sistema - in particolare ai meccanismi fondamentali alimentatori della dilagante alienazione capitalistica - era stata elaborata in precedenza soprattutto partendo dalla dissezione dell'urbanismo a lui contemporaneo. Questo era da lui inteso sia come disciplina pianificatrice, sia come mistificazione spettacolare di realizzazioni pratiche (cioè architettoniche, distributive degli spazi, costrittive e costruttive di uniformità ambientali).
In un testo pubblicato sull'IS dell'agosto 1961 («Programme élémentaire du bureau d'urbanisme unitaire») - scritto a quattro mani con l'architetto-urbanista ungherese Attila Kotányi (aderente all'IS e poi uno dei vari espulsi da Debord) - Vaneigem aveva contrapposto l'esistenza reale dell'architettura contemporanea alla non-esistenza dell'urbanismo, ridotto a semplice ideologia nel senso marxiano del termine. Anticipando temi e metodi che saranno propri della debordiana Société du spectacle, Vaneigem e Kotányi equiparavano le due forme a loro avviso fondanti della mistificazione capitalistica - l'URBANISMO e lo SPETTACOLO - denunciandone la funzione omologante, adeguatrice dell'individuo alle esigenze del sistema. Lo facevano con termini classici (come reificazione e alienazione) e un po' meno classici (come ricatto utilitaristico, induzione alla partecipazione tramite la pubblicità-propaganda, organizzazione dell'isolamento, identificazione con l'ambiente circostante senza possibilità di scelta, manipolazione dell'habitat ecc.).
Il lettore familiare con i successivi sviluppi debordiani della critica alla società spettacolare non avrà difficoltà a riconoscerne gli equivalenti. Ma qui va detto che i due autori del saggio concludevano con delle proposte a positivo, riassumibili nella prospettiva dell'urbanismo unitario, cioè l'aggregazione - collettivamente e criticamente vissuta - delle persone che intendono condurre la propria esistenza liberamente, sviluppando le forme di vita a propria misura e soprattutto senza alcuna separatezza.
Il tanto adorato concetto di «area spazio-temporale» (intesa come area modernamente superattrezzata, ma in piena separatezza esistenziale oltre che territoriale, benché interna a un mitico e illusorio rural-urban continuum) e molta della Sociologia urbana che cominciava a dilagare nelle pubblicazioni accademiche di quegli anni, crollavano così in frantumi. Ma il fragore del crollo non riusciva comunque a coprire il frastuono di tutto il tam-tam massmediatico che circondava le false utopie urbanistiche degli anni della ricostruzione postbellica (seconda metà anni '50 e anni '60), soprattutto in paesi europei in piena ripresa dagli sconvolgimenti della guerra, come la Francia e, in misura minore, l'Italia.
A una critica tutto sommato abbastanza concreta ed espressa in linguaggio ancora facilmente comprensibile (senza rinunciare a definizioni immaginifiche e a volte anche belle, del tipo: «la pianificazione attuale della città come geologia della menzogna» [p. 77]) corrispondeva un programma di mobilitazione sul territorio (ci si perdoni l'anacronismo, ma così si direbbe oggigiorno). Emergeva in tal modo l'indicazione del détournement urbanistico-spaziale - inteso come progetto comunitario, godibile, autentico e praticabile di disalienazione abitativa - unita a un (poco chiaro) processo di riappropriazione del condizionamento. Per i due autori, la costruzione di situazioni discendeva a mo' di corollario da quel progetto avveniristico di urbanismo unitario che ne costituiva in un certo senso l'antecedente e relativo teorema.
Come si può vedere, quel tipo di discorso in fondo non era poi così banale: direi anzi che era piuttosto basale, anche se certamente pregno di significati impliciti, elementi eversivi da sviscerare, oltre alle consuete e apparentemente inevitabili divagazioni linguistiche.
Non me la sento, invece, di estendere la stessa valutazione positiva a un altro testo scritto quasi in contemporanea e su analogo tema, pubblicato nel medesimo n. 6 (agosto 1961) dell'IS: «Commentaires contre l'urbanisme», del solo Vaneigem.
Privo del contributo competente - disciplinare e disciplinatore - di Kotányi, l'articolo di Vaneigem si lancia in una veemente diatriba contro un nome eccellente dell'urbanistica dell'epoca: il fondatore della sociologia urbana francese, Paul-Henry Chombart de Lauwe (1913-1998). Ma lo fa perdendo il senso della dimensione polemica e facendosi trascinare da eccessi linguistici per i quali arriva a descrivere l'urbanistica come un incubo o a paragonare gli urbanisti odierni ai nazisti dei lager. Il tutto condito da formule iperboliche assolutamente gratuite quando l'urbanistica e l'informazione vengono definite «organizzatrici del silenzio» (tutto il contrario, in realtà, del frastuono mediatico che esigerà e indurrà in forma via via crescente la società dello spettacolo) o si raffigura l'«urbanistica ideale come proiezione nello spazio della gerarchia sociale senza conflitto», in un mondo urbano fatto di «città fossilizzate» [p. 96], di «umanisti del cemento armato», di cimiteri come ultimi spazi di verde vissuto. Non a caso, in questo desolato panorama - da film distopico della serie Day after - si erge autonoma e portatrice di valori libertari la figura del barbone, del clochard che razzola tra i secchi dell'immondizia.
Certo, vi è molto paradosso in tutto ciò. Si coglie la delusione soggiacente nei confronti del mondo operaio che alla cementificazione dell'animo si uniforma ormai nel suo insieme. È la delusione «militante» di chi ancora considerava la classe lavoratrice come incarnazione suprema dell'anticapitalismo emancipatore universale, storica speranza di riscatto sociale. Una delusione che nasceva dall'illusione ampiamente diffusa dal marxismo ortodosso (ma in altre forme anche dai principali teorici dell'anarchismo) riguardo al ruolo salvifico del proletariato e che all'epoca era generalmente accettata come un dogma positivo negli ambienti di sinistra del mondo intero. Tale illusione - che si ritroverà anche in alcune pagine della Société du spectacle - accompagnerà l'elaborazione situazionistica dentro e oltre gli anni '60: cioè gli anni delle ultime lotte operaie portatrici (in Francia e in Italia - dopo il 1980 anche nella Polonia di Solidarność) di valori d'interesse generale, vagamente più «universali» rispetto alle consuete rivendicazioni puramente salariali.
Riguardo al dopo, sappiamo com'è andata e come sta andando. Ma ormai dovrebbe saperlo anche Vaneigem, visto che, a differenza di Debord, è ancora vivo, risiede nella sua città natale di Lessines, in Belgio, e continua a pubblicare un libro dopo l'altro, vivendo in modesto e antispettacolare ritiro. Un'autentica eccezione…
Capitalismo burocratico e banalizzazione
Il testo del 1962 sopra citato («Banalités de base I», IS, n. 7) riconosce la giustezza originaria dell'analisi marxiana sul tema dell'alienazione, ma vi aggiunge anche la mesta considerazione che essa si è trasformata ne «l'elogio del totalitarismo sovietico» [p. 101], mentre la sua validità storica viene ridotta sempre più a «banalizzazione» dalla crescita di potere in ogni spazio vitale del capitalismo burocratico.
Il concetto di «capitalismo burocratico» è ripreso da Cornelius Castoriadis2, ma non è ben specificato nell'uso un po' disinvolto che ne fa Vaneigem. Tuttavia, per ciò che si presume egli possa intendere storicamente, è difficile non trovarsi d'accordo sulla sostanza, anche se non sulla lettera di tale definizione.
Così come non si può ormai non essere d'accordo con la definizione di bolscevismo degenerato che ricorre in un paragrafo limitrofo - all'epoca inaccettabile per chi riteneva l'orrore dello stalinismo un processo totalmente separato dalla degenerazione leniniana della rivoluzione d'Ottobre con la sua concomitante liquidazione dei soviet.
Si guardi la data dell'aprile 1962 - pochi giorni dopo gli accordi di Evian (conclusione vittoriosa della lotta di liberazione algerina) e a un anno esatto dalla sconfitta della Cia a Playa Girón - e si tenga conto del clima trionfalistico che aveva pervaso le strutture tradizionali della sinistra più o meno comunista. In quel clima euforico e in un momento di massima tensione della Guerra fredda (la Crisi dei missili a Cuba sarà a ottobre) affermazioni di questo genere si pagavano duramente e non solo nella sinistra stalinista - rappresentata nella Francia gollista dall'egemonia partitica e sindacale sul movimento operaio da parte del Pcf - ma anche nella sinistra alternativa e antistaliniana. Ancor oggi, del resto, non in tutti gli ambienti politici di ciò che resta delle ex sinistre si trova un consenso unanime nel demistificare le illusioni nutrite da milioni di lavoratori riguardo alle funzioni salvifiche del Partito comunista di Lenin: anche in coloro che, sia pur solo in forma elementare o intuitiva, riconoscono la negatività storica dello stalinismo, che non sono però disposti ad ammettere che il bolscevismo gli abbia preparato il terreno o, più esattamente, spalancato le porte. In questo i situazionisti, se non sono stati propriamente dei pionieri, hanno certamente indicato un percorso loro caratteristico da compiere, alternativo a quello dei gruppuscoli antistaliniani (anarchici e trotskisti) tradizionali: un grande merito teorico, privo però della benché minima conseguenza pratica.
L'analisi politica vaneigemiana della banalizzazione capitalistica - indotta dalla riorganizzazione delle «strutture neocapitalistiche» e, a livello individuale, dalla concomitante «estensione a macchia d'olio della mediocrità dell'esistenza» - parte da una ben delimitata distinzione: da un lato, l'alienazione primitiva, naturale, legata alla lotta per la sopravvivenza e, dall'altro, l'alienazione sociale, qui imputata soprattutto al modo in cui si è sviluppata la «civiltà tecnica» (un primo adombramento di motivi fourieriani che troveremo più ampiamente sviluppati in seguito, e non solo nel Trattato di saper vivere).
C'è anche un modesto quanto ingenuo tentativo di ricondurre questa distinzione a concezioni di religiosità esistenziale tratte da Mircea Eliade, ma francamente non se ne vede la connessione (anche perché non viene fatto nulla per dimostrarla)3.
La verità è che la distinzione fondamentale tra le due forme di alienazione non può finire che con l'essere ricondotta alla grande e ininterrotta riflessione che l'umanità conduce da secoli (circa un paio di millenni e mezzo) sul conflitto uomo/natura, con le sue ricadute sull'organizzazione sociale dell'umanità, quella reale e situata nelle sue varie epoche storiche (anche preistoriche nell'analisi di Vaneigem).
Non è qui il caso di commentare, sia pure sinteticamente, la ricostruzione cronostorica che viene proposta riguardo all'intreccio antagonistico tra socializzazione per la sopravvivenza e appropriazione privata, fondata quest'ultima sull'organizzazione della parvenza e il cui esito finale, già sappiamo, è la contemporanea società dello spettacolo. Il tema è ricco di suggestioni, è ben articolato e rinvia a tanta letteratura sull'argomento, in alcuni casi celeberrima (da Lewis Henry Morgan e la lettura che ne propose Engels al darwinismo sociale e così via).
Vale però la pena di osservare che i grandi precedenti storici di opposizione netta all'appropriazione privata delle condizioni di esistenza (per Vaneigem di sopravvivenza) sono qui indicati nelle rivolte degli schiavi, nelle jacqueries, nei movimenti ereticali in genere e calvinisti in particolare, negli Enragés della Rivoluzione francese, nei Comunardi, nei minatori delle Asturie, negli insorti di Kronštadt, negli scioperi selvaggi (senza specificare quali, ma presumibilmente quelli spontanei o di matrice anarcosindacalistica, e comunque nell'Europa dei primissimi anni '60), nelle lotte dei blouson noirs nella Svezia dell'epoca (che erano cosa ben diversa dai black bloc dei nostri tempi).
Più avanti [p. 118] verranno inseriti in questo elenco ideale di rivoluzionari realmente antagonisti rispetto al sistema il poeta Lautréamont4, gli anarchici illegalisti (presumibilmente le varie correnti che vanno dalla propaganda del fatto ai «banditi tragici» tipo Ravachol, Banda Bonnot ecc.), i dadaisti. Un elenco un po' sbrigativo e semplicistico che colpisce per la sua ingenuità, frutto della scarsa dimestichezza di Vaneigem e dei situazionisti in genere con la storia delle classi subalterne, per non parlare del loro disinteresse per uno studio dell'esperienza internazionale del movimento operaio.
Segue una tiritera contro coloro che discettano teoricamente delle insurrezioni senza prendervi parte, e anzi pretendono di spiegarne il significato. È la consueta demagogica contrapposizione della teoria alla prassi, che può far solo sorridere quando viene proposta da teorici allo stato puro, come è certamente il caso di Vaneigem. Non è il luogo per aprire una parentesi sul rapporto fra teoria e prassi, ma non si può fare a meno di osservare a fronte di questa «banale» ingenuità che, nel lanciare l'anatema contro l'intellighenzia, Vaneigem non si rende conto di lanciarla anche contro se stesso e i suoi compagni dell'IS.
Conclude questa parte storico-introduttiva una riflessione un po' scontata sulla dialettica del particolare e del generale, che rinvia certamente a Hegel, anche se non lo si nomina. Mentre più originali e interessanti sono gli accenni a come il proprietario riesce a trasformare le necessità dei sottoposti in prestigio (anche qui si pensi ai futuri sviluppi nella società spettacolare); nonché alla nascita e funzione del mito come «unità fittizia» nella «dialettica del voler vivere e del suo contrario», come tentativo di «risolvere l'opposizione irriducibile tra il sacrificio mitico degli uni [i padroni] e la vita sacrificata degli altri» [p. 113].
L'impossibilità di disambiguare il linguaggio attraverso strumenti correnti (che non siano quindi straordinari, come per es. la poesia [è citato Mallarmé] o la libertà delirante di cui parlerà in seguito) consente al mito di inglobare e assimilare tutto. Attraverso il controllo del linguaggio esso impone la propria struttura interpretativa, e anzi ne promuove la drammatizzazione. Mentre attraverso la ricompensa, che ricompone la dialettica del sacrificio, il mito crea i «nuovi martiri canonizzati democraticamente», tra i quali vengono inclusi per primi gli operai premiati, gli specialisti e i manager: pilastri indefettibili del capitalismo burocratico e guardiani di base rispetto al processo d'organizzazione della parvenza e della sua trasformazione in alienazione.
Il padrone (anche di sinistra, ricorda Vaneigem) diventa proprietario delle esistenze a lui sottoposte affidandole a una trascendenza superiore, che può essere in primo luogo Dio, ma anche altri Enti prodotti dalla sequenza sacrificio-ricompensa-mito-appropriazione-prestigio-interpretazione-drammatizzazione-spettacolarizzazione-trascendenza-onnipotenza, sino alla definitiva consacrazione. Quest'ultima è il punto d'arrivo dell'abbinamento «mistica e gran capitale», per il quale il fascismo ha rappresentato una parentesi («autodafé di una borghesia ossessionata dalla distruzione del grande spettacolo sacro»). Nelle parole di Vaneigem:
«Il potere gerarchizzato non si concepisce senza trascendenze, senza ideologie, senza miti. Il mito della demistificazione è d'altra parte pronto a prendere le consegne; basta omettere, molto filosoficamente, di demistificare con le azioni. Dopodiché, ogni demistificazione, opportunamente sterilizzata, diventa indolore, eutanasiaca, umanitaria insomma. Sarà il movimento di demistificazione che finirà per demistificare i demistificatori» [p. 120].
Il primo saggio delle «Banalités de base» si conclude senza il minimo accenno al contributo fondamentale che la spettacolarizzazione (in forma di mito, di organizzazione della parvenza, di strumentalizzazione del prestigio) arreca all'acquisizione di un potere supremo da parte dello Stato (capitalistico burocratico o totalitario che sia) e alla sopravvivenza dei suoi principali fondamentali strumenti operativi e mistificatori, cioè i partiti. Di questi non si parla affatto, ed è un peccato.
Organizzazione dell'apparenza e potere gerarchizzato
Nella seconda delle «Banalités de base» (n. 8 dell'IS, gennaio 1963), Vaneigem parte dal connubio tra il potere gerarchizzato (quindi non ancora lo Stato) e il mito del lavoro liberatore, frutto prediletto dell'organizzazione dell'apparenza - un tema come si vede che scorre alla maniera di un leitmotiv in gran parte del suo ragionamento. Ma poi il discorso si fa più filosofico, quindi più astratto e impalpabile (affermazione del Logos, sua parcellizzazione, accesso alla totalità, sua requisizione da parte dello Stato stalino-cibernetico, coito politico del patafisico [?], desacralizzazione ad opera della tecnica), per concludere provvisoriamente che «lo spettacolo non è altro che il mito desacralizzato e parcellizzato» [p. 128] - un po' poco per chi conosce, a posteriori, l'approdo ultimo della critica alla società dello spettacolo.
Nel discorso di Vaneigem, la realtà del dominio capitalistico e della sua articolazione tramite i tentacoli della società spettacolare si fa sempre più evanescente, lontano e indistinguibile; mentre all'orizzonte comincia a delinearsi la condizione infelice e subordinata del lavoro vivo, dell'operaio irretito nel gioco sacrificio-ricompensa, sopraffatto dal prestigio-mito e assorbito in una totalità alienante a lui apparentemente omogenea, ma in ultima analisi ostile o, al massimo, consolatrice. Il diamat staliniano viene ancora una volta tirato in ballo, a dimostrazione della profonda interpenetrazione che per Vaneigem accomuna i due sistemi totalitari dominanti (secondo un'interpretazione unitaria del rapporto salariale di produzione, comune al capitalismo e al sistema burocratico sovietico, che Pierre Naville aveva già ampiamente delineato nel suo De l'aliénation à la jouissance)5.
A una polemica feroce contro il mondo degli «specialisti» (concetto impreciso e sottoposto a continue modifiche per l'accelerazione impressa all'organizzazione del lavoro dal progresso tecnologico) si affianca una prima confusa rivendicazione della dignità del rifiuto del lavoro: tema qui e altrove non approfondito, e non riconducibile ai significati che tale comportamento operaio acquisterà nei primi anni '70, al di là delle aspettative fantapolitiche che vi addosseranno le varie culture dell'operaismo, soprattutto in Italia.
Nella descrizione dell'accerchiamento da condizionamenti in cui l'individuo è costretto a vivere nella società spettacolare, Vaneigem si avventura in una distinzione di sapore prettamente filosofico-astratto, non molto comprensibile e comunque totalmente priva di un'argomentazione di sostegno: nella relazione spazio-tempo, il tempo rappresenterebbe l'immaginario (non si capisce perché) e lo spazio, invece, la definizione della soggettività.
A parte la totale inutilità della distinzione ai fini del discorso avviato nella prima parte del saggio (e soprattutto nel saggio precedente), va osservato che queste affermazioni così gratuite (cioè prive di argomentazione) sono accompagnate da una sequela di giochi di parole, calembour ecc.: proprio quegli espedienti linguistici che tanto hanno contribuito a rendere incomprensibile la sostanza del messaggio situazionistico e a squalificarne la presunzione di incarnare una nuova forma di linguaggio filosofico.
Basti pensare, in contrappunto, alla serietà scientifica con cui lo stesso tema del rapporto spazio-tempo era stato affrontato dal mondo degli astrofisici e avviato a una prima provvisoria soluzione soprattutto da Einstein, nel 1915, con la sua teoria della relatività generale: il fatto di non poter capire o ancor meno spiegare in poche parole tale teoria (peraltro considerata universalmente una conquista teorica dell'umanità) non dovrebbe esimere nessuno dal tenerne conto quando si decide di affrontare un tema di «infinita» valenza come la relazione spazio-temporale: nessuno, a partire in primo luogo dai «grandi filosofi» più o meno contemporanei detentori di cattedre universitarie e del monopolio nell'elaborazione del pensiero filosofico… accademico.
Vaneigem sembra non essere minimamente sfiorato dal problema: in questo si adegua alla grossolana superficialità di gran parte della letteratura «filosofica» del Novecento, che continua massicciamente nel metodo di avvolgere in giochi di parole ciò che risulta troppo difficile spiegare o interpretare in termini scientifici (non solo fisici o astronomici, ma anche neurologici, biochimici ecc.).
Liquidata sbrigativamente la questione del rapporto spazio-tempo, non è un caso che nell'ultima parte del saggio comincino ad abbondare giochi di parole o frasi eufoniche ma prive di senso, delle quali diamo come tipico esempio la seguente, altisonante e apparentemente molto «filosofica», ma totalmente vacua:
«La totalità è la realtà oggettiva nel cui movimento la soggettività può inserirsi soltanto sotto forma di realizzazione» [p. 140].
Un fugace accenno all'armonia universale di Fourier (qui riferita allo «spazio-tempo della vita privata», che a sua volta non significa niente e comunque non corrisponde al significato che vi aveva attribuito il teorico dei falansteri e dell'attrazione passionale) apre la porta alla frenetica manipolazione di termini che caratterizza l'intera Tesi 25: giochi di parole che s'inseguono l'un l'altro e che sembrano non avere più alcuna connessione logica o teorica con la sostanza del precedente saggio. Si mescolano termini presi dalla psicoanalisi, dal marxismo [p. 144], dal lettrismo, da Sade e, per la prima volta, dal surrealismo (in genere bistrattato dagli esponenti dell'IS): un coacervo di frasi in cui non si riesce a cogliere alcuna intuizione degna di nota e in cui si avverte soprattutto lo smarrimento di un autore che, arrivato a un certo grado di consapevolezza teorica, non riesce a superare se stesso, non trovando gli strumenti per riuscire a portare il proprio discorso fino alle ultime conseguenze.
Non è un caso - lo voglio ricordare ancora una volta - che lo Stato e i partiti, come agenti reali ed effettivi della spettacolarizzazione (e della sua massificazione), continuino a brillare per la loro assenza dal discorso di Vaneigem. Che parla invece di «prassi» in astratto e di «potere» in astratto, riferiti a una «totalità» anch'essa in astratto che può voler dire tutto o niente. Il profluvio di parole dilaga e precipita verso una conclusione, anch'essa astratta e incomprensibile.
Prima di concludere, tuttavia, Vaneigem lancia una diffida intimidatoria verso coloro che non sono in grado di capire questa parte del suo discorso, racchiusa nelle pagine finali: secondo l'Autore, «uno spirito mediocre può capire le sue parole solo al terzo tentativo» [p. 146]. Troppo buono, visto che il sottoscritto non ci riesce nemmeno al settimo o all'ottavo e, nonostante la terribile mediocrità del proprio spirito, gli sarebbe stato eternamente grato se avesse compiuto uno sforzo maggiore per farsi capire anche da altri spiriti mediocri più fortunati, magari al secondo tentativo se non al primo.
Purtroppo, si capiscono invece molto bene le ultime formulazioni in cui viene dichiarata la volontà programmatica di realizzare l'uomo totale, adottando il «principio gerarchico» suggerito da Nietzsche, oltre che rafforzando il gruppo, purificando il nucleo, completando l'eliminazione dei residui (sono tutti termini di Vaneigem):
«Non accettiamo il quadro gerarchico nel quale ci troviamo collocati se non nell'impazienza di annientare quelli che dominiamo, e che non possiamo non dominare sulla base dei nostri criteri di riconoscimento. Sul piano tattico, la nostra comunicazione dev'essere un irradiamento a partire da un centro più o meno nascosto… Come Dio costituiva il punto di riferimento della società unitaria passata, così noi ci prepariamo a fornire a una società unitaria ora possibile il suo punto di riferimento centrale. Ma questo punto non potrebbe essere fisso. Esso rappresenta, contro la confusione sempre ripetuta che la società cibernetica attinge nel passato dell'inumanità, il gioco di tutti gli uomini, l'ordine mobile dell'avvenire» [p. 148].
No comments, ma solo per spirito umanitario. Occorre invece armarsi di grande pazienza e comprensione, onde chiarire che tra le premesse da noi descritte di un'analisi ben promettente dell'alienazione nella società del capitalismo burocratico, la precedente fraseologia incomprensibile e questo appello finale di ispirazione fascistoide o stalinoide, non vi è alcun rapporto logico o teorico: potrebbero averle scritte tre persone diverse.
Va detto, però, che l'autoesaltazione da setta invasata che trasuda da queste parole conclusive (e che trovò applicazione nella burrascosa storia di espulsioni e scissioni dell'IS) non deve far perdere di vista la ricchezza delle intuizioni precedentemente ricordate e gli sviluppi che conosceranno nel Traité de savoir-vivre.
La dinamica del piccolo gruppo
Affronteremo in altra occasione l'analisi del Traité - scritto a partire dal 1965 e pubblicato nel 1967. Qui vogliamo ricordare altri contributi minori di Vaneigem, prodotti più o meno nel periodo di elaborazione del Trattato e pubblicati sull'IS.
«De quelques questions théoriques sans questionnement ni problématique» (IS, n. 10/marzo 1966, trad. it. in Situazionismo, cit., pp. 166-8) è un nutrito elenco di «punti da prendere in considerazione» redatto nella forma di un piano di studi delle emergenze rivoluzionarie (pratiche e teoriche) nel corso della storia.
Poiché inizia con la critica dell'economia politica, si presume che il punto di partenza sia Marx, mentre il punto d'arrivo è rappresentato, sintomaticamente, da «La follia e gli stati secondi» (presumibilmente Foucault). In mezzo ricompaiono tutti i riferimenti rivoluzionari prima citati, ora accompagnati però da decine e decine di altri temi, tutti plausibili, tutti chiaramente individuabili attraverso i loro titoli classici.
Tra gli altri affiora anche un «Elogio di Charles Fourier», posto immediatamente dopo le «Tesi sull'utopia» e subito prima de «I consigli operai». Magari si sarebbe potuto invertire l'ordine o distanziare di più i soggetti, ma l'intenzione esplorativa, pedagogica e politico-deduttiva sembra più che chiara. Mentre l'ispirazione compositiva dell'elenco non si fatica a riconoscerla tutta interna a correnti di pensiero marxiste libertarie. Ciò detto e per quel tanto che possono valere le etichette.
Rimane la curiosità di sapere quanta parte di questo piano di studi così organico - che a chi scrive riporta alla mente le «scuole-quadri» che un tempo si svolgevano nelle sezioni della Quarta internazionale - sia stato veramente realizzato nella vita di Vaneigem e nell'elaborazione del gruppo situazionista.
Sembrerebbe ben poco o almeno con risultati poco soddisfacenti, se un successivo testo di Vaneigem («Avoir pour fin la verité pratique», IS, n. 11/ottobre 1967, in op. cit., pp. 169-74) viene tutto dedicato alla dinamica interna ai situazionisti, all'orgoglio del gruppo di appartenenza, allo smascheramento della «frazione segreta», alla giustificazione delle espulsioni e ad altre pratiche repressive ed esclusive tipiche della peggior gruppettologia di sinistra. Vi si parla di tattica, di coerenza rivoluzionaria e, come da manuale, si attribuisce al mondo esterno la responsabilità per la mancata crescita dell'IS («Tutto ciò che ci separa ancora dalla realizzazione del progetto situazionista deriva dall'ostilità del vecchio mondo in cui viviamo»).
Non mancano gli appelli al volontarismo, alla necessità di rivoluzionare il proprio mondo interiore e tutta l'illusoria autoesaltazione delle militanza nei piccoli gruppi. Segno che l'elaborazione teorica sviluppata sino a quel momento non era stata in grado di vaccinare il gruppo situazionista contro le malattie infantili che ormai dilagavano come un'epidemia nel mondo delle sinistre alternative, dei gruppi di base, delle Internazionali variamente numerate, dei partitini rivoluzionari ad hoc nati dal mattino alla sera: insomma, il mondo che in altre occasioni ho definito di pura e semplice «psicopatologia politica». E a quella definizione rimando6, senza alcuna esitazione, anche per questo aspetto di Vaneigem.
Il lettore non fatica a riconoscere la figura tipica del segretario di cellula o sezione di partito nel Vaneigem che conclude il suo appello alla coerenza militante, rivendicando come vera tutta l'illusorietà dell'autocrescita organizzativa e della conquista di orizzonti di gloria da parte del gruppo situazionista:
«Poiché l'Internazionale [Situazionista] dispone oggi di una ricchezza teorica e pratica che aumenta solo quando viene condivisa […] essa ha il dovere di accogliere solo coloro che lo desiderano con cognizione di causa, cioè chiunque ha provato che parlando e agendo per se stesso, parla e agisce in nome di molti; sia creando con la propria prassi poetica (volantino, sommossa, film, agitazione, libro) un raggruppamento di forze sovversive, sia trovandosi solo detentore della coerenza nell'esperienza di radicalizzazione di un gruppo» [p. 174].
Eppure, meno di tre anni dopo, nel 1970, nel pieno della radicalizzazione rivoluzionaria della società francese indotta dal movimento del Maggio '68, in un contesto di grande effervescenza sociale anche in altre parti d'Europa (Italia soprattutto, ma Belgio compreso), Vaneigem si dimetterà dall'IS. Il suo ultimo articolo sulla rivista era apparso a settembre del 1969. E di questo vogliamo parlare prima di concludere provvisoriamente.
L'autogestione generalizzata
«Avis aux civilisés relativement à l'autogestion generalisée» (IS, n. 12/settembre 1969, in Situazionismo, cit., pp. 187-98) mostra già nel titolo una precisa intenzione di riallacciarsi alle teorie immaginifiche di Charles Fourier. Un'intenzione confermata anche dalla lunga dedica iniziale, da vari altri riferimenti e, verso la fine, da due espliciti rimandi alla teoria dell'attraction passionnée (base dell'ideologia falansteriana), quando si proclama la necessità
«di radicalizzare il progetto fourierista, di occuparsi delle richieste di soddisfazione personale… di armonizzare le disponibilità ludiche dell'organizzazione dei lavori necessari»; ma anche di «sperimentare forme attrattive di lavori necessari, non per dissimularne il carattere penoso, ma per compensarlo con un'organizzazione ludica e, per quanto possibile, per eliminarli a vantaggio della creatività» [pp. 196 e 197].
La Francia di quegli anni stava vivendo un forte Fourier-revival grazie alla nuova edizione delle Œuvres (cominciata nel 1966 dalle edizioni Anthropos, in anastatica), il rilancio del pensiero utopistico sulla scia del Maggio '68, la rivisitazione dello stesso patrimonio teorico fourieriano ad opera di alcuni intellettuali francesi di grande prestigio (basti pensare fra tutti a un celebre ex membro dell'IS come Henri Lefebvre). Saranno costoro, nel 1972, a dar vita all'Association internationale des Amis de Fourier - alla cui fondazione ad Arc-et-Senans partecipò anche il sottoscritto, in veste di giovane ed entusiastico adepto. (L'associazione si trasferì poi da Parigi a Besançon, dove attualmente prosegue l'attività e pubblica annualmente dei Cahiers, giunti nel 2015 al loro 26° numero.)
Questa premessa per avvertire il lettore che il richiamo così esplicito a Fourier da parte di Vaneigem, nel 1969, non ha in sé niente di speciale: rientrava nelle tendenze d'epoca e contava già su una lunga lista di prestigiose rivisitazioni fourieriane7. Speciale è invece il tentativo di fondere quel patrimonio comunitaristico-societario - basato sulla valorizzazione finanche economica delle passioni e sulla forza collettiva dell'immaginazione (… al potere, ovviamente) - con la prospettiva di una società dei consigli, cioè una visione sociale rivoluzionaria, fondata sull'egualitarismo, la solidarietà e l'autogestione, ma intrisa di contenuti libertari di matrice situazionistica.
Vaneigem considerava tale prospettiva «di possibile realizzazione immediata». E tutto sommato non era molto lontano dal vero in quell'autunno postsessantottesco, soprattutto se il suo sguardo era rivolto a quanto stava accadendo in Italia, dove i sindacati erano costretti a correre dietro al movimento dei lavoratori per poterne frenare la spinta di base rivolta alla costituzione di consigli operai autentici. Sappiamo come andò a finire e magari, a posteriori, siamo anche arrivati alla certezza che in realtà non fossero esistite le condizioni sufficienti per un trionfo della rivoluzione consiliare né in Italia, né in Francia. Ma all'epoca i movimenti di massa dei lavoratori non potevano esserne certi così come non poteva esserlo Vaneigem che, in questo articolo, esprime tutto l'entusiasmo rivoluzionario e la massima speranza utopistica di cui egli sia mai stato capace, senza perdere il rapporto con la realtà e senza più giocare (troppo) con le parole.
Le certezze dalle quali partiva e che lui ripercorre erano: a) che il movimento del Maggio aveva convogliato per la prima volta milioni di persone nell'alveo di una prospettiva rivoluzionaria; b) che questa confluenza si era verificata attorno al «movimento storico del proletariato» [p. 189]; c) che l'unità d'azione si era realizzata spontaneamente; d) che la spinta unitaria in quanto tale aveva costituito il «motore passionale [Fourier (r.m.)] del movimento delle occupazioni»; e) che solo grazie a questa unità di massa nell'azione si era superata la dicotomia teoria/prassi (problema irrisolto del precedente saggio di cui abbiamo parlato); f) che gli obiettivi rivendicativi di ogni genere e categoria si fondevano ora in una «lotta contro l'insieme delle alienazioni» [ibid.]; g) che la forza dei desideri individuali e la costruzione di rapporti veramente liberi potevano aprire la porta alla società dell'autogestione generalizzata.
Vaneigem aggiungeva che solo il proletariato (il termine così obsoleto è da lui adottato ripetutamente) avrebbe potuto dischiudere una tale prospettiva, perché esso contiene in sé naturalmente - in senso oggettivo e soggettivo - il progetto di autogestione generalizzata. Per tale ragione, qualsiasi organizzazione rivoluzionaria non dovrebbe far altro che dissolversi «nella realtà della società dei consigli». E sappiamo già che Vaneigem concretizzerà questa posizione pochi mesi dopo, dando le dimissioni dall'IS.
Segue una lunga e articolata esaltazione della prospettiva consiliare che risente di analoghe e molto diffuse descrizioni esaltate ed esaltanti, correnti all'epoca, e che non sarebbe generoso liquidare sbrigativamente come pura illusione frutto di effimere circostanze. Vale invece la pena di riesaminarle per esigenze di completezza teorica, nell'intento di ricostruire la contraddittorietà del pensiero di Vaneigem e, attraverso lui, dell'intera IS.
Il tentativo va fatto, in primo luogo, perché la lista dei sogni che elabora Vaneigem ricalca nel metodo analoghe liste di costruzioni utopiche elaborate da Fourier (a volte addirittura con coincidenza di contenuti). E benché non siano contestualizzati nelle condizioni reali dell'epoca - a causa della loro infondatezza - questi sprazzi di pensiero utopico ci rivelano molto sulle aspirazioni soggettive dell'Autore: vale a dire di una persona che fino a un paio di anni prima aveva utilizzato tutt'altro linguaggio, ben più astratto e veterofilosofico.
È poi interessante vedere, in un ulteriore riferimento a Fourier, il modo in cui Vaneigem ne riassume l'essenza di pensiero, adattandola al proprio discorso autogestionale nel modo seguente:
«[Secondo Fourier] l'inizio del momento rivoluzionario deve segnare per tutti un aumento immediato del piacere di vivere, l'ingresso vissuto e cosciente nella totalità» [pp. 190-1, corsivo di R.V].
In secondo luogo, perché l'appello alla rivoluzione operaia e consiliare che trasuda da ogni paragrafo rappresenta qualcosa d'insolito nell'elaborazione situazionistica passata, presente all'epoca e successiva al 1969 (a parte alcuni rapidi cenni nella principale opera di Debord). Insomma, si tratta di un'anomalia di percorso politico - rispetto alla tradizione dell'IS - determinata dalla forte pressione dei movimenti di massa dopo il Maggio, dalla quale nessun intellettuale onesto, coinvolto nel movimento e di orientamento radicalmente anticapitalistico rimase del tutto indenne in quegli anni.
Ma non per questo essa va considerata estranea alle premesse di pensiero politico dello stesso Vaneigem. E qui forse abbiamo la prova che il suo percorso all'interno dell'IS era stato molto personale e poco condiviso dagli altri compagni di strada, nonostante egli fosse stato l'altro più noto esponente del movimento, dopo Debord.
Vaneigem ridicolizza i gruppi dell'ortodossia marxista tradizionale (in primis i trotskisti, qui e altrove), ma non sembra rendersi conto che molte delle cose che egli va qui presentando come proprie indicazioni erano da tempo acquisite nell'armamentario teorico della tradizione quartinternazionalistica: la necessità di superare in un progetto globale l'impotenza delle «rivendicazioni parziali»; la denuncia del riformismo nascosto sotto la «pelle burocratica»; la necessità di una strategia che costruisca mano a mano la possibilità di «momenti insurrezionali sempre più ravvicinati»; l'adozione di obiettivi che contengano in nuce «la liquidazione del mondo della merce» (di fatto la classica strategia degli obiettivi transitori); la creazione di momenti di «doppio potere» [pp. 193 e 198] a tutti i livelli; l'autodifesa militare dei consigli [pp. 194, 196 e 198]; il controllo operaio sulla produzione.
Di caratteristico o tipicamente suo (in questo coincidente con Debord) aggiunge, però, la necessità del
«sabotaggio positivo della società mercantile-spettacolare. Finché si manterrà come tattica di massa la legge del piacere immediato [ancora Fourier (r.m.)], non ci sarà motivo di preoccuparsi del risultato» [p. 191, corsivo di R.V.].
Segue una lista di indicazioni pratiche su come preparare il terreno di lotta (autofabbricazione di oggettistica di un certo tipo, mercatini solidali, autoriduzioni, sostituzione del denaro con forme di baratto, micro-autoproduzioni alternative, volantini, canzoni ecc.), sulla cui ingenuità è meglio soprassedere. Anche se questi espedienti - illusori e organicamente piccolo-borghesi - sono stati poi i principali effetti della grande radicalizzazione d'epoca che hanno trovato il maggior successo al livello di massa (fenomeno perdurante), senza peraltro scalfire minimamente il regno della merce e il sistema del capitale.
Degne di nota sono, invece, le parti dedicate alla funzione rivoluzionaria dei consigli; al loro funzionamento realmente democratico (democrazia diretta); al loro sostituirsi come nuovi organi «di fronte alla decomposizione dello Stato» [p. 194] (Stato che qui finalmente compare sulla scena teorica, anche se in veste di moribondo più che di soggetto attivo, e di cui comunque si prevede la distruzione); alla sovranità assembleare; all'estinzione di qualsiasi altra delega che non sia quella consiliare (quindi estinzione dei partiti, anche se ancora tenacemente non nominati); alla lotta contro la neoburocrazia; al controllo delle strutture di base su tutti i mezzi di comunicazione di massa; ai princìpi della rotazione e della revocabilità dei delegati (secondo criteri tradizionali acquisiti da tempo nella letteratura marxista di carattere utopistico); all'organizzazione dell'economia in base alla ripartizione dei compiti secondo criteri consiliari; alle tante altre funzioni sociali e libertarie che la democrazia dei consigli (qui chiamati anche «anti-Stato») renderà possibili.
Cambiano le formule organizzative e le denominazioni delle varie funzioni, ma le pagine di Vaneigem dedicate ai consigli rientrano perfettamente nella tradizione consiliare del movimento operaio novecentesco, che queste idee le aveva espresse più volte in testi che abbiamo già definito utopico-marxisti8, a partire da quanto Marx scrisse sulla Comune di Parigi, poi variamente ripreso e sviluppato (addirittura anche da Lenin nelle settimane precedenti l'Ottobre).
E proprio sul tradizionale richiamo all'idea della Comune si conclude il testo di Vaneigem: un testo organico e a suo modo completo, degno di figurare nella lunga lista di progetti utopici positivi che hanno contrassegnato la storia del movimento operaio fin dal suo sorgere come forza politica autonoma rispetto alla borghesia.
Che dell'utopia vaneigemiana non si sia realizzato neanche una minima parte fino ad oggi è un altro problema, di cui ovviamente non si può dar la colpa al situazionismo o allo stesso Vaneigem. La principale linea di forza dell'utopia, del resto, risiede proprio nello sforzo che alcuni settori dell'umanità compiono nel tentativo di realizzarla, nella tensione materiale e spirituale che così si crea, indipendentemente dai tempi e dai modi in cui i risultati vengono conseguiti.
Nello stesso numero 12 dell'IS (settembre 1969) venne ripubblicato - in polemica indiretta con Henri Lefebvre, che ne aveva ricalcato i contenuti in un suo recente articolo - un manifesto/appello del 1962 dedicato per l'appunto alla Comune di Parigi. Lo avevano firmato Debord, Kotányi e Vaneigem, ed è difficile rintracciare il contributo specifico di ciascuno dei tre.
Si riconosce la mano di Kotányi nell'affermazione paradossale che la Comune è stata fino ai nostri giorni «l'unica realizzazione di urbanistica rivoluzionaria» [p. 201], e forse quella di Debord nella dichiarazione un po' macabra secondo cui «la Comune è stata la più grande festa del XIX secolo». Anche i vari riferimenti a Marx (un po' ambigui, se non francamente confusi, a dire il vero) potrebbero essere ugualmente di Debord, mentre appare probabile come contributo vaneigemiano la parte riguardante la questione dell'armamento.
Nell'insieme, però, il testo sembra veramente composto da tre persone diverse (se non di più…), vista l'assenza di una qualsiasi logica unificante all'interno dei 14 punti che lo compongono. I giudizi sono contraddittori, la ricostruzione storica procede a ruota libera, i meriti della Comune sono formulati in maniera da non far mai capire se vanno attribuiti a come la Comune fu o a come sarebbe dovuta o potuta essere. Bakunin non è neanche nominato e al suo posto compare Blanqui. Insomma, un miscuglio di idee, bravate ideologiche e sfoggi di erudizione spicciola che corrispondono bene all'atmosfera di bohème ideologizzante in cui si era formato l'originario gruppo situazionistico.
C'è però un brano che non può essere stato scritto altro che da Vaneigem e che, pur riflettendo una sua opinione del 1962, merita qui la nostra attenzione per il fatto di essere ripubblicato nel 1969, nel momento in cui egli si accingeva a chiudere con l'esperienza settaria dell'IS, per veleggiare a vista nell'intricato mondo della banalizzazione burocratico-capitalistica, sempre e comunque mercantilistica e spettacolare…
«12. L'audacia e l'invenzione della Comune non si misurano ovviamente rispetto alla nostra epoca, ma rispetto alle banalità di allora nella vita politica, intellettuale, morale. Rispetto alla solidarietà di tutte le banalità fra le quali la Comune ha portato il fuoco. Così, considerando la solidarietà delle banalità attuali (di destra e di sinistra) ci si rende conto della misura dell'invenzione che ci possiamo aspettare da un'eguale esplosione» [p. 203].
L'esplosione arriverà meno di sei anni dopo, non avrà limiti nelle sue temporanee capacità d'invenzione, ma né Vaneigem, né il gruppo situazionista si dimostreranno pronti a viverla politicamente, pur avendola ampiamente anticipata nelle loro utopiche elucubrazioni.
1 Questi e altri materiali dell'Internationale Situationniste più avanti citati sono stati tradotti in G. Debord, R. Vaneigem e altri, Situazionismo. Materiali per un'economia politica dell'immaginario, a cura di Pasquale Stanziale, Massari ed., Bolsena 1998 e 2004.
2 C. Castoriadis, «Les Rapports de production en Russie», in Socialisme ou Barbarie, n. 2, maggio 1949 [poi unito a «La Révolution contre la bureaucratie», a formare in due voll. La Société bureaucratique, Union générale d'éditions, Paris 1973].
3 Questo ritardo nell'analisi della questione religiosa verrà ampiamente superato dallo stesso Vaneigem in vari suoi lavori successivi dedicati al tema, come Les controverses du christianisme (con lo pseud. di Tristan Hannaniel, Bordas, Paris 1992); La résistance au christianisme : Les hérésies des origines au XVIIIe siècle, Fayard, Paris 1993; De l'inhumanité de la religion, Denoël, Paris 2000 [Dell'inumanità della religione, di prossima pubblicazione - nella traduzione di Andrea Babini - presso Massari editore (Bolsena 2016)].
4 Isidore Lucien Ducasse (1846-1870) o «Comte de Lautréamont», detto anche «il Poeta maledetto», era stato oggetto della Tesi di laurea di Vaneigem nel 1956 (Belladona), ristampata da Le Veilleur nel 1988.
5 Pubblicato nel 1957 a Parigi dalla Librairie M. Rivière e ripubblicato nel 1967 da Anthropos [Dall'alienazione al godimento, Jaca Book, Milano 1975, nella traduzione di Roberto Massari e Antonella Marazzi]. È probabile che all'epoca Vaneigem non conoscesse la prima edizione di quell'opera fondamentale di Naville, che del resto e stranamente non troviamo citata in nessun testo situazionistico.
6 «Schede di psicopatologia politica», utopiarossa.blogspot.it. Sono note che rinviano a giudizi clinici e a diagnosi fondate su autentici disturbi della personalità. Va notato che anche uno dei principali studiosi del Situazionismo parla per i suoi più celebri esponenti di «megalomania» e di «perdita del senso di realtà»: Anselm Jappe, Guy Debord, Denoël, Paris 2001, p. 154.
7 Una lista delle principali rivisitazioni teoriche, da me redatta e illustrata in rapporto ai suoi più celebri autori (da Marx a Marcuse, passando per Breton, Calvino, Naville e altri), è nel mio Fourier e l'utopia societaria, Erre emme, Roma 1989, pp. 95-103.
8 La più completa ricostruzione storica delle utopie in generale, di quelle marxiste in particolare e di quelle che l'Autore definisce «letterarie» è nel monumentale lavoro di Arrigo Colombo, La nuova utopia, Mursia, Milano 2014 (primo volume della Trilogia della nuova utopia, in corso di pubblicazione).
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