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sabato 26 settembre 2015

LA VICENDA DI SYRIZA, IL FALLIMENTO DEL PARLAMENTARISMO E LA NECESSARIA RIVOLUZIONE COPERNICANA, di Michele Nobile

Al lettore che volesse approfondire il contesto economico/politico greco del 2015, a partire dall'elezione del governo Tsipras a fine gennaio, si consiglia di consultare i precedenti articoli di Michele Nobile pubblicati su questo blog: «Syriza, un successo elettorale», «Le lezioni della Grecia e le prospettive» e «Grecia: bilancio (provvisorio) e prospettive di un riformismo onesto», oltre all'analisi di Roberto Massari apparsa poco dopo il Referendum di luglio: «Per i Greci: unica soluzione la rivoluzione (ovviamente contro la propria borghesia)». [la Redazione]

Sarà la coincidenza del mese, ma molti commenti sui risultati dell'ultima elezione in Grecia mi hanno fatto scattare un'associazione con l'originale lezione che Enrico Berlinguer trasse dalla tragedia del golpe cileno. Ragionando a partire dal colpo di Stato in Cile, tra settembre e ottobre del 1973 il segretario del Pci mise a punto la linea del «compromesso storico», in effetti già delineata da un anno a quella parte e che altro non era se non una versione aggiornata della strategia togliattiana dell'«avanzata dell'Italia verso il socialismo nella democrazia e nella pace». Come è noto, la lezione che Berlinguer traeva dalla terribile tragedia cilena consisteva nella asserita necessità, per i comunisti italiani, di giungere a un «nuovo grande "compromesso storico" tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano». Non si trattava, dunque, di alimentare e concentrare le possibilità di radicalizzazione politica ancora esistenti nella società italiana, ma di piegare la forza contrattuale del movimento operaio all'alleanza con la piccola e media borghesia e con il padronato; non si trattava di colpire la Democrazia cristiana, allora nel momento di massima crisi, ma di riabilitarla come «forza popolare» costituzionale e con essa collaborare strettamente.

Implicitamente, Berlinguer affermava che per la «via democratica al socialismo» non era sufficiente, in termini istituzionali, neanche conseguire il 51% dei suffragi.
La tragedia cilena costituiva una conferma, di portata mondiale, dei limiti insuperabili della via elettorale e parlamentare al socialismo; eppure Berlinguer ne trasse la lezione opposta, rovesciando le ragioni che avevano permesso la riuscita del golpe, viste non nel moderatismo di Unidad Popular e nell'illusione di Allende della fedeltà alla Costituzione di Pinochet e dei militari, ma in un eccesso di radicalità, nella frattura con un partito «popolare» come la Democrazia cristiana.
Questo travisamento della realtà aveva però una sua logica: di fronte a un fatto che smentisce un'ipotesi, o si abbandona l'ipotesi o si deve reinterpretare il fatto. Un partito politico (o un'area politica) che fonda la propria esistenza e il proprio apparato di professionisti della politica e di rappresentanti istituzionali su una strategia più che decennale, non può abbandonarla se non mutandosi in qualcosa d'altro. Piuttosto, l'abilità della direzione politica consiste nel riuscire a forzare il fatto nel proprio quadro strategico e mentale, magari richiamandosi alla tradizione, a sua volta inventata o reinterpretata. Da quel compromesso storico scaturì, in capo a pochi anni, la repressione dell'ultimo grande movimento anticapitalistico di massa in Europa, quello giovanile e studentesco del 1977; i licenziamenti di massa della Fiat e il rilancio su ampia scala della controffensiva padronale; la messa ai margini del Pci e, in ultimo, l'inizio della sua trasformazione in quello che infine è diventato il Pd di Renzi. Eppure, ancor oggi Enrico Berlinguer è un'icona di un certo «comunismo italiano»: lo stesso che ora continua a schierarsi, comunque, a fianco di Tsipras.
Fatte le debite proporzioni e tenendo conto dei contesti diversissimi, la vicenda greca ha, per la sinistra europea, lo stesso valore di lezione negativa che ebbe l'esperienza di Unidad Popular tanto tempo fa. Tuttavia, ancora una volta, c'è chi si ostina a derivarne la lezione sbagliata, a chiudere gli occhi davanti all'evidenza. Un'evidenza che è atroce e definitiva.

Innanzitutto, ma questo è il minimo, si chiudono gli occhi di fronte ai numeri dei risultati elettorali. Sicché Norma Rangeri scrive sul Manifesto (22 settembre):
«La vittoria di Alexis Tsipras è un'ottima notizia. Per vari motivi: sul piano personale; per la forza del risultato e per il distacco segnato dal centrodestra. I sondaggi che indicavano un match quasi sul filo di lana tra Syriza e Nuova democrazia hanno sbagliato clamorosamente le previsioni (che non è una notizia), e chissà quanto in buonafede. Quasi due milioni di voti e il 35,46% ottenuto al terzo appuntamento elettorale in un anno».
È un modo fuorviante di presentare il risultato di Syriza. È vero che nelle elezioni di settembre per Syriza hanno votato 1,9 milioni di cittadini: ma si tratta di 320 mila voti in meno rispetto al risultato di gennaio. Più sensato sarebbe chiedersi come mai Syriza abbia perso soltanto una frazione limitata del suo elettorato.
Più grave è un'altra mistificazione: che si dia solo il risultato sui voti validi e non sull'intero elettorato, astensione e schede nulle o bianche comprese. È questo un fatto così sistematico che, personalmente, mi è venuto a noia dover ricordare ogni volta che in presenza di una forte astensione le percentuali calcolate sui soli voti validi producono un'immagine fortemente distorta della realtà dell'opinione pubblica; quando l'astensionismo raggiunge il 30-40% (e anche più), come è oramai nei grandi paesi europei, le percentuali sui voti validi sono ovviamente determinanti per l'assegnazione dei rappresentanti e i rapporti di forza nelle istituzioni, ma del tutto fuorvianti per un ragionamento sulla forza delle correnti politiche nella società. Nel caso italiano, ad esempio, il dato dei soli voti validi fu un argomento forte a sostegno dell'esistenza di un «regime berlusconiano» e, quindi, della nefasta pretesa di contrapporvi il «meno peggio» della collaborazione con il centrosinistra. In realtà, Forza Italia ha sempre oscillato tra il 15% e il 18% dei consensi, superando il 20% solo nel 2001, dopo la disastrosa esperienza dei cinque anni di governi di centrosinistra, quelli che effettivamente fecero il grosso delle riforme «neoliberiste» in Italia. Quanto a Syriza, il dato del consenso su tutti i cittadini con diritto di voto, nel gennaio 2015, con il 37% tra astenuti e schede bianche o nulle, era il 22% (contro il 36% sui voti validi); nel settembre 2015, con l'astensione al 44%, il dato su tutti gli elettori è il 19% (contro il 35% sui voti validi).
Ebbene, una volta, quando la partecipazione elettorale si aggirava intorno al 90%, si diceva che con almeno il 51% dei voti si sarebbero fatte le riforme progressiste, se non proprio dato inizio alla graduale transizione verso il socialismo. Adesso, con meno di un quinto del consenso dei cittadini, si presenta il risultato elettorale - sempre Rangeri, ma il tono è anche di altri - «così ricco e abbondante da essere mal digerito da molti»; oppure, con Marco Revelli, dal Manifesto del 23 settembre,
«Con la netta vittoria elettorale di domenica, Syriza e Alexis Tsipras si affermano saldamente alla guida della Grecia e al centro della politica europea. È un risultato straordinario per tutti noi, in primo luogo perché dimostra che il piano degli oligarchi, greci ed europei, perseguito con ottusa arroganza fin dal 25 di gennaio, è fallito. Volevano liberarsi dell'anomalia greca. Dell'unico governo di sinistra che si opponeva al loro modello fallimentare. E se lo ritrovano più vivo che mai nelle urne, legittimato da un nuovo, testardo, indiscutibile consenso elettorale».
È incredibile leggere queste righe, perché l'unico grande risultato di Tsipras, in definitiva, è stato… essere rieletto. L'anomalia greca, sia pure come possibilità, non esiste più: a Tsipras non resta che amministrare il nuovo Memorandum della troika.
Vero è, invece, che nei regimi postdemocratici europei i partiti di maggioranza governano spesso con il 20% o poco più del consenso dell'insieme dell'elettorato: così è per il Partito socialista francese (legislative del 2013) o per il Pd italiano. Grecia, Portogallo e Spagna erano ancora, fino a qualche anno fa, dei baluardi dell'alta partecipazione elettorale in Europa, effetto lungo delle dittature e della volontà popolare di sperimentare la democrazia parlamentare. Tuttavia, anche questi paesi si sono allineati alla tendenza generale della postdemocrazia, nell'involuzione del sistema dei partiti, nella gestione della crisi sociale e finanziaria, nel crollo della partecipazione elettorale. Che l'astensione cresca, poi, non è fenomeno che può essere ricondotto all'etichetta del «qualunquismo» né considerato causa dell'involuzione politica. Al contrario, si tratta di una conseguenza della trasformazione - strutturale, complessiva e irreversibile - dei sistemi politici, della concentrazione del potere decisionale ai vertici della burocrazia statuale e partitica. Si tratta di una reazione elementare ma sana all'involuzione dei partiti, all'obsolescenza della tradizionale distinzione destra-sinistra, alla sostanziale convergenza antipopolare delle politiche dei governi di ogni colore. È da tempo in atto una crisi di rappresentatività dei partiti, oramai apparati parastatali, e una strisciante crisi di legittimazione dei sistemi politici.
Questo per dire che la grande lezione storica che viene dalla Grecia è che la «via elettorale» non è solo sbagliata e disastrosa, come a suo tempo in Cile. Semplicemente, in Europa è morta, nei suoi stessi termini: mancano i numeri. Vive solo come fantasma, residuo retorico, delirio da mancata elaborazione del lutto, psicopatologia politica.
Il governo Tsipras è stato l'ultima scintilla, eccezionale, del parlamentarismo; si è rivelato l'ultimo chiodo sulla bara di quella prospettiva. Una verità atroce, che certamente non può essere accettata da chi sull'elettoralismo e il parlamentarismo ha fondato la propria vita politica. Non mi illudo che possa accadere il contrario. Tuttavia, chi non è del tutto accecato, chi non vuol cedere alla disperazione che può conseguire dalla mera considerazione del fallimento della via elettorale, può ancora cercare un'altra strada, sapendo che sarà lunga e difficile ma che è l'unica realistica. Ora più che mai, nell'Europa di oggi ancor più che altrove.

Il discorso su Syriza e Tsipras, tuttavia, non si esaurisce qui. La vicenda greca impartisce una dura lezione anche per la sinistra di Syriza e per chi ritiene che l'uscita dall'area euro e dall'Unione europea debba essere il centro di un programma «rivoluzionario» o anche solo di riforme progressiste.
Era ovvio che il Programma di Salonicco, quello con cui Syriza vinse le elezioni a gennaio, era un programma minimo e moderato; e non era difficile prevedere che il governo Tsipras, lungi dal cambiare la Grecia e l'Europa o di essere il primo protagonista (insieme a Podemos) dell'uscita dal neoliberismo, sarebbe stato costretto a cedere. A suo tempo (primi di marzo, dopo il primo accordo) scrissi che in assenza di un'ampia mobilitazione sociale tutta Syriza, sia Tsipras che la sinistra, era presa nella trappola di dover governare senza «armi» politiche adeguate.

Per come lo vedevo, il nocciolo della questione era come e cosa il governo Tsipras avrebbe opposto alla troika; e, ancor più, se l'atteggiamento del governo e di Syriza nei confronti dei governi europei e delle istituzioni internazionali avrebbe potuto innescare una dinamica di lotta popolare, anche indipendentemente dalla stessa volontà del governo, tale da spostare i rapporti di forza tra le classi innanzitutto in Grecia e, di riflesso, nei confronti del nemico esterno. Non bastava e non basta accusare Tsipras di essere moderato o «venduto», né propagandare la rivoluzione come unica alternativa al cedimento o al «tradimento». Come sempre, si trattava di trovare il modo perché le speranze popolari in una linea che si sa destinata a fallire possano tramutarsi in azione diretta; l'opportunismo occorre smascherarlo mettendolo in contraddizione con se stesso e in un movimento di lotta.
Quindi, scrivevo, non basta dire che con il primo accordo si è guadagnato tempo, come sostenevano gli apologeti di Tsipras: ammesso che sia così, bisogna capire come impiegarlo, questo tempo guadagnato. Tanto più che con l'accordo di febbraio sia la linea della riforma di politica europea prospettata da Varoufakis che il Programma di Salonicco erano defunti. Per questo, la sinistra di Syriza aveva ragione a chiedere un'inversione di rotta, benché la direzione da essa indicata, centrata sull'uscita dall'area euro, fosse velleitaria perché metteva il carro davanti ai buoi. Facevo notare che «a luglio e ad agosto scadono pagamenti sul debito per 5,1 e 3,7 miliardi di euro, di cui 6,7 dovuti alla Bce. Verso l'estate si ripresenterà la situazione dell'inizio dell'anno: un modo per tenere il governo Tsipras al guinzaglio corto».
E così è stato. Il tempo non è stato guadagnato, bensì sprecato.

Si può dire, come la segreteria di Rifondazione comunista (comunicato del 5 settembre, ma in modo simile già in occasione del primo accordo), che la responsabilità della situazione non sia di Tsipras, ma degli «attuali rapporti di forza tra le classi a livello europeo», che essa «ricade sulle nostre spalle – sulle spalle delle sinistre e del movimento operaio di tutta Europa». È la scoperta dell'acqua calda: certamente, se i rapporti di forza in Europa non fossero così enormemente squilibrati a favore del padronato e delle caste politiche, non solo la linea nei confronti della Grecia ma l'intera politica europea potrebbe essere diversa. Ed è, nello stesso tempo, il modo di aggirare le responsabilità di Tsipras, di appellarsi, come è nel DNA di questo partito e dei derivati ed affini, al «meno peggio». Perché, se è vero che un movimento di lotta, tanto più su scala continentale, non si inventa, è anche vero che Tsipras non ha fatto nulla per promuoverlo, a partire dal suo paese. Al contrario, fino all'ultimo ha puntato esclusivamente sulla benevolenza internazionale e sul compromesso con l'imperialismo e con le caste politiche. Ovvio, se si arriva al governo «armati» solo di voti. Le caste politiche, prevedibilmente indifferenti ai risultati elettorali, alla ragionevolezza delle proposte, con all'avanguardia il ministro delle Finanze della Germania, non hanno fatto altro che il loro lavoro, così come si presenta stante i rapporti di forza tra le classi, innanzitutto in Grecia. Il fatto grave e rivelatore è stato che, pur convocando un referendum dall'esito favorevole e chiaramente contrario al protrarsi dell'«austerità», il governo Tsipras abbia firmato comunque un nuovo Memorandum, ora assumendosi la responsabilità di governo di applicarlo anche al costo, per seguire questa strada, di consumare la rottura dentro Syriza stessa, in modo del tutto burocratico.
Un riformismo onesto, quale poteva apparire inizialmente quello di Tsipras, per chi scrive avrebbe comunque fallito nel suo intento (definito dal Programma di Salonicco), ma combattendo per esso, forse innescando, suo malgrado o al di là di quanto desiderato, la mobilitazione popolare, avrebbe potuto aprire nuove possibilità. Il cedimento è invece stato dei peggiori, nella sostanza e nel modo, immediatamente muovendosi in direzione opposta alla legittimazione popolare avuta col referendum. Syriza ora si avvia a svolgere un ruolo simile a quello del Pasok all'inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, quando quel partito appariva, ancora, come il più a sinistra dei partiti di governo della sinistra europea, inizialmente contrario non solo alla permanenza nella Nato, ma anche nell'Unione europea, filopalestinese e terzomondista, non senza occhiolini all'Unione sovietica, che gli valevano l'appoggio del Kke.

Resta il fatto che Syriza ha perso solo 300 mila voti; anche lo pseudorivoluzionario e settario Kke ha perso ancora voti, circa 30 mila (in proporzione poco meno di Syriza, o il 3% dei cittadini con diritto di voto). Invece Antarsya, insieme all'Eek, ha sostanzialmente confermato i risultati di gennaio (0,5%), e la neonata Unità Popolare, espulsione-scissione della sinistra di Syriza, ha ottenuto 150 mila voti, pari all'1,5% sul totale dei cittadini con diritto di voto: molto meno, in proporzione, della sua consistenza nel parlamento uscente o nel comitato centrale del partito. Dunque, se l'aspettativa popolare nei confronti di Syriza non è affatto quella di gennaio, semmai una scelta del «meno peggio» resta il fatto che si tratta del partito maggiore, sia pure con meno di un quinto dei cittadini. Il centro e il centrodestra dello schieramento politico continuano a perdere voti, ma neanche le ali estreme, a sinistra e a destra, hanno guadagnato granché: i neofascisti 10 mila voti; da Syriza invece la fuga dei voti è stata principalmente verso l'astensione, che ha guadagnato 600 mila voti, cioè la bellezza di otto punti percentuali su gennaio, al 44%.
Quel che ci dicono i dati elettorali è che la maggior parte dei votanti non intende affatto uscire dall'area euro e men che mai dall'Unione europea. Per quanto la prospettiva dell'austerità sia triste, è un fatto che la linea sovranista, che sia di destra o di sinistra, ne esce bocciata, e a ragione. Qui non è questione di manipolazione dell'opinione pubblica da parte dei mass media e degli interventi dei politicanti europei: si vede che, in effetti, hanno inciso poco o per nulla. Il punto è che i comuni cittadini e i lavoratori greci - con ogni probabilità specialmente quelli con maggior coscienza politica - avvertono istintivamente che uscire dall'eurozona è un'avventura estremamente rischiosa, che nell'immediato certamente non promette nulla di buono e che, a meno che i cardini dell'ordine sociale e politico in Grecia non siano concretamente e seriamente messi in discussione, è un rischio che non vale neanche la pena intraprendere. Non credo affatto che chi ha votato per Syriza, senza contare i tanti astensionisti, nutra grandi aspettative circa la riformabilità delle politiche dell'area euro e dell'Unione europea: i Greci hanno sperimentato con la massima forza la vanità di questa illusione, di cui i partiti della sinistra europea, sotto la prospettiva di «uscire dal neoliberismo» per via elettorale, non riescono a liberarsi. Del resto, non è che le istituzioni europee siano immobili: a modo loro la prassi politica e di intervento nell'economia cambiano, quanto necessario a prevenire la depressione generale e ad assicurarsi che i costi della crisi siano pagati dai comuni cittadini e dai lavoratori.
L'insuccesso della sinistra anti-euro in Grecia si deve al fatto che l'istinto dei lavoratori li avverte che «dentro o fuori dall'euro» è un'alternativa falsa. Avrebbe senso, come conseguenza ma non causa, nel pieno di una grande e radicale mobilitazione sociale e politica dal basso, di un'offensiva in grado di mettere in gioco i pilastri del capitalismo greco e per questo di porre un'alternativa di potere extraistituzionale o, almeno, di esprimere un governo forte di quella mobilitazione. In quel contesto si potrebbe contrattare da una posizione favorevole, o anche rompere del tutto con le istituzioni europee (presumibilmente, però, sarebbero queste a rompere subito, ne abbiamo già avuto un assaggio), mettendo in atto le misure istituzionali che riconoscano formalmente quanto conquistato nella lotta, consolidandolo e generalizzandolo, tali da far pagare, innanzitutto ai capitalisti greci e poi anche a quelli stranieri (non esclusi cinesi e russi!), la crisi sociale ed economica (che, comunque, non è che svanirebbe da un giorno all'altro con il ritorno alla moneta nazionale, tutt'altro). Allora, la posta in gioco varrebbe il rischio. In un contesto di quel genere non si tratterebbe di sperare nel buon cuore di qualche governo europeo: la lotta dei lavoratori e dei comuni cittadini sarebbe un esempio concreto per i lavoratori e i cittadini del continente: non per la solidarietà di politicanti in brigate Kalimera, ma per essere il primo anello a spezzarsi della catena del dominio continentale.
La strategia basata sul ritorno alla moneta nazionale non è che una sorta di «keynesismo in un paese solo», sostanzialmente nazionalista e interclassista, che non può che essere economicamente fallimentare. E per quanto essa possa accompagnarsi a una retorica movimentista e a una lista di obiettivi, radicali ma senza alcun riscontro nella realtà dei rapporti di forza e dei movimenti sociali, proporre l'uscita dall'euro fuori da un contesto di mobilitazione offensiva è solo propaganda elettorale. Propaganda che non è altro che una versione «di sinistra» dell'elettoralismo, ma idealmente più arretrata dell'«internazionalismo capitalistico» e che non ha nulla di concreto da offrire ai lavoratori. E allora, se proprio si vuol votare, perché un lavoratore o un disoccupato non dovrebbero votare «il meno peggio»?
Non si tratta neanche di avere un «piano B»: quello abbozzato da Varoufakis avrebbe certo reso la vicenda più movimentata, ma l'esito non sarebbe stato molto diverso, anzi, forse anche peggiore, a meno che il governo Tsipras non avesse del tutto rovesciato la sua linea nei confronti del capitalismo greco. Ma questa è una fantasia.

Riassumo - ancora una volta - quelle che, a mio parere, sono le lezioni che si possono trarre da quanto accaduto in questi mesi di governo Tsipras:

- vincere le elezioni senza avere alle spalle le armi politiche di un grande movimento di massa è né più né meno che una trappola, che non può che portare al fallimento;
- la vicenda del governo Tsipras dimostra, proprio per la sua eccezionalità, che l'epoca dell'elettoralismo e del riformismo parlamentare nell'Europa della postdemocrazia, nazionale e ai vertici delle istituzioni interstatuali, è definitivamente terminata;
- la vicenda di Syriza, con l'espulsione-scissione della sua sinistra, dimostra definitivamente che anche la forma-partito e la storia dei «movimenti» che si trasformano di fatto in partiti (come il M5S in Italia, Podemos in Spagna ecc.) è finita;
- nell'Europa postdemocratica anche la realizzazione di un programma minimo - come quello di Salonicco - richiede un movimento di lotta sociale e politica che, per vincere, deve avere una dinamica rivoluzionaria.

La strada della lotta alla postdemocrazia e al capitalismo europeo non passa per le istituzioni: quelle al vertice del sistema continentale, ma anche quelle nazionali, non sono riformabili. È proprio il quadro politico ed economico dell'Europa contemporanea, così diverso da quello dei decenni precedenti, a confermare una vecchia verità.
Mi rendo conto di quanto siano dure da assimilare le lezioni precedenti. Non mi aspetto affatto che esse siano digerite dagli apparati dei partiti della sinistra europea, né dai loro più fedeli seguaci. Questi apparati non possono che stare in ogni caso con Tsipras, almeno finché ha una bella fetta di voti: è il loro miraggio, l'irraggiungibile «terra promessa».
L'alternativa è mettersi nella prospettiva di una vera e propria «rivoluzione copernicana» rispetto alla storia secolare del movimento operaio e dei partiti socialisti e comunisti. La sua necessità è oggettivamente nei fatti. La sua possibilità non può che risiedere in una nuova generazione di lotte, in un futuro «1968», continentale, libertario, rivoluzionario. Che non è all'orizzonte, ma che tuttavia è un'idea regolativa più bella, feconda e, in effetti, realistica, dell'impossibile via elettorale all'evasione dal neoliberismo.

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