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martedì 28 luglio 2015

NEI LUOGHI DEL RICORDO: IN BICICLETTA CON ALEX LANGER DA TELVES A SREBRENICA, di Antonio Marchi

© Marta Marchi
Prima di cominciare il mio scarno racconto del viaggio in ricordo del ventennale sacrificio di Alex e della strage delle migliaia di civili musulmano-bosniaci avvenuta a Srebrenica, sento il bisogno di ringraziare in particolare Edi Rabini e Giulia Levi della «Fondazione», con i quali ho confidenzialmente costruito il viaggio, Gianni Palma (un creativo nell'ambito del settore pubblicitario di Trento) per avermi disegnato la maglietta dedicata ad Alex… e poi mio figlio Daniele, che mi ha accompagnato fino a Telves, e mia moglie, che ha svolto pazientemente il ruolo di «ponte» nelle difficili comunicazioni telefoniche in Bosnia… in più, sento il bisogno di fare una riflessione umana e filosofica sui motivi che mi spingono a ricordare uomini e fatti a me vicini, non nella consuetudine di una pur sentita cerimonia, ma nella fatica del pedalare errante - più consona alla prova del dolore di chi mi ha lasciato - indossando le vestigia del ricordo a me caro per ascoltare le loro voci lungo le strade dei loro trascorsi.
Ricordare… nella pletora che mi assilla di libri/mezzi libri, fatti più per essere venduti che letti o più per essere letti che meditati… i volumi Il viaggiatore leggero1 e In viaggio con Alex2 sono come il pane finalmente buono nel quale piantare i denti e da cui trarre nutrimento fisico e morale.
Così è stato più facile spingere sui pedali, perché la forza di volontà non basta… non si fa tutta d'un fiato… richiede preparazione, tempo e attenzione, assieme a ciò che ho tratto dalla lettura dei libri citati, che non destano interesse soltanto sul piano narrativo, ma riservano uno spazio importante a quella dimensione meditativa cui mi interessa introdurvi…
Negli anni, durante i miei frequenti viaggi, ho sperimentato qualche volta una certa stanchezza, altre volte il senso di un'eccessiva insistenza; sono arrivato a provar fastidio per la determinazione inflessibile di me - protagonista solitario - nel pervenire allo scopo, nell'arrivare. Ma ho pensato questo prima di accorgermi di un fatto fondamentale: la storia, i personaggi e le situazioni sono del tutto secondari rispetto al fluire del pensiero. Il «romanzo» dei miei viaggi risulta così il pretesto per svolgervi sopra qualcos'altro, come una di quelle sinopie tratteggiate su cui l'artista stende la ricca materia dell'affresco. Infatti così è: la scena che vi si rappresenta è quella dell'uomo e del suo riscatto pagato, non quella di un debito indefinitamente pendente, quella di un Eden ritrovato, non rinviato indeterminatamente a un'utopia da realizzare. Affrontando nel viaggio la fatica, la solitudine, il dolore, non rinvio l'esaudimento di aspirazioni e proiezioni umane (che sono universali), ma le affronto - strada facendo - con spirito nuovo, e come in un romanzo dico: «Apri gli occhi e accorgiti della tua unicità, della tua forza, della gioia e della felicità che hai a disposizione e trova nella difficoltà ciò di cui nutrirti».
Questo è ciò che davvero conta: il progetto, la storia, gli stati, i regnanti (anche la Chiesa) hanno sempre rimandato la realizzazione dell'uomo, condannandolo a un'esistenza di espiazione e di servilismo, di attesa e di falsità, a danno della sua emancipazione e della sua libertà.
Alex, che certo non è solo, nella sua visione limpida e concreta (all'estremo opposto dell'utopia) mi/ci guida ad un presente consensuale, da realizzare subito per salvarci e salvare dal disastro economico la terra e l'umanità: il futuro si sta consumando nel presente egoisticamente capitalistico e la socialità organizzata viene a coincidere con l'individualità di ciascuno, con la sua responsabilità di opporsi per dare dignità alla propria esistenza e un futuro alle generazioni che verranno.
«Il padre non è adirato con i figli, ma guarda con amore le loro opere e accorda fiducia all'uomo e alle sue possibilità» (Adriana Zarri, Quaestio 98. Nudi senza vergogna3). Nell'idea di altri uomini, spuntati dai bassi sentieri, Alex è un gigante. All'estremo opposto avvicina il cielo della gioia alla terra del pianto e, nel coraggio e nella paziente costruzione di ponti, avvicina ai sinceri innamorati di Dio e a qualche innamorato dell'uomo le vie del cielo e della terra.
«A volte, la parola, sembra avulsa dalla Realtà, solo perché non ha ancora terminato di muoversi in essa, la Realtà». Sapeste quanta storia è passata sui miei inutili diari di viaggio e quanta vita s'è consumata sulle strade dei giardini opulenti italiani dove straccioni di colore giocano a flipper la loro dignità di uomini. Sopravvivrò a questa isteria d'odio che abbatte i muri di sabbia e le scritture dei profeti incise nell'ombra dei minareti? Passo in rassegna i grandi sogni di Alex, sbriciolati a colpi di scoop propagandistici nella costante di un perbenismo utilitaristico-borghese e ricordo i morti inutili di Srebrenica che rientrano nella norma di una guerra bastarda dove il «diverso» (musulmano o no) è alieno dal «diritto» di eliminarlo di chi comanda.

Nel raccontare il viaggio potrei cavarmela dicendo che sono partito da Trento e sono arrivato a Srebrenica, e basta. Sarebbe però come se ci fossi andato in auto o in corriera, e non con un mezzo così leggero e fragile come la bicicletta. Farei mancare tutta la credibilità del sudore e della fatica di arrivarci.

Giovedì 2 luglio - ore 15 - a Trento in via Guardini, dove abito. Assieme a mio figlio Daniele posiamo per una foto e un'intervista filmata (da Marta, mia figlia). Siamo pronti per partire: biciclette lucidate per l'occasione, maglietta rigorosamente nuova e profumata. Sul davanti spicca la figura sorridente di Alex Langer con la scritta che lo ha contraddistinto: lentius, profundius, suavius; dietro, il logo di Fratellanza Euromediterranea con la scritta: «ama la terra di cui sei parte».
Partiamo in direzione Bolzano con un sole che cuoce il cervello; ci aspetta l'inaugurazione del percorso di «Euromediterranea» che mi/ci porterà a Srebrenica: «io» in bicicletta, avendo cura di fare tappe per non dissolvermi, «loro» in corriera, con fermate a Tuzla, Sarajevo e Srebrenica.
Al Centro Trevi di via Cappuccini, a Bolzano, si svolge un incontro a più voci con interventi vari (molto toccante quello del rappresentante delle vittime della tragedia di Stava, in Val di Fiemme), che si concludono con il premiare l'attività dei giovani di Adopt Srebrenica per la loro costante attività nel segno della riconciliazione tra la gente bosniaca, rompendo steccati, odi e diffidenze ancora presenti (il premio annuale Alexander Langer della Fondazione va a loro).

Venerdì 3 luglio. 20° anniversario della libera morte di Alex.
Ripartiamo (c'è ancora mio figlio Daniele) per Telves per deporre sulla tomba di Alex una targa ricordo, dopo aver lasciato, in piazza Gries a Bolzano, due amiche di tanta leggera e generosa ospitalità.
La giornata sembra mantenersi serena, ma a Vipiteno nuvole nere la minacciano.
La pioggia fa capolino e in poco tempo si tramuta in temporale estivo. Un attimo di esitazione, ma poi si sale la dura salita che ci porta in cielo sotto un'acqua torrenziale. Siamo bagnati fradici, ma ce l'abbiamo fatta: ora anche Alex (come Mauro) ha un riconoscimento.
Mio figlio ritorna a Trento in treno e io proseguo lungo la Val Pusteria fino a San Candido. Una brutta strada per la bicicletta, nonostante la tanto propagandata pista ciclabile (inesistente).
A San Candido non posso che rimanere estasiato dalle Dolomiti di Sesto. La sera mi accoglie con un cielo sereno illuminato dalle stelle, che paiono delle sentinelle a mia protezione (ma da chi?). Riesco a vedere tutti i contorni nel più assoluto silenzio, rotto solo dal mormorio dell'acqua.

Sabato 4 luglio. Da San Candido a Udine. Attraverso il passo di Monte Croce di Comelico e le località di Santo Stefano di Cadore e Sappada, giungendo quindi nel cuore della Carnia. Durante una sosta trovo la simpatica compagnia di una bella signora, incuriosita dalla mia maglietta e dalla mia storia, mentre altri (maschi) mi ascoltano interessati… All'imbocco della Val Visdende un torrentello mi scorre incontro. Meraviglia delle meraviglie, quasi non ci credo: è il grande fiume Piave ai suoi primi vagiti. La strada per Udine è lunga. A Tolmezzo trovo un insperato compagno di strada, Gian Mario - gran cuore e simpatico curiosone: mi guida su di una bella pista ciclabile in mezzo alla vegetazione e lontano dal traffico automobilistico, fin quasi alle porte di Udine.
Udine è una città in festa. Gran caldo, ma la «notte bianca» e le sue molteplici iniziative culturali e culinarie lasciano tutti indifferenti.

Domenica 5 luglio. Da Udine a Bakar-Rijeka (Fiume). Passando per Monfalcone penso ai suoi cantieri navali e alle tante braccia impiegate, ora dirottate da altre parti per indotti più convenienti e più ricchi guadagni. Trieste è la città delle mille contraddizioni, ma anche delle meraviglie; tra il mare e il monte risplende nella sua magnificenza «asburgicheggiante». Salgo verso Basovizza con grande fatica. Sono al confine ma non si nota o non lo vedo. Il sole già alto mi cuoce la testa. Devo mettere mano continuamente alla mie riserve d'acqua per abbassare la temperatura corporea. Tutt'attorno boschi e verde, ma sulla strada poca ombra per coprirmi. Cerco il confine con la Croazia quasi con disperazione, avendo in tasca solo la kuna (moneta croata). Finalmente il confine. Doppio controllo e via. Breve sosta ad un ristorantino con grande abbuffata di verdura e birra e poi giù verso il mare di Rijeka. Il centro è deserto. Non c'è neanche la brezza marina a rinfrescare l'aria. A 38 gradi e con 168 km nelle gambe non si sogna che una doccia fredda e un letto. Ed è così che decido. A pochi chilometri da Rijeka, dall'alto della strada panoramica scorgo - in un'ansa del mare - un piccolo villaggio di pescatori. Mi ci butto a capofitto e per oggi è fatta.
Al termine della serata, pacificato dal meritato riposo e da un'abbondante pastasciutta alle vongole, incontro due ciclisti italiani - Sergio e Isabella - di Asti. Famigliarizziamo facilmente: mi raccontano le loro disavventure matrimoniali. Tutti e due separati, cercano una nuova unione recandosi a Medjugorje. Domani loro partono alle 5 (col fresco), io non so.

Lunedì 6 luglio. Nonostante le buone intenzioni mi alzo tardi, quando il sole è già alto e la colonnina del termometro è già oltre i trenta gradi. Supero le prime difficoltà linguistiche alla cassa e parto in direzione di Zadar (Zara). La strada è un continuo saliscendi che entra e esce dal mare disegnando armoniose insenature mozzafiato. Uno spezza gambe che mette a dura prova fiato e muscoli. Il mare è di un blu intenso. Più che un mare mi appare sempre più un lago, un gran lago circondato da isole. Devo continuamente fermarmi per riempire la borraccia di acqua, bere e bagnarmi la testa. Neanche nelle discese trovo refrigerio. Il sudore copioso mi acceca la vista e devo continuamente fermarmi per pulire gli occhiali. La strada ha un dominio assoluto sul mare e sulle folle dei bagnanti. Beati loro, mi dico, che si godono il fresco dell'acqua… Zadar mi appare ancora lontana e quando sono le sei del pomeriggio decido di fermarmi a Starigrad, all'Hotel Vicko (cosa strana da queste parti: è l'hotel dei ciclisti). L'impressione di questi due giorni di costa croata è che la vita non sia molto meno gratificante - per quanto riguarda il lusso - che dalle nostre parti: belle case, turismo, ristoranti pieni, alberghi pure, auto di cilindrata, gente ben vestita e abbronzata. Una nota di colore: l'ininterrotta segnalazione di scritte di affittanze lungo la strada. Stanze, appartamenti, case (Zimmer, Apartament, Sobe), tutto a disposizione di un turismo meno disposto a subire i prezzi di alberghi e hotel. Ogni tanto vedo uomini seduti sul ciglio della strada con addosso un cartello segnaletico a invito.

Martedì 7 luglio. Ieri ho rischiato la disidratazione e oggi devo stare più attento, reidratandomi meglio e più spesso. La strada è un salire e uno scendere, un entrare e un uscire. Quando scende, scende a livello del mare; quando sale, sembra di andare in montagna… Non ho mai pensato ad un bagno ristoratore, ma con questo caldo non ho esitazioni: con la bicicletta bene in vista mi immergo fino alla gola, tutto vestito, destando non poca curiosità tra i bagnanti vicini. Ancora gocciolante riprendo la strada con maggior lena. Il fresco accumulato mi fa bene ma dura poco, poi tutto ripiomba nella «savana». Passata Zadar la costa è meno ondulata, più pianeggiante, e questo mi permette di aumentare la velocità e di ridurre la fatica, avvicinandomi a Split (Spalato) che è già sera. Strano, l'orologio del mio computerino fa le 20… «non è possibile che già scenda il buio!». Sorpresa? In Croazia non c'è l'ora legale! Fregato. Per fortuna un hotel mi si staglia davanti e non ho alternative: fermarmi o perire in mezzo al traffico pesantemente rumoroso e intenso, in una strada sconosciuta e con il buio sopra le spalle. Esausto, scendo dalla bicicletta e entro nell'hotel: non ho dubbi sulla sua eleganza e sfarzosità, ma non ho pensato al prezzo folle al quale avrei dovuto sottopormi. Tratto usando la lingua dei segni e ottengo un prezzo di favore, ma comunque doppio rispetto alle mie abitudini. Il meno che possa fare è svuotare il bar in una principesca stanza da letto con bagno e idromassaggio, e il mattino seguente fare finta di niente.
La sera faccio due passi per Split. Fa un caldo boia, ma c'è molta gente giovane in giro. Vado verso il centro cercando di memorizzare il ritorno. Mi fermo in un chiosco per mangiare una specie di focaccia ripiena di carne e verdure varie. C'è un suono di voci dai vari accenti e il mio udito capta delle parole familiari, che riconosco. Mi avvicino: sono due ragazze italiane di Trieste. Senza grandi formalità mi presento e passo così un'ora gradevole con loro tra un racconto e una birra. Conoscono la storia di Srebrenica, un po' meno quella di Langer.
Restano incredule quando le racconto del mio viaggio e del lavoro della Fondazione per arginare il crescente nazionalismo e l'odio etnico ancora esistente negli stati nati dopo la dissoluzione della ex Iugoslavia. Mi dicono che a Split la vita per i giovani non è facile. Che la mescolanza serbo-croata la faccia da padrona sulle altre e che le gabbie etniche esistono e non si sono estinte, anzi. Mi è dispiaciuto lasciare una compagnia così ben attrezzata culturalmente e politicamente, ma la stanchezza prende il sopravvento e raggiungo l'hotel con grande fatica.

Mercoledì 8 luglio. Oggi vorrei passare il confine ed entrare in Bosnia; me lo dirà la strada se ce la posso fare. Passando per il centro di Split posso ammirare quello che la sera mi ha nascosto: molto bello, di una grazia barocca. Bella la cattedrale nella piazza del mercato, circondata da graziosi ed eleganti bar e ristoranti. Un continuo di bancarelle, ben disposte lungo strade lastricate di ottimo porfido, manifesta la grande propensione della città per il commercio.
Non è facile scrollarmi di dosso Split e trovare la giusta direzione verso Ploče e il confine con la Bosnia: ciò significa lasciare la costa adriatica e inoltrarmi nella terraferma. Dopo Ploče la strada si inerpica nella direzione di Mostar. Verso Metković c'è una ridente località dal nome di Baćina: un vero gioiello di arte naturale, fatto di case dagli svariati colori che si specchiano nell'acqua del fiume che, nel suo scendere lento, forma una serie di piccoli catini d'acqua, simile a quella del Parco Nazionale dei Laghi di Plitvice. Lungo la strada vari chioschi di frutta e verdura: troppi perché tutti possano vendere e guadagnare. All'interno il panorama si presenta differente dalla costa. Non sono solo le case, le strade e i pochi alberghi a fare la differenza, ma anche il territorio, che da urbano diventa agricolo.
Makarska, cittadina ai limiti del confine, mi regala un gran piatto di verdura e formaggio locale con una grossa birra. Non si può capire il cibo e la sua bontà se non dopo tanta fatica, quanto lo introduci in bocca ti dà sensazioni rilassanti e orgiastiche. Vivo queste soste intensamente e con gratitudine, quasi come un privilegio.
La frontiera è a portata di mano ma ho ancora qualche kuna da spendere; preferisco quindi fermarmi prima, località Metković.

Giovedì 9 luglio. Sarajevo mi aspetta, dista ormai «solo» 195 km.
Passo la frontiera croata e sono in Bosnia dopo severi controlli e un'attesa estenuante.
Ad un primo sguardo il paesaggio bosniaco è molto meno «attraente» di quello croato, ma non è per niente privo di interesse paesaggistico. Non c'è il mare, ma Mostar con i suoi ponti, le sue moschee, il rinato centro storico e la sua attività e bellezza lo riempie del tutto. La strada è un continuo saliscendi e per fortuna l'afa è stata sostituita da un venticello che nasce dai fondali del fiume, che mi accompagna nel suo scorrere contrario fino a Konjic, dove si allarga in un grande lago.
La strada sale terribilmente e la temperatura si abbassa, ma non quella corporea. Che fatica! Sono solo in mezzo ai monti, stretto in una gola che dà angoscia. Per chilometri e chilometri non incontro niente: né case, né bar, né persone. Ho un attimo di panico pensando ad un guasto meccanico, ad una foratura, ad un semplice malore… ma mi passa subito quando raggiungo Pazarić, che dista pochi chilometri da Sarajevo. Scendo in picchiata verso Sarajevo, che invece di avvicinarsi si allontana, tanto è distante la sua periferia dal centro dove devo fermarmi.

© Bruno Maran
Venerdì 10 luglio. Srebrenica, Potočari, le donne in nero, il grande cimitero. Il luogo del dolore, della disperazione, della vergogna, della strage (una ex fabbrica lasciata come vent'anni fa, quando vi furono rinchiusi e trucidati donne, uomini, vecchi e bambini musulmano-bosniaci).
A Srebrenica ritrovo Edi, Giulia, Roberto e tutta la carovana partita in corriera da Bolzano e ricevo inaspettatamente l'abbraccio di Adriano Sofri.
È stato un trasferimento emozionale. Una grande fatica fisica per superare importanti dislivelli montuosi, accompagnata da un’altrettanta fatica di vivere il ricordo nefasto dei crimini perpetrati su innocenti solo perché diversi, fuori luogo. Lungo la strada che mi porta a Srebrenica incontro i podisti della «100 km» con i quali ho momenti di fraterna condivisione e solidali apprezzamenti per quello che ci unisce nello sforzo fisico e nel sentimento di appartenenza alla storia delle vittime di Srebrenica e dei sopravvissuti di quegli anni.
Prima di Srebrenica c'è Potočari, dove è in corso una cerimonia. Una folla immensa che occupa chilometri di sede stradale, polizia dovunque, militari sull'attenti… giurì d'onore, politici, rappresentanti di chissà chi… Con difficoltà passo in mezzo alla gente a testa bassa: sono imbarazzato da tanta calca. Sento qualche «bravo» in italiano perfetto, ma non oso voltarmi, la mia testa è altrove: a Srebrenica. Arrivato nella piazza della Moschea mi fermo e scendo dalla bicicletta. Il mio viaggio è terminato. Mi guardo attorno: poche persone nella piazza. Sono confusamente contento di avercela fatta - dopo 1.508 km. Srebrenica è parte del mio destino, è carne e sudore, è contemplazione e fatica, è ricordo e speranza. Non è solo quella località sentita per radio, vista dai rotocalchi televisivi, non è solo quel luogo letto, raccontato, non è solo memoria, immaginazione… No! Scendere dalla bicicletta, mettere piede per terra e dire, con umiltà e soddisfazione: «sono partito da Trento e sono arrivato dove mi ero prefisso di arrivare». Quello è.
Da lontano, è vero, si può solo immaginare (e non è poco), ma da vicino… vedere con i propri occhi gli occhi di un uomo o di una donna che piange, vedere la loro disperazione nella bocca tremolante che prega, vedere il desolante e aritmetico cimitero di Potočari dalle migliaia e migliaia di «croci», che non sono croci, ma pali di marmo su cui vi è scritto il nome, la nascita e la morte dello scomparso… non è la stessa cosa. Ti vengono i brividi. Nell'ascoltare le loro preghiere, i loro canti, le loro invocazioni ti emozioni fino al pianto: allora, solo allora puoi comprendere il dolore, fartene una ragione che vada al di sopra del sentimento di solidarietà; solo allora, nel guardare queste donne e questi uomini sopravvissuti e ostinatamente convinti a restare, puoi entrare nei loro drammi e capire lo sdegno e la rabbia contro il provocatore/primo ministro serbo Aleksandar Vučić, che prima nega l'eccidio e poi - l'ha già fatto altre volte - ha il coraggio di partecipare al cordoglio.
Solo se si è fisicamente presenti si può capire - senza aver bisogno di interviste - ed entrare così nell'abisso di vent'anni fa. Negli occhi di una donna china sulla tomba è scritto il dramma di quanto abbia dovuto vedere. È inciso nella documentata mostra nel padiglione degli orrori: «i corpi cadevano a terra come frutta matura, buona per marcire… nel mentre altri corpi vivi, scheletri viventi cantavano una canzone che invitava a non cadere, a sopravvivere…». Ci sono racconti dell'orrore che vengono trasmessi alle generazioni più giovani: D.D., giovane donna musulmana di Potočari che ha assistito al massacro dei suoi parenti nelle campagne del villaggio, riesce a scappare mentre i suoi amichetti attendono con la bocca aperta e gli occhi chiusi le promesse dolciarie del boia, che li ammazza uno dopo l'altro con un colpo di pistola… Rimane nascosta per mesi e mesi nei boschi, fino alla fine della guerra, viaggia per tutta la notte prima di rientrare nel paese e assistere alla «festa dei carnefici»…

Primo Levi scoprì di essere ebreo grazie ai nazisti, e un ebreo in mano ai nazisti «è un morto in vacanza»; morì suicida perché non riusciva a dimenticare ciò che non può (e non deve) essere dimenticato.
Di Levi qualcuno ha detto: «Lui ha visto qualcosa di tremendo venire, come se tutto fosse accaduto invano». Forse ciò vale anche per Alex, che prima del massacro di Srebrenica aveva già visto l'orrore di Sarajevo, di Tuzla, di Mostar: forse l'angoscia che tutto fosse accaduto invano lo ha assalito… Parole che sono pugni, oggi più che mai, in questo lembo di terra contesa dove i desaparecidos sono ancora migliaia. Ogni singhiozzo, ogni canto, ogni parola diventa pesante come il piombo, i loro echi non fanno «semplicemente» riflettere su un orribile passato, ma arrivano con sofferenza in questo lercio presente.
Dopo Srebrenica ho un gran mal di stomaco e un gran mal di gambe, accompagnati però da molta gratitudine per il gruppo di giovani di Adopt Srebrenica, che mi ha accolto nel suo sforzo di «costruire fiducia», e per le poche persone che mi hanno concesso di «entrare» nel loro dolore, un dolore che forse dovrebbe diventare di tutti. Forse…


1 Alexander Langer, Il viaggiatore leggero. Scritti 1961-1995, a cura di Edi Rabini, Sellerio Editore, Palermo 2003.
2 Fabio Levi, In viaggio con Alex. La vita e gli incontri di Alexander Langer (1946-1995), Feltrinelli, Milano 2007.
3 Adriana Zarri, Quaestio 98. Nudi senza vergogna, Camunia, Milano 1994.

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