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martedì 16 giugno 2015

LA CRISI YEMENITA, di Pier Francesco Zarcone

LA GUERRA SAUDITA: FORZA O DEBOLEZZA?

In un articolo del 1º aprile scorso - «Yemen: cominciamo a capirci qualcosa», un primo approccio alla questione yemenita - avevamo ipotizzato l'intervento di una coalizione sunnita, sbagliando tuttavia sullo scenario in cui sarebbe avvenuta: cioè a dire, la ipotizzavamo col fittizio ruolo di peace keeping nel caso di mancata capacità di reazione dei ribelli Houthi contro l'attacco saudita. Invece, la coalizione sunnita si è formata ed è intervenuta in diretto appoggio all'azione militare di Riyad. Ma si è realizzata la prima delle previsioni fatte in quella sede, vale a dire la capacità Houthi di far fronte all'attacco saudita e magari di contrattaccare, dimostrando il carattere di "esercito da operetta" delle forze nemiche, a prescindere dalla tragedia delle vittime civili dei loro bombardamenti.
Gli Stati Uniti solo in apparenza stanno a guardare, poiché nei fatti aiutano l'azione saudita fornendo informazioni ricavate dai satelliti e collaborando sul piano logistico mediante la base aerea di Gibuti. Quindi Washington continua ad appoggiare il suo pericoloso alleato nella Penisola arabica in un'impresa priva di nessi con la strombazzata "lotta senza quartiere" all'Isis, e oltretutto suscettibile di farne estendere l'influenza a sud dei fronti siriano e iracheno.
L'intervento nello Yemen viene generalmente presentato e motivato in base a tre elementi: a) riguarda un capitolo della lotta intra-islamica fra Sunniti e Sciiti; b) gli Houthi sono strumento dell'imperialismo iraniano nella Penisola arabica; c) l'Arabia Saudita opera per il mantenimento della pace e della stabilità in essa. In tutto questo, purtroppo, c'è una grande mistificazione. Intendere il conflitto in termini originari di lotta settaria non è in sé corretto, fermo restando che l'esito finale potrebbe essere proprio questo; e ancora una volta a causa di appetiti esterni. Vero è che gli Houthi sono sciiti, ma ideologicamente (o teologicamente) non sono assimilabili agli sciiti iraniani. Gli Houthi - il 40% almeno della popolazione yemenita, e maggioritari nel nord - sono zayditi, cioè seguaci dei primi 5 imām, mentre gli iraniani sono duodecimani, ovvero seguaci dei 12 imām; in più fanno parte del ramo sciita più prossimo al Sunnismo, e fino alla rivolta repubblicana dei primi degli anni Sessanta il paese fu tranquillamente governato da monarchi zayditi.
Definire gli Houthi strumento dell'Iran è quindi azzardato, ma non c'è da stupirsi che pragmaticamente essi non rifiutino affatto gli aiuti economici e militari iraniani; d'altro canto, sarebbero stolti a farlo proprio ora. Certo è che, a seconda dello sviluppo degli eventi bellici e politici, potrebbero alla fine diventare davvero quel che ancora non sono: punta avanzata di Teheran nello stretto di Bāb al-Mandab.
Nessun dubbio che l'Arabia Saudita si presenti come campione del pansunnismo contro gli sciiti e l'Iran, ma si tratta essenzialmente di una "formula politica" che nasconde tre preoccupazioni: l'instabilità interna del regno, insidiata dal crescente malcontento della sua minoranza sciita e dal montante radicalismo dei settori islamisti; l'incognita degli sviluppi che potrebbe assumere un'intesa fra Iran e Usa sul nucleare; la mai sopita ambizione saudita di dominare la Penisola arabica.
Gli Stati Uniti probabilmente stanno perdendo un'altra occasione per estendere la propria influenza o, quanto meno, farsi qualche oggettivo alleato. Il regime saudita è infido, ha organizzato e finanzia l'estensione di moschee e madrase wahhabite ovunque vi siano consistenti comunità o nuclei sunniti, ed è fortemente ambiguo nella contrapposizione all'Isis. E questa ambiguità fa corpo proprio con i contraddittori obiettivi perseguiti da Riyad: fronteggiare il pericolo Isis all'interno, e nello stesso tempo contrapporsi a quell'Iran che nella lotta all'Isis è impegnato a fondo in Siria e Iraq.
Gli Houthi, invece, per quanto non stravedano per gli Stati Uniti e li critichino aspramente per il modo in cui conducono la lotta al jihadismo, sono ferocemente avversi ad al-Qaida e all'Isis, sono assai meno settari di quanto li si voglia far apparire e tutto sommato potrebbero riuscire a governare lo Yemen con una certa stabilità, alleandosi con settori non sciiti. A ciò si aggiunga il legittimo dubbio che gli emirati del Golfo siano davvero felici delle prospettive di accrescimento del potere saudita nella Penisola. Oltretutto fra loro non vi è compattezza in politica estera: alle posizioni di appoggio al radicalismo islamista di Qatar e Bahrein si contrappone il pragmatismo di Oman e Kuwait, in buoni rapporti politici ed economici con l'Iran.
Ma l'accrescimento dell'egemonia saudita potrebbe rivelarsi appartenente ai desideri ma non alla realtà, se l'impresa yemenita dovesse fallire. Lo scenario politico del Vicino e Medio Oriente è rapidamente e profondamente mutato negli ultimissimi anni, e non si può scommettere tranquillamente sulla capacità di durata della complessa e vasta rete di alleanze tribali - e di concessioni di premi e ricompense a fini equilibratori - che fu l'originaria base politica del potere della dinastia dei Saud. Potrebbero essere un segnale di debolezza di questa rete le modifiche ai vertici della struttura statale effettuate dall'attuale re Salman, successore di Abd Allah (morto a gennaio del 2015): il potere risulta concentrato - ben più di ieri - nelle mani di un ristretto circolo di parenti di fiducia, peraltro scarsamente amici dell'Occidente.

Truppe saudite
IL COMPLESSO RUOLO DELL'EGITTO

Anche l'Egitto fa parte della coalizione. Si potrebbe deprecare che in tal modo distolga sul fronte yemenita risorse che sarebbe meglio impiegare nel Sinai contro la locale guerriglia islamista, e sarebbe facile pensare che ciò avvenga perché i debiti vanno pagati - e l'Egitto di al-Sisi è debitore verso l'Arabia Saudita di aiuto economico e politico di rilievo nella sua lotta contro i Fratelli Musulmani. Non lo si può affatto escludere, ma la questione può rivelarsi meno semplice di quanto appaia.
Abd al-Fattah al-Sisi ha motivato la sua iniziativa con esigenze di sicurezza interna e preoccupazione per la stabilità-difesa dei regimi dell'area dotati di legittimità formale. La prima giustificazione non sembra molto comprensibile, tenuto conto che la minaccia interna all'Egitto proviene dai radicali islamisti: vale a dire, in base a quanto detto sopra sfugge il nesso fra sconfitta degli Houthi e lotta ai jihadisti egiziani, ed è più probabile che una sconfitta degli Houthi porti al rafforzamento di al-Qaida in Yemen e, per ricaduta, della sovversione islamista in Egitto. La seconda, invece, ha basi più solide, avendo gli Houthi costretto alla fuga il presidente Abd Rabbuh Mansur Hadi, che forse qualche titolo di legittimità formale poteva averlo, sia pure nel complicato guazzabuglio yemenita. Pur tuttavia, non pare che la cosa abbia in sé una tale importanza da portare alla partecipazione all'intervento in Yemen.
Maggior spessore potrebbe essere attribuito alle motivazioni "non dette", tra cui in primis quella geostrategica, rivelata dall'invio di quattro navi da guerra egiziane tra Aden e lo stretto di Bāb al-Mandab, zona attraverso cui transitano giornalmente circa 3,8 milioni di barili di petrolio, incluso quello saudita. L'interesse economico è palese. Resta da capire da chi potrebbe essere minacciata questa via di comunicazione commerciale. Dall'Iran? Non ci sono affatto le condizioni politiche perché Teheran debba intraprendere una strada che porterebbe inevitabilmente al confronto armato con gli Stati Uniti. Dai jihadisti? Ebbene, se gli Houthi respingessero definitivamente l'aggressione, sarebbe inevitabile la loro resa dei conti con al-Qaida dello Yemen e - non essendo gli Houthi paragonabili all'esercito iracheno - non appare per niente probabile una totale rimonta dei jihadisti e una loro avanzata fino ad Aden.
A questo punto la vera motivazione della scelta di al-Sisi andrebbe ricercata nel ruolo storico dell'Egitto coniugato con le ambizioni del suo nuovo raìs. L'attuale alleanza dell'Egitto con quanto di più reazionario ci sia nel mondo arabo difficilmente può essere considerata appiattimento del Cairo sulle posizioni dei monarchi arabi, mentre potrebbe consistere in un'astuta manovra per la ricostituzione rafforzata della propria influenza sull'area, procedendo inizialmente sotto la copertura (o sulla scia) di quella saudita. Che al-Sisi punti a qualcosa di grosso è dimostrato dalla proposta da lui fatta al vertice della Lega Araba tenutosi a Sharm el-Sheikh, il 28-29 marzo di quest'anno: la creazione di una Joint Arab Military Force (Jamf) di 40.000 uomini, navi e aerei con comando unificato o in Arabia Saudita oppure… in Egitto. Una forza di intervento rapido, ufficialmente con compiti di stabilizzazione, che potrebbe avere il suo "battesimo" in Libia, se la situazione lo richiedesse; nel qual caso l'Arabia Saudita verrebbe coinvolta nell'eventuale iniziativa libica, che interessa particolarmente l'Egitto. È ovvio che se Il Cairo si fosse smarcato dall'iniziativa saudita nello Yemen, il progetto relativo alla Jamf sarebbe rimasto sui pezzi di carta.

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