So di essere un piccolo pezzo di un grande, grande
universo, perfettamente incastrato nel resto...
L'intero universo è fatto di tutti piccoli pezzi incastrati insieme.
Se un pezzetto si rompe, anche il più piccolo, l'intero universo cade in pezzi…
I bambini che non hanno né mamma né papà né nessuno devono
vivere nel bosco e mangiare l'erba e rubare le mutande…
Spero che muori. E dopo che sei morto vengo sulla tua tomba e
mangio la torta di compleanno tutta da sola.
(Hushpuppy, dal film Re
della terra selvaggia)
C’era
una volta e una volta non c’era un film anarchico che ha avuto innumerevoli riconoscimenti
internazionali e oltre a quattro candidature al premio Oscar, Gran Premio della
giuria al Sudance Film Festival, Camera d’oro al Festival di Cannes... è
risultato uno dei film più premiati del 2012: Re della terra selvaggia, di Benh Zeitlin. I velinari della stampa
italiana hanno speso stellette e amenità di vario genere per descrivere questo
film... dopo poche fugaci apparizioni nei circuiti più importanti, quest’opera
indipendente viene relegata ai cinema d’essai... e dimenticata... infatti è
inconcepibile che un film si chiuda con le nere bandiere dell’anarchia al
vento... i mercanti del cinema (autori, critici, attori, produttori, puttanelle
televisive che dissertano di cinema in televisione, senza sapere nulla della Camera magica)... sanno bene che la
macchina/cinema è parte del sistema che garantisce un ordine
sociale/autoritario di cui è espressione... il feticismo della merce e
l’alienazione dei consumatori (di tutti i mercati) trionfano su cumuli di miserie
infinite e attraverso la mediocrazia della politica asservita ai saprofiti
della finanza confermano la dittatura dell’illusione che impera nella civiltà
dello spettacolo.
Così
Noam Chomsky: “Oggi abbiamo a disposizione le risorse tecniche e concrete per
soddisfare i bisogni materiali dell’uomo. Non abbiamo ancora perfezionato
quelle morali e culturali, cioè le forme democratiche dell’organizzazione
sociale, che ci permetterebbero di utilizzare in modo umano e razionale la
nostra ricchezza e potenza materiale. Gli ideali del liberalismo classico
espressi e sviluppati nella forma di socialismo libertario sono realizzabili.
Ma può farlo solo un movimento rivoluzionario radicato in ampi strati della
popolazione, che miri ad eliminare le istituzioni repressive e autoritarie, private
o statali”[1], e passare
alla fondazione della società in anarchia.
Gli
imperi internazionali degli affari sporchi di sangue innocente e le connivenze
tra criminalità e politica attentano all’ecosistema del pianeta e in
un’economia di guerra in permanenza gli indici della Borsa impediscono una
re/distribuzione equa delle ricchezze prodotte dai popoli impoveriti... poco
più di duecento grandi società (che controllano più del sessanta per cento
delle attività produttive della terra) sono collegate tra loro e con altre
aziende satellitari decidono del bene o del male di una nazione. I frutti o gli
espropri dell’economia mondiale integrata dirigono capitali, muovono conflitti,
violano i diritti dell’uomo e fanno della barbarie l’acquasantiera di ogni
potere. Purtroppo — sostiene Chomsky — “le canaglie non si possono far fuori con il voto”, perché semplicemente
non sono mai state elette... manager, politici, avvocati delle multinazionali,
imprenditori e mafie occupano i posti di preminenza della “cosa pubblica” e
restano al potere a prescindere dalle “credenze” di chi li elegge... il
coinvolgimento popolare è richiesto solo il giorno delle elezioni ma sono le
istituzioni autocratiche a gestire in modo rigidamente manageriale l’intera
esistenza di uomini e donne proni ai processi di concentrazione della vita
economica di ogni paese.
Le
democrazie consumeriste e i regimi
comunisti danzano sui cadaveri della libertà e il ballo in maschera del ricatto
industriale produce disuguaglianze, disoccupazione, disperazione e
l’innalzamento dei profitti... i processi di controllo e repressione sono
affinati e le popolazioni sono soggette a decreti arbitrari imposti
dall’alto... i centri di potere esercitano una forte influenza sulle genti e
attraverso il supporto dei mezzi di comunicazione di massa, i partiti, i
sindacati e l’adorazione di leader/marionette architettano l’intero sistema
commerciale, industriale, finanziario che sovvenziona la politica parlamentare
(per ciò che riguarda Russia, Cina ed affini, bastano i carri armati). Potere,
crescita, profitto non riguardano i bisogni umani naturali... ovunque gli
uomini nascono liberi, eppure ad ogni angolo del pianeta sono governati da
piccoli tiranni che detengono il potere sulla paura... soltanto una resistenza
profonda, scaturita dal basso, può tradursi in una ventata insurrezionale di
larga portata e mettere fine al modello messianico/politico/finanziario dei dominatori...
e raggiungere la massima felicità per il maggior numero. Passare dalle parole
di La Boétie, “Siate decisi a mai più servire e sarete liberi”, alle azioni
dirette dei movimenti Occupay, alle sollevazioni popolari, alla riattivazione
del pensiero critico uscito dal Maggio Sessantotto e giungere alla scompaginazione
dei meccanismi di riproduzione sociale e di tirannia politica della società
spettacolare.
In
ogni linguaggio dimora il potere ed è anche il rifugio della sua violenza
poliziesca. Ogni dialogo con il potere è violenza, subita o provocata. Quando
il potere risparmia l’uso delle armi, è al linguaggio che affida la cura di
conservare l’ordine oppressivo (Mustapha Khayati, diceva)[3]. La coniugazione dei due è
l’espressione più naturale di ogni potere. Le parole, i suoni, le immagini, le
merci non smetteranno di lavorare contro l’identità libertaria degli individui
finché loro stessi non avranno smesso di dirottare la loro inclinazione a
servire... le future rivoluzioni dovranno inventare nuovi linguaggi e passare a
un dizionario qualitativo dell’esistenza che rifiuta ogni forma comunicazionale
codificata. Fuori dal linguaggio dell’adulazione e della repressione c’è la
fine all’elogio del potere e della reificazione e banalizzazione che contiene...
non c’è superamento della vita quotidiana senza dissidio e non si può superare
la vita quotidiana senza realizzare il dissidio.
Il
film di Zeitlin, Re della terra selvaggia,
racconta la storia di una bambina di sei anni alla ricerca della mamma ed altro
ancora... si chiama Hushpuppy e vive
con il padre, Wink, in una sorta di comunità
bayou (vuol dire “tortuosità” e si
riferisce all’ecosistema del delta del Mississippi, Louisiana), un intrico di
paludi che vengono chiamate la “grande vasca”... per le continue alluvioni
provocate dai cicloni in quella zona... l’inserimento di fabbriche e dighe
completa il disastro ambientale. Il film mostra che il reale non può mai
reggere il confronto con il giusto, il bello, il buono e fa emergere (con
risoluta leggerezza) il destino fatale a cui va incontro ogni forma vivente sul
pianeta.
Re della terra selvaggia
è affabulato in forma di favola (estraniante),
anche... Wink è un padre severo, nel contempo affettuoso con Hushpuppy... cerca di insegnarle come sopravvivere a un mondo
feroce... le temperature della terra sono in aumento e i ghiacci cominciano a
sciogliersi... tutto questo scatena nuove tempeste e alza il livello delle acque...
le antiche leggende bayou dicono che la catastrofe immanente libererà creature
preistoriche chiamate Aurochs (una sorta di bovino estinto già nel 1627). Il
padre scopre di avere un grave malattia e cerca di aiutare Hushpuppy a
difendersi dall’avanzare di una falsa modernità... il suo sogno è che la
bambina non abbandoni questa terra selvaggia e ne diventi re/regina. Quando il
padre è morente, Hushpuppy parte alla ricerca della madre e vede che il mondo
incantato del benessere non è proprio il migliore possibile.
Il film è narrato tra il documentario e la favola... Zeitlin
è sorprendente... girato con un piccolo budget, in 16mm, e si avvale di
interpreti straordinari (non solo Quvenzhane
Wallis che figura magistralmente Hushpuppy
e Dwight Henry, in una monumentale interpretazione
del padre, Wink... anche le “maschere”, volti, corpi di altri protagonisti del
film, esprimono una cartografia attoriale di straordinaria forza espressiva).
Zeitlin mescola l’epica all’antropologia e assetta un colpo magistrale al
mercimonio dei buoni sentimenti sul quale la “fabbrica delle illusioni”
hollywoodiana che creato il proprio impero. La bellezza senza coscienza, si può
dire di questo film, non è che la rovina dell’anima.
Il
soggetto di Re della terra selvaggia
è tratto dall’opera teatrale di Lucy Alibar (Juicy and Delicious) e sceneggiato da Zeitlin e Alibar. Dialogi
metaforici, brevi, disseminati in ogni sequenza, fanno riflettere sulla
precarietà/ingiustizia del mondo. La fotografia di Ben Richardson è austera, di
derivazione documentaria, avvolge l’intero film tra il mistero e la favola
amara, mai si fa intrappolare nell’estetica del naturalismo o del pittorialismo
nei quali si annacquano molti film d’avventura. Il montaggio di Crocket Doob e
Alfonso Gonçalves accorda con sapienza le sequenze attoriali con gli effetti
visivi (teneramente rudimentali) curati da Space Division, e l’entrata in scena
degli Aurochs coniuga magia e realtà ai
minimi termini, una sorta di sogno ad occhi aperti già conosciuto in opere di
Pasolini, Buñuel o Vigo. Le musiche di Dar Romer e Zeitlin si addossano al regno
del quasi nulla e del non-so-che in una forza vitalista di notevole
compiutezza... poche volte il cinema è riuscito ad esprimere una miscela di
amore è fiele così efficace, quasi mai lo schermo è stato inondato di tanta
tenerezza amorosa e dato al cinismo dei ricchi, dei potenti, dei saprofiti la
sorte di autodistruzione che incarna.
La favola di Re
della terra selvaggia esprime la resistenza di una
comunità che non vuole abbandonare la terra dei padri... l’industria inquina
tutto... uccide i pesci del fiume, manipola i cibi, spinge le bambine/ragazzine
alla prostituzione, si occupa del malessere che provoca con palliativi
assistenziali... le persone della comunità Bathtub/bayou respingono promesse di
felicità del lavoro coatto... i bambini studiano in una scuola-barca e tutti
vivono di ciò che la loro terra produce... Wink e i compagni Bathtub fanno
saltare in aria la strada/diga che impedisce lo sviluppo naturale della “grande
vasca”, e in chiusa si vede l’intera comunità con le bandiere nere
dell’anarchia che marcia contro le cattedrali d’acciaio e di fame
dell’industria. La collera però è distesa con grazia lungo tutto il film,
mostra la potenza di esistere alla storiografia dominante che vuole i poveri
sempre più poveri e i ricchi ancora più ricchi... la bella gente Bathtub non
vuole padroni... vuole vivere senza una costellazione di profittatori...
insieme... spartire amori e pene, gioie e sogni... realtà e fantasia... Hushpuppy non resterà sola nella “grande vasca” e anche gli
Aurochs (scatenati dall’immaginazione della bambina dopo l’ultima catastrofe
ambientale) si inginocchieranno davanti alla bellezza aurorale della piccola regina della terra selvaggia.
Va detto. Il film di Zeitlin è un’opera libertaria di rara
compiutezza estetica/etica... implica la filosofia libertaria che la precede...
riporta all’autobiografia del corpo, dell’azione di una comunità che soffre
l’avanzare dello sfruttamento e della coercizione... è una visione soggettiva
che dice NOI e il mondo che la contiene... vivere la propria esistenza
nell’autenticità significa rendere vitale e visibile la propria storia, quando
invece nulla è dato e tutto resta da costruire. La biografia di un popolo non
si riassume nel commentario delle sue inerzie, ma nel legame tra i suoi
comportamenti e delle sue rivolte. Il teatro aperto del mondo e vita quotidiana
non sono nulla se tutto è parte dell’utilitarismo che impedisce la
realizzazione del bene comune... amare e godere della felicità possibile, senza
far male né a te né a nessuno, questa è tutta la morale che sta al fondo della
società in anarchia.
Piombino,
dal vicolo dei gatti in amore, 16 volte giugno 2014.
[1] Noam Chomsky, Il governo del futuro, Tropea, 2009
[2] Guy-Ernest Debord, Introduzione a una critica della geografia
urbana, Nautilus, 2013
[3] Internationale
situationniste, La critica del linguaggio
come linguaggio della critica, Nautilus,1992