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mercoledì 13 agosto 2014

POLITICA E GUERRA NEL LEVANTE ARABO, di Pier Francesco Zarcone

Il “Califfato” preoccupa, ma…
La guerra scatenata dal cosiddetto Califfato del Levante e dell’Iraq ha messo in movimento la politica internazionale, peraltro più a parole che nei fatti, nonostante l’ampia minaccia di cui è portatrice (in primo luogo per gli Stati arabi) e l´inusitata efferatezza verso nemici e avversari.
Sull’Iraq sono tornate a piovere le bombe statunitensi; ma l’intervento di Washington è foriero di ulteriori pasticci e complicazioni. Le motivazioni umanitarie sono credibili solo da chi le vuole credere. Qui giocano tanto esigenze geostrategiche imperialistiche quanto la difficoltà di giustificare ulteriormente l’iniziale inerzia di fronte a un’opinione pubblica interna e internazionale sensibile all’atroce situazione determinatasi per i Cristiani nelle zone occupate dai jihadisti.
Intendiamoci: era indubitabile che un nuovo intervento Usa alla fine ci sarebbe stato; tuttavia era atteso per il momento in cui la frantumazione dell’Iraq fosse maggiormente stabilizzata, secondo certi piani statunitensi già menzionati in precedenti articoli. È accaduto però che al-Baghdadi (che risulta essere stato liberato a suo tempo dalle autorità statunitensi perché ritenuto non pericoloso!) non si è mosso nel mero quadro iracheno del settarismo anti-sciita ma è andato pericolosamente oltre, in modo autonomo e oltre tutto scatenandosi contro le minoranze religiose delle aree conquistate (per inciso, violando la stessa legge coranica al riguardo) e facendo del loro massacro (e di quello degli oppositori sunniti) un fondamentale strumento di potere.
Non si può escludere che al-Baghdadi avrebbe avuto più tempo a disposizione senza subire ora attacchi aerei se non avesse dato oggi il via libera a questa sanguinosa persecuzione. Infatti Obama non avrebbe corso soverchi rischi con gli elettori Bible-addicted, ai quali a buon bisogno degli Yazidi interessa poco (sicuramente non sanno nemmeno di chi si tratti), ma che sono sensibili alle persecuzioni musulmane contro cristiani quand’anche non protestanti. Poiché questi cristiani sono in prevalenza cattolici di rito orientale, automaticamente c’è in campo pure l’elettorato statunitense legato alla Chiesa di Roma. Che a Washington si siano percepite pressioni di vario tipo lo fa capire il fatto che fino a poco prima il Pentagono aveva escluso anche l’ipotesi di bombardare le posizioni jihadiste. È il caso di dire che ancora una volta, nel caso di al-Baghdadi, la fretta non ha fornito buoni consigli.
Sul piano di altre reazioni esterne agli avvenimenti iracheni va detto che se dietro le quinte opera l’Iran sciita, intanto elementi dei Pasdaran sono già operativi in Iraq, come risulta dalla notizia della morte di un loro generale durante un combattimento. Il notevole attuale sviluppo degli armamenti iraniani potenzialmente non fa presagire nulla di buono per al-Baghdadi e compagni se la situazione dovesse precipitare e portare a un intervento più diretto e massiccio di Teheran. Intervento che, peraltro, al momento non conviene all’Iran, per non marcare il conflitto iracheno come lotta duale fra Sciiti e Sunniti.
A motivo di una diffusa e giustificata preoccupazione destata dagli avvenimenti in Iraq, è all’erta anche il governo egiziano. Il 10 di questo mese il sito IraqiNews.com ha riferito di una dichiarazione dell’ex ministro degli Esteri, Muhammad al-Orabi, circa la decisione del Presidente Abd al-Fattah al-Sisi di realizzare un coordinamento con altri Stati arabi per l’invio di truppe in Iraq contro il “Califfato” islamico. Tale dichiarazione fa seguito a un recente annuncio dato dallo stesso al-Sisi alla stampa egiziana in merito alla necessità di creare un’Alleanza Araba, motivata dai fatti in Iraq e Siria da lui denunciati come «minaccia reale e non illusoria come qualcuno ritiene (…) questa minaccia richiede la formazione di una Nato araba».
Chi vivrà vedrà.

Schizofrenia di Obama? Non è detto
Obama (insieme a vari paesi della Nato) è stato in procinto di bombardare la Siria. Sarebbe stata un’iniziativa non solo dagli esiti sanguinosi a danno della popolazione civile, ma politicamente catastrofica per tutta l’area, in quanto avrebbe consegnato la Siria ai jihadisti che – tenuto conto della pluralità di minoranze religiose ivi esistenti – avrebbero scatenato un massacro di proporzioni enormi e causato esodi di massa. Per non parlare delle conseguenze politico-strategiche per il mondo arabo.
Non è però detto che sia finito il periodo delle letali bugie. Per correttezza si rileva che negli ambienti politici statunitensi qualcuno comincia a valutare le situazioni con un maggior realismo, benché mai disgiunto dalle mire imperialistiche. Un esempio sono le affermazioni di Ryan Crocker, ex-ambasciatore Usa in Afghanistan e Iraq:
«È tempo di prendere in considerazione il futuro della Siria senza la cacciata di Assad, perché è estremamente probabile che così sarà in futuro (...). Meglio armato, organizzato, sostenuto e motivato, Assad non se ne andrà. Molto probabilmente, si riprenderà il Paese centimetro per centimetro sanguinoso. Forse al-Qaida terrà alcune enclave nel nord. Ma egli terrà Damasco. E vogliamo davvero l’alternativa di un grande Paese nel cuore del mondo arabo nelle mani di al-Qaida? Quindi dobbiamo fare i conti con un futuro che includa Assad e, considerandolo cattivo quanto si vuole, c’è qualcosa di peggio».
Una maggiore comprensione della situazione nel Vicino e Medio Oriente tuttavia non sembra ancora generalizzata, essendoci alti esponenti della politica statunitense che o non capiscono o non vogliono capire, come Hillary Clinton che ha attaccato la politica di Obama accusandolo di non aver armato adeguatamente i ribelli siriani non jihadisti, poiché altrimenti costoro avrebbero potuto fare fronte alla minacca costituita dagli estremisti islamici. Per inciso, è una fortuna che Obama non l’abbia fatto: il cosiddetto Esercito Libero Siriano è quantitativamente privo di consistenza, a motivo del persistere del maggioritario appoggio popolare sunnita ad al-Assad, mentre invece le componenti radicali islamiste della rivolta possono prescindere dall’appoggio delle masse siriane giacché traggono i loro militanti dal volontariato estero.
Oggi Obama bombarda in Iraq, e non mancano le anime belle disposte a pensare “finalmente arrivano i nostri”. La realtà è diversa: ancora una volta “arrivano loro” per fare i propri interessi. Questo giudizio è indotto dalla portata degli attuali bombardamenti, che hanno tutta l’aria di essere il classico “specchietto per le allodole”.
Atteniamoci ai fatti, e lasciamo perdere che il Premio Nobel per la pace Obama – autore, nel corso dei suoi due mandati, dell’ordine di effettuare circa 450 attacchi di droni, con la conseguenza di 2.400 morti in Pakistan, Yemen e Somalia abbia fatto orecchie da mercante alle richieste del governo iracheno per un aiuto aereo (la prima richiesta è dello scorso dicembre), praticamente facendo capire ai jihadisti di non aver nulla da temere dagli Stati Uniti. E concentriamoci piuttosto sul particolare che i tanto decantati bombardamenti statunitensi di oggi non sono affatto diretti all’eliminazione delle postazioni jihadiste e di quanti più militanti sia possibile, in modo da consentire a quel che resta dell’esercito iracheno la tanto attesa contro-offensiva. In concreto non si tratta di interventi strategici, bensì di meri bombardamenti tattici di contenimento sulla linea di demarcazione del Kurdistan iracheno, la cui integrità è fondamentale nel progetto statunitense di spartizione dell’Iraq; al pari della costituzione di un’entità sunnita. Per la difesa delle zone irachene ancora controllate dal governo di Baghdad, e a maggioranza sciita, Obama non sta facendo assolutamente nulla. E i suoi sodali europei sono sulla stessa linea: i governi di Gran Bretagna, Francia e Italia sottolineano (finora a parole) l’esigenza urgente di proteggere Curdi e Yazidi, ma sul resto dell’Iraq... un silenzio assordante.
È, per così dire, ancora caldo di stampa l’articolo del Financial Times in cui si sottolinea che «Finora le forze statunitensi non sono riuscite a colpire edifici, depositi di armi o la leadership del Siil nel deserto presso Mossul».
E allo stesso giornale il sopra citato Ryan Crocker ha rimarcato: «un paio di bombe da 500 libre dagli F-18 e un paio di attacchi di droni non possono fermare il Siil. Abbiamo avuto la possibilità di colpire la loro leadership e le loro strutture di comando e controllo, ora è finita (...)».
Si parla con sempre maggiore frequenza di politica inconcludente e pericolosamente ambigua di Obama, giocata su un irrazionale divide et impera: ma ambigua e irrazionale lo è davvero?
Alla luce della situazione attuale e delle suddette valutazioni che se ne possono trarre, suffragate da quelle succitate di fonte non sospettabile, è automatico domandarsi se Obama & C siano una massa di cretini, oppure cosa ci sia sotto. Qui le cose si intorbidano, perché sui versanti informativi politicamente non allineati circolano notizie poco rassicuranti, apparentemente “incredibili”, ma non va dimenticato che la realtà è spesso romanzesca. Ebbene, poco tempo fa dai cosiddetti “archivi Snowden” è emerso che il “Califfo” Abu Bakr al-Baghdadi è stato addestrato dal Mossad israeliano e dai  servizi occidentali (Cia e Mi6) per destabilizzare l’Iraq e contrastarvi l’influenza iraniana. Inoltre sulla rete abbondano le fotografie del sig. “Califfo”, quando ancora non lo era, insieme all’ex candidato presidenziale Usa John McCain, e si sostiene che egli sarebbe tale Simon Elliot, agente del Mossad.
Ad ogni buon conto, rivelazioni dietrologiche a parte, è indubbio che oggi Obama grida all’allarme con il danno già compiuto anche dai suoi, e nulla fa per rimediare; anche con gli attuali bombardamenti “umanitari” fa la figura del pompiere che finge di intervenire dopo aver appiccato l’incendio. E poi con frequenza (evidentemente ipocrita) viene sfondato il muro del ridicolo: sappiamo tutti che gli Stati Uniti dispongono di vari servizi di intelligence (ahimé decantati dalla cinematografia hollywoodiana e da una pletora di romanzetti di serie B), che sicuramente costano un sacco di soldi; ebbene, Obama ha avuto l’indefinibile coraggio di sostenere che «La crescita dell’Isis è stata più rapida di quanto la nostra intelligence e gli stessi politici si aspettavano».   
Pur volendo caritatevolmente prescindere dall’anomalia di servizi segreti che ignorano le potenzialità e capacità di loro creature, proprio lo scorso giugno il responsabile degli Affari Iracheni per il Dipartimento di Stato, Brett McGurk, aveva affermato innanzi alla Commissione Esteri del Senato che «l’Isis è cresciuto sino a diventare un vero e proprio esercito, capace di organizzare almeno 50 attentati al mese in Iraq e Siria, e pronto a dirigere i suoi attentatori suicidi in Europa e persino negli Stati Uniti»!
Pensare “in che mani siamo?” ed aver paura sono reazioni automatiche. Tutto sommato non sembra avere torto lo Sceicco Nahim Qassam, Vicesegretario di Hezbollah, valutando – in una recente intervista - l’attuale situazione in Iraq quale risultato degli intrighi israeliani e statunitensi nel loro consueto ruolo di “piromani-pompieri”, prima organizzando, rifornendo e addestrato le bande jihadiste e poi gridando all’emergenza per intromettersi in un regolare processo democratico post-elettorale.
Le preoccupazioni si estendono, e non ci si deve stupire se potere e influenza degli Stati Uniti nell’aera del Vicino e Medio Oriente non godono attualmente di buona salute, e se non mancano gli alleati locali che cominciano a cercare qualche alternativa; spesso a ciò costretti dalla stessa politica di Washington verso di loro. Come nel caso dell’Egitto. Nell’ottobre del 2013 gli Stati Uniti decisero di ridurre l’aiuto militare alle Forze Armate egiziane, e questo fu inteso dai vertici militari dell’Egitto come una mossa per indebolire il paese nella lotta ai jihadisti del Sinai. Per conseguenza si rivolsero all’Arabia Saudita e a monarchi arabi del Golfo Persico. “Casualmente” un mese dopo la decisione statunitense l’incrociatore lanciamissili russo Varjag visitò il porto di Alessandria, seguito giorni dopo nel porto di Safaga dalla nave ausiliaria Boris Butoma. L’ultima presenza di navi russe era avvenuta nel 1992. Poi seguirono visite di ministri russi al Cairo ed egiziani a Mosca. Resta l’interrogativo se l’Egitto veda nella Russia uno strumento di pressione verso Washington, o una risposta alle sue recenti decisioni. In una prospettiva più ampia non va trascurato un particolare: la caduta dei Fratelli Musulmani in Egitto – in favore dei quali gli Usa si erano spesi più del dovuto – è stata poco rassicurante circa la capacità di protezione statunitense, innanzi tutto sul piano politico, mentre non vengono abbandonati a se stessi gli alleati di Iran e Russia.

La non irresistibile avanzata del “Califfato” di al-Baghdadi, ma…
Il 9 di questo mese il prestigioso giornale libanese L’Orient le Jour ha cercato di rispondere a tale questione – che in effetti sono in molti a porsi, a motivo del limitato numero di miliziani jihadisti operanti in Iraq – individuando vari fattori contingenti che giocano a favore dell’offensiva in corso. Essi sono militari e psicologici.
Sul piano militare vanno innanzi tutto sottolineati lo sfascio psicologico di un esercito iracheno messo su dagli occupanti statunitensi – Dio solo sa con che criteri e quale addestramento – dopo l’inopinato scioglimento delle Forze Armate dell’epoca di Saddam, nonché il non eccezionale armamento dei Peshmerga curdi. Inoltre va considerata la quantità di armamenti caduti nelle mani dei jihadisti nel nord del paese dopo lo “squagliamento” dei militari iracheni: carri armati, missili e armamento pesante di vario genere. Neppure va trascurata l’esperienza acquisita in Siria dai jihadisti oggi del “Califfato”. Altro fattore rilevante sta nell’accorta scelta delle battaglie da combattere e delle zone in cui farlo: i jihadisti sono partiti da zone sunnite, oltre tutto relativamente poco popolate, in cui trovano sostenitori e infrastrutture.
Sul piano psicologico non c’è dubbio che essi si siano giovati della giustificata reputazione di violenza e crudeltà in precedenza acquisita, e della fascinazione dell’idea della ricostruzione Califfato sui fanatici di certi ambienti radicali.
Formalmente i discorsi di Obama evidenziano la sua preferenza perché a sbrogliarsela siano gli stessi interessati locali: ciò sarebbe molto meglio, che non demandare agli Usa soluzioni che non possono né vogliono dare. Su questa base ci si aspetterebbero interventi per rafforzare militarmente le Forze Armate irachene; ma questo non avviene, e il perché risulta da quanto detto dianzi e in passato.

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