A ingarbugliare
ancor di più l’immagine della già complicata situazione nel Vicino e Medio
Oriente contribuiscono certe superficiali generalizzazioni, diffuse dai grandi
mezzi di comunicazione in modo martellante e quindi ormai diventate luoghi
comuni. Sostanzialmente esse causano due equivoci di base: la riduzione delle
vicende siriane, irachene, libanesi ecc. a un “conflitto settario” tra Sunniti
e Sciiti; e la presentazione dell’Islam in quanto tale come irrimediabilmente
inconciliabile con la distinzione tra sfera politica e sfera religiosa.
Il conflitto settario c’è, ma non basta
Intendiamoci: non si
nega l’esistenza di questo conflitto, e nemmeno si mette in dubbio lo sviluppo di
un processo di riscossa sciita iniziato in Libano anche prima della rivoluzione
iraniana. Il problema, invece, è che si tratta di un fenomeno inidoneo da solo a
esaurire l’intreccio d’insieme. In genere di questo non si parla, o se ne parla
troppo poco; e del pari – almeno fino a pochi giorni fa – sono state
scarsamente rivelate la dimensione e l’efferatezza delle imprese del settarismo
jihadista e la barbarie della sua propaganda, a motivo di una perdurante ambiguità
occidentale verso di esso. L’azione propagandistica di fanatici predicatori e
le fatawa di rozzi ulema contro gli “infedeli”
(termine inclusivo di Sunniti di diverso orientamento, degli Sciiti e ovviamente
dei non-musulmani), e addirittura le loro “legittimazioni” dello stupro a danno
di donne sciite, cristiane e laiche, in linea di massima interessavano poco, nonostante
il sottostante livello di abiezione.
Che il moderno
jihadismo sia un fenomeno essenzialmente sunnita è fuori discussione: il
problema, tuttavia, consiste nel suo grado di rappresentatività dell’Islam
sunnita, a prescindere dalle pretese di esserne gli esponenti esclusivi. Per meglio
intendere ciò si deve preliminarmente soffermare l’attenzione su quali siano le
parti in campo e le vittime dell’estremismo jihadista; neppure sarebbe male
effettuare un esame storico e culturale complessivo del mondo islamico. Sotto
questo punto di vista è interessante quanto scrisse Mohamed Omar nell’articolo I Sunniti sono oppressi in Arabia Saudita,
non in Siria, comparso su “Eurasia” del 13 agosto 2012. Detto in sintesi -
nel confutare la ricorrente identità diffusa in Occidente fra Sunnismo e Wahabismo
saudita (a cui peraltro egli finisce con l’avvicinare l’ideologia dei Fratelli
Musulmani), a motivo del fatto di essere questa corrente islamica la matrice
ideologica del jihadismo – questo autore ricorda come il Wahabismo sia una
corrente “religiosa” affermatasi fra beduini rozzi e ignoranti, che in oltre
200 anni abbia direttamente causato la morte più di Musulmani sunniti che di
“infedeli”, e che in definitiva si sia rivelato oppressivo proprio per i
Sunniti, tant’è che in Arabia Saudita tutte le moschee sono wahabite (non v’è
ne è alcun’altra di diverso orientamento sunnita) e nelle scuole si insegna
solo l’ideologia wahabita. Da qui la contrapposizione tout court fra Wahabiti e Sunniti fatta da Mohamed Omar.
Il tratto più
caratteristico dei Wahabiti, e dei jihadisti in genere che obiettivamente ne
condividono l’ideologia senza nemmeno esasperarla più di tanto, non è – come in
genere si crede – l’interpretazione ultraletteralista del Corano e dei Detti
del Profeta, quanto e soprattutto la loro pretesa (sostenuta, oltre che dalla
violenza, da un’enorme disponibilità economica) di essere loro gli unici
autentici musulmani, a scapito di tutti gli altri, sostanzialmente considerati
apostati e quindi meritevoli di essere uccisi (fu questo il retroterra
ideologico del grande scannatoio algerino alla fine del secolo scorso, senza
riguardi per donne e bambini; anzi!). Eppure, a ben considerare e per tragica
ironia storica, questa fu la caratteristica tipica degli antichi Kharigiti,
cioè della frazione più estremista del proto-Sciismo, dalle cui fila provenne l’assassino
del 4° Califfo e primo Imam sciita,
Ali.
Per quanto riguarda
le attuali forze in campo si individuano elementi contrari allo schema del
conflitto settario fra Sunniti e Sciiti. Quand’anche non si aderisca del tutto all’impostazione
di Mohamed Omar (che finisce con l’espungere dal corpo sunnita sia i Wahabiti
sia i Fratelli Musulmani), lo scontro in atto è rappresentabile come contesa
mortale fra il radicalismo jihadista da un lato, e il resto del mondo - musulmano
e non – dall’altro lato.
Prendiamo il caso
siriano, presentato come lotta fra Alawiti e Cristiani contro i Sunniti locali.
Tale impostazione non dà conto della recente notizia (il 2 di questo mese di
agosto) che in Siria combattenti della tribù sunnita al-Shaitat
hanno liberato dai jihadisti vari villaggi strategici nei dintorni di Deir
Ezzour, dopo Abu Hamam, Kashkiyeh e Ghranij. Prezzolati. Né deve sfuggire che
l’esercito governativo siriano è pieno di soldati sunniti, e l’appoggio della
popolazione sunnita al governo è valutato sull’80% di essa (difatti nella
stragrande maggioranza i jihadisti operanti in questo paese non sono siriani,
tant’è che nella stampa francese e libanese si parla di conflitto che di
siriano ormai ha solo il nome).
Passando al Libano,
sempre a mo’ di esempio, non solo di recente Beirut è stata teatro di scontri
armati con gruppi wahabiti, terminati solo con un consistente intervento dell’esercito
libanese, ma per giunta nei giorni scorsi a Ersal (nel nord del paese) si sono
svolti lunghi e impegnativi combattimenti fra militari e jihadisti, conclusisi
con la sconfitta di questi ultimi. Si è trattato di scontri limitati ai due
soggetti sopra indicati, senza coinvolgimento della popolazione sunnita.
Risulta anzi che il clima politico locale, ben lungi dal fare emergere un
settarismo di massa, abbia rafforzato le tendenze contrarie ai jihadisti proprio
nella comunità sunnita. Già nei mesi scorsi i capi dei principali blocchi
politici libanesi – quand’anche di diverso orientamento religioso e su
posizioni opposte in relazione al conflitto in Siria – hanno concordato un
piano di emergenza per la sicurezza nazionale contro il comune nemico
jihadista.
Incidentalmente va
rilevato il fatto “anomalo” di un prestito dall’Arabia saudita di 2.200.000
dollari alle Forze Armate libanesi; forse da qui in seguito si capirà cosa ci
sia sotto: l’inizio di una presa di distanza del governo saudita rispetto a un
jihadismo che non controlla più? Staremo a vedere, anche se non esistono dubbi
circa l’intrinseca capacità di destabilizzazione anche dell’Arabia Saudita da
parte del jihadismo dopo la costituzione del califfato di al-Baghdadi (da un
lato risibile, ma da un altro lato capace di far piangere molti).
Tornando a noi,
anche i maggiori esponenti religiosi dei bastioni sunniti libanesi (Tripoli a
nord, Sidone al sud e Ersal alla frontiera siriana) si sono dichiarati contro
il pericolo jihadista. Atteggiamento sincero, oppure timore di una pericolosa
concorrenza? A leggere un recente reportage di Natalia Sancha su El País dell’8 agosto si dovrebbe
propendere per la seconda ipotesi. Intervistato da questa giornalista,
l’influente sceicco sunnita di Bab al-Tebene (Tripoli), Abu Mazen, ha sostenuto
che traendo i leader sunniti la loro forza da finanziamenti locali, lasciare
spazio ai jihadisti vorrebbe inevitabilmente dire perdere sia la capacità di
mobilitazione sia i predetti finanziamenti. Comunque sia, se alla fine a
contare sono i risultati più delle intenzioni, “ci si può anche stare”.
In definitiva si deve
concordare col Gran Mufti di Damasco (sunnita), Ahmad Badr ad-Din Hassun, il
quale ha sottolineato l’esistenza di una campagna di aggressione esterna,
voluta da potenze straniere regionali e occidentali, che incentivano e/o si
avvalgono dello scontro confessionale in termini strumentali .
Panarabismo vs. jihadismo
Un’ulteriore
considerazione riguarda un aspetto ormai trascurato: per quanto, come ideologia
trainante, il vecchio panarabismo (di origine cristiana e sunnita) risulti
decisamente fuori moda, tuttavia in vari paesi dell’area (almeno in Marocco,
Algeria, Tunisia, Egitto, Siria) le vicende di secoli e secoli di storia hanno
prodotto un forte senso di identità nazionale peraltro inquadrata
nell’appartenenza alla più ampia famiglia di lingua araba; sentimento da non
trascurare nonostante appaia “sotto traccia” per non essere evidenziato né
ricordato dai media. Tutto ciò cozza
decisamente con l’ideologia del jihadismo, incentrata come è su una
totalizzante affermazione dell’Umma
(la comunità dei fedeli Musulmani; parola che viene da um, madre) rispetto a qualsiasi altra realtà identitaria. Si tratta
di un’ideologia incentrata su una escludente “madre-patria musulmana” transnazionale,
in urto radicale sia contro l’ipotesi stessa del panarabismo, sia contro qualsiasi
“nazionalismo” locale; e infatti li considera entrambi sacrilega eresia,
giacché l’unica vera nazione per i Musulmani sarebbe l’Umma. Si tratta di una concezione per la quale sarebbe da
considerare eretica tutta la storia dell’Islam, quantomeno quella successiva ai
primi quattro Califfi.
È facile immaginare
quanto poco possa piacere tutto questo a Sunniti affezionati al loro passato e
al loro essere arabi, alla loro identità nazionale - che per secoli hanno
vissuto l’Umma essenzialmente come
realtà spirituale (metafisica, si potrebbe dire) ed elemento di unione
coesistente con qualsiasi particolarismo, in quanto al di sopra di essi ma
senza escluderli.
Un ulteriore
aspetto idoneo a distanziare i jihadisti dai comuni Sunniti è di natura
esistenziale. Gli osservatori più avveduti hanno sottolineato, fin dall’inizio,
lo sprezzo per la morte nei combattenti jihadisti; e se si leggono le
dichiarazioni di costoro ne risulta un panorama mentale del tutto alienato
verso la prospettiva del Paradiso quale ricompensa per le loro gesta. Qualcuno
ha detto che a tali personaggi non interessa tanto vincere quanto combattere
per Allah. È quindi legittimo chiedersi – retoricamente - quanti Sunniti
condividano un’impostazione che svalorizza in modo assoluto la vita terrena,
peraltro contrariamente alla stessa dimensione coranica.
Tirando le somme:
il conflitto settario esiste, ma nei termini predetti; lo stesso dicasi per lo
sforzo politico di riscossa delle comunità sciite dopo secoli di oppressione da
parte di poteri sunniti, colonialisti e (in Libano) cattolico-maroniti,
coniugato con i progetti iraniani di tornare a essere una potenza regionale di
tutto rispetto; ed esiste pure l’esclusivismo politico sciita di al-Maliki che
ha creato notevoli problemi in Iraq. Altro ancora si potrebbe aggiungere, ma
senza modificare il quadro d’insieme. Volendo continuare a parlare di “scontro
di civiltà”, è imprescindibile dire che esso si svolge fra il radicalismo
islamico e tutto il resto dell’universo umano, Sunniti compresi. Vedere gli
avvenimenti attuali nell’ottica del mero scontro settario è erroneo e anche
fuorviante, in quanto suscettibile di non far più distinguere – insieme alle
reali parti in causa – i nemici dai semplici avversari e dai potenziali
alleati.
La distinguibilità fra sfera politica e sfera religiosa
Apparentemente la
posizione jihadista contro gli Stati non basati esclusivamente sulla Legge
coranica, dovrebbe essere propria di tutti i Sunniti, dalla semplificazione
occidentale accreditati come portatori della indistinguibilità fra religione e
politica. Visione facilmente argomentabile con la pregnanza e pervasività del
fattore religioso nel mondo islamico. Tuttavia, ancora una volta, con
l’approfondimento e i riscontri storici le cose non si amalgamano con tale
semplificazione.
In primo luogo nell’Islam
non s’individua una specifica teoria politica di origine coranica. Talché con riferimento alla
delicata questione della distinzione tra religione e potere statale, sono state
e sono le singole situazioni locali a determinare il grado di laicità
“digeribile” da ciascuna società musulmana in base al proprio modo di essere. Si
potrebbe quindi parlare di “digeribilità variabile” giacché, per esempio, l’Islam
arabo e quello indonesiano non sono la stessa cosa, e all’interno del primo la
Siria non è lo Yemen o l’Arabia Saudita.
Tale “digeribilità”
prescinde dalla dogmatica islamica in sé e per sé, dipendendo essenzialmente dalle
superfetazioni culturali storicamente formatesi, alle quali comunque viene attribuito
un fondamento religioso il più delle volte arbitrario. Ragionando diversamente si
cade nella trappola degli islamisti più ottusi, non casualmente condivisa dai
fondamentalisti cristiani. Nella stessa trappola cadono sovente anche certi
noti e interessati “orientalisti” (come per esempio Bernard Lewis) giustamente
oggetto degli strali lanciati a suo tempo da Edward Said nel suo ormai classico
Orientalismo[1]. Non solo nel caso dell’Islam vale
sempre la distinzione fra religione-testo (con la sua oggettività non più
storica) e il cosiddetto vissuto religioso (eminentemente storico-dinamico e
determinato da processi socio-economici e politici).
La nostra
conclusione sopra esposta trova riscontro in quanto sostenuto dal teologo
dell’università sunnita cairota di al-Azhar, Ali Abd ar-Raziq, in L’Islam et les fondements du pouvoir. Egli,
mediante un lavoro sistematico di rivisitazione delle fonti (Corano e Detti del
Profeta), ha confutato la tesi che la laicità sia globalmente respinta dall’Islam
e che esista un preteso “sistema politico islamico”. Altrettanto importante è
la distinzione da lui fatta tra Islam (come frutto della rivelazione divina) e
musulmani (soggetti storici), il cui il retaggio di mentalità, abitudini e
costumi formatisi in determinati luoghi e momenti non va confuso col messaggio
religioso.
Neppure va
trascurato che nel corso della storia e fino a oggi in tutti i paesi musulmani
le necessità concrete e/o gli opportunismi politici hanno piegato a loro favore
anche la Legge religiosa, mediante prassi, comportamenti e iniziative di assai
dubbia ortodossia, o giustificati con interpretazioni delle fonti alquanto
opinabili, oppure non giustificati affatto. Pur tuttavia questo ha anche costituito
un varco per l’avvento di elementi laico-secolari.
Che la tradizione culturale
islamica sia alquanto refrattaria alla laicità nei termini in cui essa viene
intesa nel mondo occidentale, è fuori discussione. E lo manifesta anche la
lingua araba: la peggiore traduzione di laicità consiste nell’uso del termine laa diinii (senza religione); in un
dizionario della fine del secolo XIX, a opera del cristiano libanese Butrus
al-Bustaanii, è comparsa la parola ‘almaaniyya,
prima inesistente, derivante da ‘aalam,
mondo, che esprimendo mondanità è più affine a secolarizzazione che non a
laicità. Oggi è più usata la parola ‘ilmaaniyya,
derivante da ‘ilm, conoscenza, in
definitiva riferita allo spirito razionale. Ci sarebbe anche laaikiyya, formalmente la migliore di
tutte se però non avesse assunto una connotazione un po’ dispregiativa.
La necessità di uno
Stato islamico per la vita religiosa dei credenti non è affatto dogma di fede e
i veri punti critici coinvolti da impostazioni di tipo laico sono in definitiva
solo due: il diritto di famiglia e il contenuto della sfera dei diritti civili.
Cose non da poco, certo; ma non insormontabili, tant’è che in materia una
legislazione assai avanzata esisteva in Tunisia prima della cosiddetta
“primavera araba” ed esiste ancor oggi nel Marocco monarchico.
Sfera religiosa e sfera politica: quali precedenti
storici nel mondo islamico?
Nell’Islam non c’è
mai stata una vera e propria teocrazia, oltre a non esistere niente di analogo
a una Chiesa. Gli stessi mullah sciiti
non costituiscono un clero vero e proprio, ma sono solo un corpo organizzato di
dottori della Legge sacra (nel mondo sunnita ci sono gli ulema). Anche la
vecchia istituzione del Califfato - i successori del profeta Muhāmmad alla
guida della comunità islamica - non dev’essere fraintesa: non ebbe niente di
analogo col Papato, ma fu solo un’istituzione a guardia della corretta
applicazione dell’Islam e delle sue interpretazioni ortodosse. Quello del
Califfato è un tema non secondario tenuto conto che la sua ricostituzione fa
parte del bagaglio ideologico-programmatico del moderno radicalismo islamista,
nel quadro del preteso ritorno alla purezza islamica originaria. Già in rapporto all’epoca califfale è
possibile individuare una divisione almeno funzionale fra sfera religiosa e
sfera temporale (o profana), sia per l’accentuazione del ruolo temporale dei
Califfi (almeno finché ebbero la forza di esercitarlo) sia per la progressiva
perdita di controllo sulle questioni religiose, controllo progressivamente
assunto dagli ulema. Poi, con la formazione e l’affermazione delle grandi
scuole giuridiche islamiche (o meglio, teologico-giuridiche) la divaricazione
fu definitiva.
Va pure detto che i
Sultani ottomani (ultimi Califfi sunniti) non dettero mai soverchio peso a
questa loro carica, almeno fino alla fase terminale del loro impero, quando invece
la riesumarono nel tentativo di rafforzarne la componente musulmana dell’impero
per contrastare la disgregazione nazionalista operata dalle componenti
cristiane. Il Califfo, quindi, non è mai stato il capo spirituale dell’Islam
sunnita. A un certo punto fu l’imperialismo britannico ad avere l’interesse a
presentarlo in questo modo, al fine di utilizzare l’amicizia con questa
asserita “autorità religiosa” per tenere buone le popolazioni musulmane del suo
impero coloniale.
Il radicalismo
islamico contemporaneo – come detto altre volte - non vuole difendere né
rafforzare l’Islam tradizionale bensì imporre una del tutto nuova concezione
della vita religiosa, e non a caso lotta contro la religiosità popolare; tant’è
che al riguardo qualcuno ha reputato più appropriato parlare di “neo-Islam”.
L’Islam di questi radicali, paradossalmente, ha qualcosa di pre-laico, nel
senso di separare la pratica religiosa dalla spiritualità, essendo privo di
vero spessore spirituale e incentrandosi essenzialmente sulle pratiche
esteriori, sul mero formalismo rituale e su determinati abbigliamenti. È solo
grazie a questa specifica fazione che si diffonde nelle società islamiche un
puritanesimo inquisitoriale magari supertecnologizzato.
Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com