Prima
parte
(pubblicata in Giano. Pace ambiente problemi globali n.
27, settembre-dicembre 1997)
La seconda
parte verrà pubblicata prossimamente su questo blog.
Summary
This
article deals with the discrepancy that lies in the political practices of
social environmental movements, green parties and left-wing organizations,
between the minimal programme and partial activism onthe one hand and the
maximum programme and the hope for global change on the other.
This
situation is partly due to the lack of
any realistic theory behind environmental policy and the State. The political
positions adopted in this sphere are generally combinations of the «State to
democracy» approach, the pressures it is subject to and the independent
initiatives that prefigure the creation of an ecological society.
Both
cases skirt the problem of the limitations of an environmental policy as such,
and of stateness as the concentration of class power, avoiding thus the
question of the limits placed by the capitalist State upon ecological
rationality as defined by John Dryzek: negative retroaction, co-ordination,
flexibility and/or strenght, resilience.
After
looking at the potentially anticapitalist nature of environmental social
movements and the origins of environmental politics in the general and
multi-dimensional crisis of capitalist society in the late Sixties, early
Seventies, the article moves on to make an analytic examination of the intrinsic
limits of normative and administrative action in environmental politics.
Well
known phenomena such as the divisions within environmental politics, the
conflict of autorithy between institutional bodies and apparatus, the
contradictions in different interpretations of the laws and implementation,
applicative inertia, the gap between planned objectives and the means used to
reach them, are not the result of dysfunction, but are axpressions of the
limits of the State action in the environmental sphere. Such phenomena do not
depend simply upon the influence of interest groups; they are inherent to the
«rationale» of administrative activity due to the relative, reciprocal
independence of State and economy - a distinctive structural feature of
capitalism and the way class power is wielded. Together with the tendency
towards global transformation into commodity and the exploitattion of capital,
the limits of administrative action stand in the way of ecological rationality
and undermine the very foundations of environmental politics.
The
condition necessary for an international, ecological rationality is therefore
the socialisation and integration of political will and of management of the
resources and of the economic apparatus, that is to say, the maximum extension
of the democracy in all the spheres and the circles of the social life.
Conflitti,
discussioni e normative intorno a questioni che oggi definiremmo ambientali non
sono certo novità recente. Gli Stati moderni si sono occupati, prima o poi,
dell'igiene e della salute pubblica, dei rischi di determinati impianti
industriali, delle acque e delle foreste, della conservazione (e a volte anche
dell'«invenzione») del
patrimonio naturale, paesaggistico e storico-culturale.
L'intervento
degli Stati liberali in questi ed in altri campi non era in contraddizione con
il loro ruolo di garanti delle condizioni generali dell'attività economica e
dell'addomesticamento della natura, di difensori della proprietà privata e
dell'ordine sociale, di promotori e tutori dell'identità nazionale e del patriottismo.
Ma per quanto
rilevanti nei loro effetti sull'ambiente sociale e naturale potessero essere
gli interventi statali, e per quanto il riferimento al «naturale» come
principio morale, declinato nei modi e per i fini più diversi, non sia mai
mancato, è un anacronismo parlare di politica dell'ambiente prima del periodo
posto tra la metà degli anni '60 ed i primi anni '70.
Fu solo allora
che preoccupazioni e interessi eterogenei precipitarono insieme per costituire
una nuova area del discorso e del conflitto politico e
sociale, diventando componenti nella costruzione di un campo nuovo e fluido
della politica statuale, avente come oggetto l'ambiente, concetto peraltro non
univoco, e sempre più identificabile con particolari apparati, riferimenti
normativi e tecniche gestionali (1). Come la politica economica, qualcosa di
molto diverso dalle funzioni economiche dello Stato liberale, nacque negli anni
della Grande Depressione, così anche la nascita della politica ambientale va
collocata in una condizione critica.
Erano, quelli,
gli anni della crisi acuta del
«modello di sviluppo» costruito nel secondo dopoguerra. La conflittualità
operaia poneva in discussione non solo i termini della distribuzione del reddito ma anche la nocività del capitale, che si trattasse dei ritmi di
produzione o di processi produttivi pericolosi ed inquinanti. E nuovi movimenti
sociali criticavano i caratteri fondamentali del neocapitalismo, spesso rielaborati e
trasfigurati nella forma della critica della società dei consumi. Per alcune
aree culturali e di movimento l'elaborazione della natura come valore si
prestava alla universalizzazione della lotta per la rifondazione radicale della
totalità sociale e dei suoi valori costitutivi: da qui la posizione dominante
attribuita alla dimensione etico-culturale nella formazione dell'identità e
nell'agire personale e collettivo, assunta dalla sociologia come principale,
quando non esclusivo, fattore esplicativo della genesi e della dinamica dei
nuovi movimenti sociali.
Le tendenze di
crisi endogene ai paesi a capitalismo avanzato vennero aggravate
dall'intensificarsi delle lotte di liberazione nazionale e sociale in ciò che
rimaneva degli imperi coloniali e in molti paesi soggetti allo sfruttamento
neocoloniale. In quel quadro, lo spettacolare rialzo dei prezzi del petrolio fu tra i
fattori decisivi della diffusione nell'establishment accademico e politico
dell'interesse per l'«economia delle risorse naturali». Lo spettro della
scarsità delle risorse non rinnovabili entrò nella giustificazione delle misure
di austerità economica e nel dibattito scientifico: il Rapporto del Mit al Club
di Roma sui Limiti allo sviluppo era
stato appena pubblicato (2). Criticato aspramente dagli ottimisti inguaribili,
convinti dell'infinita sostituibilità delle risorse naturali con la tecnologia,
ma anche, con diversi e più validi argomenti, dalla nuova sinistra del tempo,
quel Rapporto era esplosivo proprio perché la fede nella crescita illimitata
veniva messa in discussione non da un manipolo di figli dei fiori ma da uno dei
santuari della tecnocrazia mondiale. Il fallimento della teoria economica e
della politica economica «keynesiana» iniziò ad essere riconosciuto anche come
fallimento ecologico e, per di più, come un fallimento globale, su una scala
superiore a quella dei singoli Stati nazionali. Joan Robinson scrisse che la
teoria economica era di fronte alla sua seconda crisi, dopo quella della Grande
Depressione: e questa volta ai problemi della disoccupazione e della
distribuzione del reddito si affiancavano
quelli dei contenuti dell'occupazione, del cosa produrre e dei
costi dell'inquinamento (3).
I costi
ambientali della lunga crescita postbellica, palesi nell'inquinamento e nella
congestione delle città, vennero denunciati da giornalisti e studiosi
coraggiosi, mentre diversi gravi incidenti divenivano emblemi dei rischi
dell'industrialismo. L'industria culturale trovò nel «naturale» e nelle minacce
derivanti dalla sua alterazione un interessante filone da sfruttare,
prestandosi questo anche alla rielaborazione ideologica della crisi
politico-sociale.
Preoccupazioni
di carattere strategico assunsero sfumature ecologiche: ad esempio quelle circa
il controllo delle riserve di energia o di risorse strategiche «libere» nei
mari; e nel 1974 la Central intelligence agency
prevedeva che il raffreddamento dell'atmosfera sarebbe stato nefasto per
la produzione agricola sovietica, cinese e dell'irrequieto Terzo mondo, ma provvidenziale
per rafforzare la posizione strategica statunitense e confermare una posizione
egemonica scricchiolante (4).
All'origine
della problematica dell'ambiente si trova dunque una complessa costellazione di
spinte la cui forma si intuisce mettendosi nella prospettiva della crisi e del conflitto.
Fu grazie alle
lotte sociali che le contraddizioni dello sviluppo capitalistico postbellico
assunsero carattere esplosivo e che la questione del rapporto tra società e natura entrò con
forza nel discorso politico, diventando il campo di una lunga battaglia tra la
regolamentazione funzionale al sistema e bisogni anti-sistemici (5). Il circolo
fra società e natura è stato problematizzato senza per questo essere chiuso: e
se così fosse, nel contesto attuale, la chiusura corrisponderebbe alla
subordinazione del circolo alla riproduzione
complessiva del
sistema. Tenere politicamente aperta la questione del
rapporto tra società e natura significa, allora, negare sia la naturalità di un
sistema la cui dinamica è quella dell'accumulazione del capitale, sia la presunta neutralità
tecnica delle politiche ambientali.
Si può
obiettare che l'equilibrio naturale è un valore universale e che i problemi
ecologici coinvolgono gli individui indipendentemente dalla loro appartenenza
di classe, ragion per cui, mentre «il legame associativo che unisce i
lavoratori nel movimento operaio poggia su un rapporto sociale specifico,
oggettivamente condiviso», i militanti ecologisti «non condividono alcun tipo
di rapporto sociale in cui siano preliminarmente collocati assieme
all'avversario, anzi essi sono accomunati da un non-rapporto» (6).
Questa tesi
svaluta la complessità della storia del movimento operaio, riducendolo a
movimento puramente trade-unionista, sottovaluta la varietà dei fattori
culturali operanti, nel bene e nel male, nella formazione della coscienza di
classe, tra cui importanti, a volte decisivi, sono anche quelli esterni alla
fabbrica (di tipo ambientale e locale); e ignora, perché non può renderne
conto, gli slanci ideali universalistici, libertari, internazionalisti ed
antimilitaristi del movimento socialista, di cui si possono mettere in evidenza
i limiti ma che sono una realtà storica dei momenti più alti della lotta di
classe. Dall'altra essa è curiosamente vicina alle ragioni per cui le
organizzazioni di stampo operaista della nuova sinistra (che riducevano il
capitalismo alla fabbrica ed all'organizzazione del lavoro: idea, quest'ultima, tutt'altro
che obsoleta) diffidavano dei nuovi movimenti etichettandoli come «piccolo
borghesi». Si tratta di punti di vista che, nel loro empirismo, sottovalutano
gli impatti socialmente differenziati e la selettività spaziale e sociale di
fenomeni di degrado ambientale, e negano a priori la possibilità di
contraddizioni sistemiche, risultanti dalla sinergia di più rapporti ed
istituzioni sociali. Contraddizioni che rimandano all'unità strutturale di
sfere solo relativamente autonome e che, per questo motivo, si possono
esprimere in movimenti anticapitalistici su terreni diversi dalla produzione e
in luoghi diversi dalla fabbrica, presentando proprie specifiche forme di
coscienza e identità culturali.
Consideriamo,
come prima approssimazione alla questione, i movimenti sociali urbani, che sono
stati il terreno sociale della componente più di sinistra degli «alternativi»
tedeschi.
Per Manuel
Castells essi sono il prodotto di due contraddizioni: la prima è quella tra i
bisogni collettivi della riproduzione della forza lavoro e la promozione
capitalistica del consumo individuale; la seconda contraddizione scaturisce
dalla necessità della gestione collettiva dell'organizzazione urbana da una
parte e, dall'altra, dall'appropriazione privata delle condizioni di
riproduzione dell'urbano, dallo «scarto esistente tra la globalità dei problemi
e le unità di gestione amministrativa». La regolazione di queste contraddizioni
richiede l'intervento dello Stato e quindi la politicizzazione delle lotte: «lo
Stato gioca il ruolo di autentico "amministratore" della vita
quotidiana delle masse e, con la copertura dell' "organizzazione dello
spazio", si occupa in realtà della predeterminazione della vita» (7).
In termini più
ampi, meno schematicamente legati alla dicotomia produzione-consumo e alla
riproduzione della forza lavoro, tutti i nuovi movimenti sociali esprimono,
ciascuno in modo specifico, una contraddizione sistemica del capitalismo (e che
spiega la tendenza all'ibridazione tra ecologismo, femminismo e pacifismo): la
contraddizione tra il carattere sempre più «socializzato» delle condizioni
della riproduzione sociale e la loro gestione monopolizzata da apparati
economici e politici (pubblici e privati) sottratti al controllo sociale.
I movimenti sui
problemi ecologici si collocano quindi nell'intersezione tra dinamica
dell'accumulazione, tipo di sviluppo delle forze di produzione, modi e campi
della regolazione politica e rapporto con le condizioni materiali ed ideali di
riproduzione della vita: essi sono frutto del complesso dei rapporti di classe
che presiedono alla forma storica del capitalismo come totalità sociale ed
esprimono le tendenze di crisi sistemiche inerenti all'articolazione, in tutte
le sue dimensioni, del ricambio organico tra società (capitalistica) e natura.
È la percezione
dell'unità sistemica che può portare i movimenti ambientalisti a contestare,
nello stesso tempo, tanto i criteri della giustizia sociale quanto i rischi e
l'incertezza delle condizioni di vita prodotti «arficialmente» dalle due
istituzioni fondamentali della modernizzazione borghese: l'impresa privata e lo
Stato.
Ed è anche per
questo che tra le lotte ambientali e le lotte antimilitariste (se non
antimperialiste) esiste una dialettica: l'incertezza massima è infatti quella
derivante dalla guerra e dal possibile uso delle armi nucleari, sintesi della
sovranità statale sulla vita dei cittadini e sulla biosfera. Non a caso i
momenti più alti della tensione politica dei movimenti ambientali si sono
verificati nelle lotte contro le centrali nucleari ed i depositi di scorie
radioattive, negli anni '70 e nei primi anni '80; e tra queste e l'opposizione
al dispiegamento degli euromissili si coglie una continuità. Tra le motivazioni
di quelle lotte non era secondaria la constatazione che una politica energetica
centrata sul nucleare, oltre ad essere connessa con le armi di distruzione di
massa, richiedesse più estese e intense attività di «comando e controllo»
poliziesco e militare sulla popolazione: lo «Stato atomico», si diceva. E
infatti, contro quelle lotte furono realizzati alcuni tra i più massicci e duri
spiegamenti repressivi del dopoguerra, come si
è visto anche recentemente, prima durante i test nucleari francesi a Mururoa e
poi in Germania, in occasione del
trasporto delle scorie radioattive fino al deposito di Gorleben.
I problemi
ecologici derivano la loro complessità dalla contraddittorietà
multidimensionale della mediazione tra società e natura, quale risulta dalla
contraddittorietà del
sociale: questa complessità ne fa un condensato delle contraddizioni della
modernità ma è anche il motivo della difficoltà, per la soggettività
ambientalista, di mediare le problematiche ecologiche con l'insieme dei
rapporti sociali e di potere che le costituiscono. Le difficoltà aumentano
anche perché né l'oppressione delle donne né i problemi ecologici nascono con
il capitalismo e non è detto che debbano scomparire con esso. È anche per
questo che i movimenti femministi o ambientalisti hanno e devono avere una loro
autonomia, irriducibile alla «politica di classe» tout court; ma le forme
storicamente determinate delle contraddizioni a cui si riferiscono sono poste
dal capitalismo, nel cui progresso si riproducono su scala allargata lo
sfruttamento dell'uomo sull'uomo, l'oppressione delle donne e la predazione
della natura. Quando la coscienza si ferma alla critica della fenomenologia, le
cause delle contraddizioni possono essere trasfigurate o spostate nella forma
della critica della tecnologia e del predominio del mercato (non del
capitalismo) e/o della critica dei valori «occidentali» e dell'iniquità degli
scambi commerciali (non dell'imperialismo); ne può risultare una grande
narrazione, drammatica ma interclassista, dell'emancipazione della Terra, una
filosofia sociale che si legittima mediante il riferimento ad una scienza della
natura.
Stretta tra il
realismo pragmatico e il volontarismo etico-politico, o tra programma minimo e
programma massimo, per usare una vecchia terminologia, l'ecologia politica ha
difficoltà a costruire un ponte programmatico, orientato alla e dalla
mobilitazione sociale, tra le lotte parziali e la condizione per costruire una
società socialmente ed ecologicamente razionale: ponte con obiettivo la rottura
del potere esercitato dagli apparati economici e politici sulla totalità
sociale. Sulla questione del
potere l'ecologismo si è fatto sempre più ambiguo (8) e su questo si misura
politicamente il suo carattere realmente alternativo rispetto all'esistente.
Concordo quindi con quanto scrive John Dryzek:
«Sia gli
economisti che gli ecologisti hanno dello Stato una visione semplicistica, la
quale contrasta nettamente con la sottigliezza delle analisi dei sistemi che
sono al centro dei loro studi, ossia i mercati per gli uni e gli ecosistemi per
gli altri» (9).
La quasi
totalità dell'elaborazione politica ecologista ed ecosocialista si risolve in diverse
combinazioni della linea della democratizzazione dello Stato capitalista, quasi
esso fosse uno strumento plasmabile da una volontà politica «alternativa», e
della linea dell'autonomo sviluppo della società civile e di forme sociali
alternative, che possono intendersi, ad un tempo, sia come momenti di
costruzione della società futura sia come mezzi per influenzare l'opinione
pubblica e quindi la stessa azione dei poteri politici ed economici (10).
Nessun
movimento sociale può essere vitale se non riesce a strappare attraverso la
lotta conquiste importanti e se non riesce a prefigurare nella propria pratica
interna o in esperimenti sociali alternativi la propria idea di società: ma la
storia del movimento cooperativo potrebbe mettere in guardia da certe illusioni
e da certi pericoli di degenerazione, e suggerire qualche misura preventiva
(11). E dalla storia dei diritti economico-sociali e delle politiche
«keynesiane» si può ricavare la lezione che, se è vero che le istituzioni, le
normative e le politiche condensano rapporti di forza e compromessi sociali,
ciò avviene tuttavia entro limiti strutturali, la cui variazione è quella della
riproduzione-trasformazione del sistema attraverso lo spostamento nel tempo e
nello spazio dei problemi e dei costi sociali e ambientali. Quando la
congiuntura muta, se le conquiste non sono cancellate, si trasformano in
fattore di modernizzazione, di approfondimento dei rapporti capitalistici e di
estensione delle funzioni e dei poteri dello Stato capitalista: Casi classici
la riduzione dell'orario di lavoro e il sostegno della domanda.
Tanto le
pratiche «realistiche» orientate alla responsabile collaborazione politica e
governativa, o al lobbying, quanto quelle «alternative», sottovalutano i limiti
strutturali che i sistemi politici e la forma Stato oppongono sia alla
giustizia sociale che ad un rapporto razionale con la natura. Un aspetto comune
a queste posizioni è l'assenza di una concettualizzazione teorica e realistica
della struttura dei sistemi politici, delle funzioni dell'amministrazione dello
Stato contemporaneo, della forma dello Stato territoriale (o «nazionale») nel
quadro del
sistema mondiale capitalistico.
Più che
analizzare il teatro politico o la storia dei partiti verdi, nelle pagine
seguenti intendo trattare dei limiti intrinseci alla politica ambientale e
degli ostacoli posti dallo Stato capitalista alla razionalità ecologica (12).
Con essi deve confrontarsi qualsiasi volontà politica che intenda saldare la
resistenza quotidiana e le lotte parziali alla prospettiva della razionalità
complessiva del
rapporto tra società e natura (13).
Lo
Stato come limite alla razionalità ecologica
Oggetto della
politica ambientale sono i rapporti sociali e solo di conseguenza gli effetti
dell'attività umana sull'ambiente: essa non è più naturale della politica
fiscale o monetaria, con cui deve fare i conti. Non deve quindi stupire il
fatto che l'oggetto della politica ambientale,
«l'ambiente,
come valore da tutelare, viene descritto con ambiguità e imprecisione terminologiche
e concettuali che corrispondono non soltanto a "incertezze
tecnico-scientifiche", ma anche alla molteplicità degli interessi
coinvolti. L'inevitabile soggettività delle valutazioni implica la possibilità
di individuare soluzioni notevolmente differenziate nella definizione dei vari
tipi di ambiente, dei vari tipi di relazione in cui l'ambiente si pone con la
natura e con l'uomo, e quindi dei vari modi di definizione delle norme per la
sua tutela» (14).
Una
considerazione connessa alla precedente è che
«Nell'ecosistema
non c'è né centro né periferia, ma solo una rete di relazioni orizzontali.
L'ambiente, invece, si definisce in relazione ad un centro che circonda
l'individuo, che lo alimenta, e persino che lo definisce, ma in ogni caso si
distingue da esso ed è in funzione di esso. Ridurre la natura ad ambiente
dell'uomo significa non abbandonare una posizione fortemente antropocentrica»
(15).
All'antropocentrismo
dobbiamo dare un significato meno filosofico e più storico. Non si tratta di
contrapporre ad esso una concezione filosoficamente ed eticamente ecocentrica,
che nelle versioni forti è aporetica e suscettibile di legittimare prospettive
autoritarie, ma di capire che questo antropocentrismo, quello del capitale e
dell'azione statale, consegue da una struttura sociale la cui intrinseca
contraddittorietà si esprime anche come contraddittorietà degli interessi
oggettivi e dei «progetti» soggettivi che si costituiscono nel rapporto con la
natura.
Come tutte le
politiche statali la politica ambientale svolge nello stesso tempo più
funzioni. La funzione simbolico-ideologica ha in questo campo un ruolo forse
maggiore che in altri, mentre gli strumenti più originali prodotti dalla
politica ambientale sono di carattere procedurale: quelli con cui vengono
organizzati i compromessi (ad es. tra livelli istituzionali ed organi dello
Stato: il «concerto») e viene istituzionalizzato il conflitto tra valori ed
interessi sociali contrapposti. E' quanto si vede, ad esempio, nell'enfasi
posta sulle campagne rivolte al pubblico, sul diritto di informazione e,
specialmente, nella consultazione prevista dalle procedure di valutazione
dell'impatto ambientale. Si può allora dire che compito primario della politica
ambientale sia mediare interessi e valori sociali diversi, il che non significa
loro conciliazione reale.
Credo che
questo sia particolarmente evidente, e grave, nella regolamentazione degli
ambienti di lavoro. Considerando le sostanze inquinanti, l'ineguale mediazione
degli interessi contrapposti della salute dei lavoratori e della redditività
del capitale si concretizza intorno a questioni quali l'esistenza o meno di
standards e per quante e quali sostanze, il livello al quale sono fissati, i
modi della misurazione, la frequenza dei controlli, le disposizioni e le
responsabilità circa la protezione dei lavoratori e della cittadinanza, le
sanzioni, la possibilità di deroghe (16). La salubrità degli ambienti di
lavoro, che non si riduce all'inquinamento ma comprende l'insieme delle
condizioni tecnico-organizzative, è qualitativamente il termometro delle reali
possibilità della razionalità ecologica globale di una società. Mi sembra
difficile immaginare una trasformazione radicale del
rapporto con la natura e una società che minimizzi l'inquinamento senza l'attribuzione
a chi lavora del
potere di decidere il cosa ed il come viene prodotto. Diciamo che si tratta di
una condizione microeconomica non sufficiente ma indispensabile della
razionalità ecologica macrosociale.
L'ambiente è uno solo nelle affermazioni di
principio, troppo ampie e generiche per dar luogo direttamente a diritti e
obblighi specifici che si determinano in rapporto a situazioni ed a campi
particolari, esposti al mutare delle contingenze. In pratica, oggetto della
politica statale sono solo porzioni di realtà e specifiche attività,
regolamentate da provvedimenti particolari. Nel discorso politico è
sistematicamente occultato il fatto che «nell'organizzazione delle politiche,
non è possibile parlare al singolare di "politica dell'ambiente" come
si parla di politica culturale o dell'occupazione. Non si tratta in effetti di
vere politiche settoriali autonome, ma piuttosto di dimensioni interne ad altre
politiche settoriali» (17). Nella pratica esiste un tensione insuperabile fra
la globalità e complessità della gestione ambientale e la sua
settorializzazione.
Da qui anche
l'incertezza sullo status reale di questa politica e dei ministeri per
l'ambiente: centri di riferimento di un interesse particolare ma, nello stesso
tempo, di una questione macroscopica e non scorporabile da alcuna attività
umana. Giuridicamente questa contraddizione è assorbita nella concertazione e
nella fattispecie degli «interessi diffusi». Tuttavia, il rapporto con la
natura si costituisce come un interesse particolare e da valutare in casi
particolari, piuttosto che essere incluso a monte nella gestione sociale o come
interesse guida del sistema (quale è il saggio di profitto in una società
capitaistica come la nostra), a causa, innanzitutto, della particolare
razionalità economica della struttura sociale complessiva. A questo né
l'ingegneria istituzionale né la normazione possono rimediare: al più possono
incorporare la contraddizione nella loro logica interna e nelle oscillazioni e
stratificazioni in cui essa si attua.
Nell'analisi
politologica il carattere artificiale, frammentato, mediatorio, complesso e
diversificato della politica degli ambienti, al contrario di quanto accade
nella retorica politica, è normalmente riconosciuto. Emilio Gerelli, economista
da tempo sostenitore della compatibilità tra mercato e ambiente, non ha
difficoltà a riconoscere che «è senso comune che l'integrazione ambientale
richieda un quid pro quo: per renderla politicamente accettabile bisogna anche
considerare i vincoli dei ministeri di settore» (18). In quel «politicamente
accettabile» il realismo dell'economista esprime di fatto non solo la
necessaria mediazione tra le politiche dei vari ministeri ma, a ben guardare,
la subordinazione delle politiche ambientali alla logica complessiva della riproduzione
capitalistica, più o meno «ben temperata».
In un'ottica
riformatrice, i conflitti di competenza tra livelli istituzionali ed apparati,
i contrasti dovuti alle diverse finalità delle amministrazioni e ai diversi
gruppi di interesse e problemi sociali di riferimento, la varietà e
contraddittorietà delle interpretazioni, l'inerzia applicativa, il ritardo nel
recepire le direttive, possono apparire come disfunzioni, effetti dovuti a
carenze della razionalità amministrativa e della cultura di governo. Senza
dubbio la segmentazione funzionale e territoriale degli apparati e delle
competenze, insieme alla genesi degli stessi ed alle caratteristiche del personale (da cui
possono derivare punti di vista diversi sugli ambienti e modi diversi di
rapportarsi agli interessi), sono aspetti importanti quanto il contenuto
formale della regolamentazione. Mentre lo schema della retorica politica, sia
di destra che di sinistra, segue un percorso lineare, dal problema alla
soluzione, dalla decisione legislativa alla sua esecuzione, l'analisi
politologica evidenzia, invece, che tanto nella fase di formulazione che di
attuazione gli attori politici non detengono l'esclusività dell'azione, che i
diversi organi dello Stato non sono meri esecutori passivi e che i problemi o
le forme dell'attuazione possono retroagire portando alla riformulazione della
normativa. Ed è noto che apparati e uomini dell'amministrazione statale possono
durare più a lungo delle maggioranze parlamentari e perfino dei regimi
politici: possono sopravvivere anche a una guerra mondiale e a una
Resistenza.
Per definire i
limiti della regolazione statale ed i suoi fattori di crisi non ci si può
limitare a biasimare le «disfunzioni» istituzionali, né è sufficiente criticare
l'esclusione dal calcolo economico e dalla contabilità nazionale delle
esternalità negative e del degrado delle risorse naturali (dell'entropia
dell'energia e della materia), o l'attendibilità dei prezzi di mercato come
segnali della scarsità e del degrado ambientale complessivo.
Porre la
questione solo in questi termini significa mettersi nell'ottica della
«correzione delle imperfezioni del mercato» e
della trasformazione della mentalità imprenditoriale e della élite politica,
oppure della limitazione del
mercato mediante la regolazione istituzionale e/o la pressione dal basso. Né si
può semplicemente affermare che il carattere capitalistico della politica
ambientale dipenda in qualsiasi caso dall'influenza dei capitali individuali e
dei settori interessati sui suoi contenuti: il compromesso è la norma ma, o per
la gravità dei fenomeni o per la forza delle lotte o dell'opinione pubblica,
l'intervento statale può forzare o danneggiare particolari capitali ed
interessi. Se si trattasse solo di questo allora sarebbe ragionevole pensare di
compensare, o anche di sostituire del
tutto, un'influenza con un'altra: per via parlamentare o con il lobbying,
dall'interno o dall'esterno dello Stato. Si tratta, in fondo, di posizioni
economicistiche, per nulla antitetiche al volontarismo politico ed all'idealismo.
I contenuti delle politiche ambientali sono l'oggetto diretto del
dibattito e del conflitto politico e sociale;
ma sul piano strategico ed ideale si tratta di capire come le politiche
ambientali funzionino nella riproduzione complessiva del capitalismo e di mettere in discussione
il concetto stesso di politica ambientale (19).
Note
1) Se si
assumono gli Stati Uniti come termine di riferimento si può datare l'emergere
della politica dell'ambiente come campo specifico dell'azione statale al 1969-1970.
Con l'approvazione del
National Environment Policy Act da parte del Congresso degli Stati Uniti, la
costituzione del Council on Environmental Quality e della Environmental
Protection Agency, e con le normative seguenti, la protezione e la qualità
dell'ambiente diventavano oggetto della politica federale acquistando con ciò
una rilevanza qualitativamente nuova.
2) The limits to growth. A report for the Club
of Rome's projects on the predicament of Mankind, di Dennis Meadows ed
altri, venne pubblicato a New York nel 1972 e tradotto in italiano nello stesso
anno.
3) Si veda di
Joan Robinson «La seconda crisi della teoria economica», tradotto in Il disagio degli economisti, a cura di
Riccardo Fiorito, Firenze, La Nuova Italia, 1976, ma pubblicato per la prima volta sulla American
economic review nel maggio 1972.
4) Central intelligence agency, Potential implications of trends in world population, food production
and climate, agosto 1974, citato da Sophie Bessis in L'arme alimentaire, Paris, La Découverte, 1985, pp. 243-244.
5) «I problemi
ecologici sono problemi sociali, non problemi scientifici; cercare di trovare
una soluzione soddisfacente vuol dire risolvere un pacchetto di problemi di
diversa natura: scientifica, tecnologica, economica, morale, politica,
amministrativa», John Passmore, La nostra
responsabilità per la natura, Milano, Feltrinelli, 1986, p. 67.
6) Da «Le basi
sociali e morali dell'ecologia politica» di Paolo Ceri in Ecologia politica, Milano, Feltrinelli, 1987, p. 105, a cura di Ceri.
7) Manuel
Castells, Lotte urbane, Venezia,
Marsilio, 1975, p. 19. Si veda anche La
questione urbana, Venezia, Marsilio, 1974; e con E. Cherki, F. Godard, D.
Mehl, Movimenti sociali urbani,
Milano, Feltrinelli, 1977.
8) Si veda per
esempio la ricostruzione delle posizioni dell'ecologismo francese di Guillaume
Sainteny, «La question du pouvoir d'état chez les écologistes», in Le defi ecologiste, Paris , L'Harmattan, 1993, a cura di Marc
Abélès.
9) John Dryzek,
La razionalità ecologica. La società di
fronte alle crisi ambientali, Ancona, Otium Edizioni, 1987, p. 99, prima
edizione Oxford, Basil Blackwell, 1987; si veda anche «Ecology and discursive
democracy: beyond liberal capitalism and the administrative state», in Capitalism, nature and socialism n. 2,
1991, pubblicato anche in The politics of
the environment, Edward Elgar, 1994, a cura di C. Goodin.
10) Un esempio
piccolo ma significativo: «Mentre lo Stato capitalistico è strutturato in modo
da impedire una vasta riforma economica ed ambientale, come Noble e Wooding
hanno lucidamente espresso, lo Stato pluralista nella società capitalistica può
essere ed è stato utilizzato per ostacolare l'accumulazione capitalistica. Lo
Stato può essere paragonato ad un campo di battaglia pratico e discorsivo in cui
il capitale sta nella parte più alta. Ma le lotte all'interno e contro lo Stato
sono possibili ed è anche possibile vincere queste battaglie se le condizioni
sono favorevoli», da Il movimento
ambientalista negli Stati Uniti, Roma, Datanews, 1990, p. 63, di James
O'Connor e Daniel Faber. Ineccepibile l'ultimo concetto. Tuttavia, nella
società borghese lo Stato è sempre capitalista; in alcune, limitate, aree del
mondo, e da non moltissimo tempo, è più «flessibile» e «pluralista» che in
altre, perché può permetterselo. Le lotte sociali ostacolano l'accumulazione
capitalistica, mentre lo Stato fa del
suo meglio per garantirla, e non necessariamente perché dei capitalisti siedono
nella sua parte più alta. Quando un vero capitalista sfrutta sfacciatamente il
suo successo sociale e le sue risorse per fini politici e arriva a presiedere
il governo non è che il sistema abbia raggiunto una sua purezza. In breve,
direi piuttosto che «c'è del
marcio».
11) Marx
attribuiva grande valore dimostrativo e sperimentale al movimento cooperativo,
ma ne riconosceva sia il carattere di autosfruttamento dei cooperanti nel
quadro della società borghese, sia i limiti nel conseguire una trasformazione
radicale della società ed i pericoli in esso impliciti qualora fosse diventato
un surrogato della conquista del potere politico.
12) Dryzek ha
analizzato i meccanismi di scelta sociale mediante cinque criteri costitutivi
della razionalità ecologica: retroazione negativa, coordinazione, flessibilità
e/o robustezza, resilienza. La retroazione negativa è la capacità dei sistemi
sociali e naturali di affrontare i problemi ecologici, caratterizzati da
complessità, non riducibilità, variabilità nel tempo e nello spazio,
incertezza, coinvolgimento degli interessi dell'intera collettività, spontaneità.
La coordinazione interessa le decisioni dei singoli agenti, la flessibilità è
intesa come la capacità di adeguare le strutture alle mutevoli esigenze, la
robustezza riguarda il livello delle prestazioni in circostanze diverse, la
resilienza la capacità di correggere gravi squilibri. Saranno privilegiati
retroazione negativa e coordinazione in quanto «queste due, unite alla
robustezza o flessibilità, sono condizioni sufficienti, a meno che non si parta
da una situazione di completo squilibrio, nel qual caso occorre poter contare
anche sulla resilienza». I movimenti ponevano l'esigenza di forme sociali
capaci di retroazione negativa, flessibilità e resilienza, mentre la robustezza
era ignorata o sottovalutata e la questione cruciale della coordinazione affidata
semplicisticamente alla «bontà» dell'autogestione o, per i socialisti, della
pianificazione.
13) Devo dare
per scontato la tesi per cui, grazie anche all'indebolimento della distinzione
destra/sinistra, il principio della «rappresentatività» degli interessi reali
della massa dei
cittadini tende sempre più ad essere un espediente retorico variamente
pubblicizzato sul mercato politico. Robert Dahl, uno dei più importanti teorici
della democrazia pluralista, riconosce realisticamente che nei nostri sistemi
politici poliarchici «la partecipazione al governo non può essere
particolarmente diffusa, ed il cittadino medio non può avere molta influenza su
di esso» (La democrazia e i suoi critici,
Roma, Editori Riuniti, 1990, p. 19). E Danilo Zolo si spinge oltre criticando
la dottrina neoclassica del mercato politico perché essa, non cogliendo la
logica sistemica delle società complesse, resta ancora interna all'orizzonte
rappresentativo: ragion per cui «nel funzionamento effettivo dei sistemi che
chiamiamo democratici praticamente nulla sembra corrispondere a ciò che la
teoria politica - e il linguaggio dei politici, dei giornalisti e in generale
della comunicazione multimediale - presume o tenta di evocare con termini come
"sovranità popolare", "partecipazione",
"rappresentanza", "opinione pubblica",
"consenso", "eguaglianza"», da Il principato democratico. Per una teoria realistica della democrazia,
Milano, Feltrinelli, 1992, p. 210. Si può criticare Zolo perché sottovaluta il
problema della mediazione con le classi dominate in situazioni di crisi del sistema e sopravvaluta l'autoreferenzialità del sistema politico, ma nel complesso ritengo che la sua
analisi evidenzi correttamente le tendenze «spontanee» del sistema politico-amministrativo.
In questa sede si
discute delle liberaldemocrazie dei paesi a capitalismo avanzato e non dei
socialismi di Stato. Ma il discorso intorno al rapporto fra democrazia e
regolazione del
ricambio organico tra società e naturain linea di principio è fondamentalmente
lo stesso per entrambi i sistemi sociali. A proposito del
partito verde tedesco si è scritto della «dicotomia onnipresente ed essenziale
che esiste tra la logica liberatrice del
pensiero del '68 e la logica restrittiva del conservatorismo dei
valori. I temi verdi hanno subito degli effetti di sintesi tra le due logiche.
Gli effetti di sintesi sono anche degli effetti di disintegrazione» (Les Verts allemands. Un conservatisme
alternatif, Paris, L'Harmattan, 1993, p. 165). La storia del come si è giunti a quella sintesi e dei
diversi modi in cui si articola l'azione istituzionale e di base potrebbe
essere la chiave di lettura per l'analisi comparata dell'ambientalismo nei
singoli Stati. Una considerazione generale è però possibile: i successi
elettorali dei partiti verdi hanno contribuito a porre le questioni ambientali
nell'agenda politica, ma della spinta antisistemica dei movimenti non si
trovano ormai che tracce nella solidarietà internazionale con gli oppressi,
nell'antirazzismo e nell'antimilitarismo, nell'idea di una «rivoluzione» dei
valori sociali e nel progetto di ristrutturazione ed «espansione» della società
civile in senso ecologico.
14) Stefano
Grassi, «Costituzioni e tutela dell'ambiente», in Costituzioni razionalità ambiente, Torino ,
Bollati Boringhieri, 1994, p. 397,
a cura di Sergio Scamuzzi.
15) Francesco
Viola, Stato e natura, Milano,
Anabasi, 1995, pp. 43-44.
16) Come
analisi esemplare segnalo La sorpresa di
ferragosto. Se lo conosci non ti uccide, manuale critico del decreto
legislativo 277 del 15 agosto 1991 ad uso dei lavoratori, delegate e operatori
della prevenzione, a cura di Fulvio Aurora e Roberto Bianchi di Medicina
Democratica. Il decreto attua direttive Cee «in materia di protezione dei
lavoratori contro i rischi derivanti da esposizioni ad agenti chimici, fisici e
biologici durante il lavoro».
17) Pierre
Lascoumes, L'éco-pouvoir. Environnements
et politiques, Paris, La Découverte, 1994, p. 15, mio corsivo. Concetto
simile in Le politiche ambientali.
Intervento pubblico e regolazione sociale di Gian-Luigi Bulsei, che si
riferisce però all'Italia: «sarebbe forse più corretto parlare di politiche per
l'ambiente. Il plurale è d'obbligo non tanto per ammettere l'esistenza di una
molteplicità di campi e livelli di intervento (varie forme di degrado e impatto
ambientale; attività di prevenzione, risanamento, valorizzazione), quanto
piuttosto per sottolineare il carattere tutto sommato ancora largamente
episodico e frammentato dell'azione pubblica in tale settore»; e poco più
avanti: «permane tuttavia la tendenza a far leva su politiche dimostrative e
simboliche, in cui le esigenze di autoaffermazione organizzativa (degli
apparati amministrativi) e di legittimazione politica (del sistema nel suo
complesso finiscono per prevalere» (Torino, Rosenberg & Sellier, 1990, p.
185). Sulla politica ambientale in Italia si vedano anche i lavori di Rodolfo
Lewanski: «La politica ambientale», in Le
politiche pubbliche in Italia, a cura di Bruno Dente, Bologna, il Mulino,
1990, «Il difficile avvio di una politica ambientale in Italia», in L'industria e l'ambiente, Bologna, Il
Mulino, 1992, a
cura di Bruno Dente e Pippo Ranci, Governare
l’ambiente. Attori e processi della politica ambientale, Bologna , il Mulino, 1997.
18) Emilio
Gerelli, «Strategie per la sostenibilità», in Istituto di Ricerche Ambiente
Italia (a cura di), Ambiente Italia 1996.
Rapporto sullo stato del paese e analisi ambientale delle città e delle regioni
italiane, Milano, Edizioni Ambiente, 1996, p. 34.
19) Ai marxisti
ed agli ecologisti con una forte e rigorosa motivazione etica (e i due punti di
vista possono coincidere) quest'ultimo punto non dovrebbe risultare strano. Per
i primi si tratta di criticare teoricamente l'economia politica e di articolare
politicamente un programma di lotta; una politica economica socialista ha senso
solo in una fase transitoria in cui si tratta di gestire i rapporti mercantili
verso la dissoluzione. I modi della pianificazione democratica in una società
ecologicamente razionale saranno altro, per mezzi e per fini, dalla politica
economica e dalla politica ambientale. La questione non è solo di principio
poiché il fine e la prospettiva possono influire sulla selezione dei contenuti
e la tattica del
presente.