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venerdì 4 luglio 2014

STATO E RAGIONE ECOLOGICA. PER LA CRITICA DELLE POLITICHE AMBIENTALI (I), di Michele Nobile

Prima parte
(pubblicata in Giano. Pace ambiente problemi globali n. 27, settembre-dicembre 1997)
La seconda parte verrà pubblicata prossimamente su questo blog.

Summary
This article deals with the discrepancy that lies in the political practices of social environmental movements, green parties and left-wing organizations, between the minimal programme and partial activism onthe one hand and the maximum programme and the hope for global change on the other.
This situation is partly  due to the lack of any realistic theory behind environmental policy and the State. The political positions adopted in this sphere are generally combinations of the «State to democracy» approach, the pressures it is subject to and the independent initiatives that prefigure the creation of an ecological society.
Both cases skirt the problem of the limitations of an environmental policy as such, and of stateness as the concentration of class power, avoiding thus the question of the limits placed by the capitalist State upon ecological rationality as defined by John Dryzek: negative retroaction, co-ordination, flexibility and/or strenght, resilience.
After looking at the potentially anticapitalist nature of environmental social movements and the origins of environmental politics in the general and multi-dimensional crisis of capitalist society in the late Sixties, early Seventies, the article moves on to make an analytic examination of the intrinsic limits of normative and administrative action in environmental politics.
Well known phenomena such as the divisions within environmental politics, the conflict of autorithy between institutional bodies and apparatus, the contradictions in different interpretations of the laws and implementation, applicative inertia, the gap between planned objectives and the means used to reach them, are not the result of dysfunction, but are axpressions of the limits of the State action in the environmental sphere. Such phenomena do not depend simply upon the influence of interest groups; they are inherent to the «rationale» of administrative activity due to the relative, reciprocal independence of State and economy - a distinctive structural feature of capitalism and the way class power is wielded. Together with the tendency towards global transformation into commodity and the exploitattion of capital, the limits of administrative action stand in the way of ecological rationality and undermine the very foundations of environmental politics.
The condition necessary for an international, ecological rationality is therefore the socialisation and integration of political will and of management of the resources and of the economic apparatus, that is to say, the maximum extension of the democracy in all the spheres and the circles of the social life.


Movimenti sociali e costruzione della politica dell'ambiente

Conflitti, discussioni e normative intorno a questioni che oggi definiremmo ambientali non sono certo novità recente. Gli Stati moderni si sono occupati, prima o poi, dell'igiene e della salute pubblica, dei rischi di determinati impianti industriali, delle acque e delle foreste, della conservazione (e a volte anche dell'«invenzione») del patrimonio naturale, paesaggistico e storico-culturale.
L'intervento degli Stati liberali in questi ed in altri campi non era in contraddizione con il loro ruolo di garanti delle condizioni generali dell'attività economica e dell'addomesticamento della natura, di difensori della proprietà privata e dell'ordine sociale, di promotori e tutori dell'identità nazionale e del patriottismo.
Ma per quanto rilevanti nei loro effetti sull'ambiente sociale e naturale potessero essere gli interventi statali, e per quanto il riferimento al «naturale» come principio morale, declinato nei modi e per i fini più diversi, non sia mai mancato, è un anacronismo parlare di politica dell'ambiente prima del periodo posto tra la metà degli anni '60 ed i primi anni '70.
Fu solo allora che preoccupazioni e interessi eterogenei precipitarono insieme per costituire una nuova area del discorso e del conflitto politico e sociale, diventando componenti nella costruzione di un campo nuovo e fluido della politica statuale, avente come oggetto l'ambiente, concetto peraltro non univoco, e sempre più identificabile con particolari apparati, riferimenti normativi e tecniche gestionali (1). Come la politica economica, qualcosa di molto diverso dalle funzioni economiche dello Stato liberale, nacque negli anni della Grande Depressione, così anche la nascita della politica ambientale va collocata in una condizione critica.
Erano, quelli, gli anni della crisi acuta del «modello di sviluppo» costruito nel secondo dopoguerra. La conflittualità operaia poneva in discussione non solo i termini della distribuzione del reddito ma anche la nocività del capitale, che si trattasse dei ritmi di produzione o di processi produttivi pericolosi ed inquinanti. E nuovi movimenti sociali criticavano i caratteri fondamentali del neocapitalismo, spesso rielaborati e trasfigurati nella forma della critica della società dei consumi. Per alcune aree culturali e di movimento l'elaborazione della natura come valore si prestava alla universalizzazione della lotta per la rifondazione radicale della totalità sociale e dei suoi valori costitutivi: da qui la posizione dominante attribuita alla dimensione etico-culturale nella formazione dell'identità e nell'agire personale e collettivo, assunta dalla sociologia come principale, quando non esclusivo, fattore esplicativo della genesi e della dinamica dei nuovi movimenti sociali.
Le tendenze di crisi endogene ai paesi a capitalismo avanzato vennero aggravate dall'intensificarsi delle lotte di liberazione nazionale e sociale in ciò che rimaneva degli imperi coloniali e in molti paesi soggetti allo sfruttamento neocoloniale. In quel quadro, lo spettacolare rialzo dei prezzi del petrolio fu tra i fattori decisivi della diffusione nell'establishment accademico e politico dell'interesse per l'«economia delle risorse naturali». Lo spettro della scarsità delle risorse non rinnovabili entrò nella giustificazione delle misure di austerità economica e nel dibattito scientifico: il Rapporto del Mit al Club di Roma sui Limiti allo sviluppo era stato appena pubblicato (2). Criticato aspramente dagli ottimisti inguaribili, convinti dell'infinita sostituibilità delle risorse naturali con la tecnologia, ma anche, con diversi e più validi argomenti, dalla nuova sinistra del tempo, quel Rapporto era esplosivo proprio perché la fede nella crescita illimitata veniva messa in discussione non da un manipolo di figli dei fiori ma da uno dei santuari della tecnocrazia mondiale. Il fallimento della teoria economica e della politica economica «keynesiana» iniziò ad essere riconosciuto anche come fallimento ecologico e, per di più, come un fallimento globale, su una scala superiore a quella dei singoli Stati nazionali. Joan Robinson scrisse che la teoria economica era di fronte alla sua seconda crisi, dopo quella della Grande Depressione: e questa volta ai problemi della disoccupazione e della distribuzione del reddito si affiancavano quelli dei  contenuti dell'occupazione, del cosa produrre e dei costi dell'inquinamento (3).
I costi ambientali della lunga crescita postbellica, palesi nell'inquinamento e nella congestione delle città, vennero denunciati da giornalisti e studiosi coraggiosi, mentre diversi gravi incidenti divenivano emblemi dei rischi dell'industrialismo. L'industria culturale trovò nel «naturale» e nelle minacce derivanti dalla sua alterazione un interessante filone da sfruttare, prestandosi questo anche alla rielaborazione ideologica della crisi politico-sociale.
Preoccupazioni di carattere strategico assunsero sfumature ecologiche: ad esempio quelle circa il controllo delle riserve di energia o di risorse strategiche «libere» nei mari; e nel 1974 la Central intelligence agency prevedeva che il raffreddamento dell'atmosfera sarebbe stato nefasto per la produzione agricola sovietica, cinese e dell'irrequieto Terzo mondo, ma provvidenziale per rafforzare la posizione strategica statunitense e confermare una posizione egemonica scricchiolante (4).
All'origine della problematica dell'ambiente si trova dunque una complessa costellazione di spinte la cui forma si intuisce mettendosi nella prospettiva della crisi e del conflitto.
Fu grazie alle lotte sociali che le contraddizioni dello sviluppo capitalistico postbellico assunsero carattere esplosivo e che la questione del rapporto tra società e natura entrò con forza nel discorso politico, diventando il campo di una lunga battaglia tra la regolamentazione funzionale al sistema e bisogni anti-sistemici (5). Il circolo fra società e natura è stato problematizzato senza per questo essere chiuso: e se così fosse, nel contesto attuale, la chiusura corrisponderebbe alla subordinazione del circolo alla riproduzione complessiva del sistema. Tenere politicamente aperta la questione del rapporto tra società e natura significa, allora, negare sia la naturalità di un sistema la cui dinamica è quella dell'accumulazione del capitale, sia la presunta neutralità tecnica delle politiche ambientali.
Si può obiettare che l'equilibrio naturale è un valore universale e che i problemi ecologici coinvolgono gli individui indipendentemente dalla loro appartenenza di classe, ragion per cui, mentre «il legame associativo che unisce i lavoratori nel movimento operaio poggia su un rapporto sociale specifico, oggettivamente condiviso», i militanti ecologisti «non condividono alcun tipo di rapporto sociale in cui siano preliminarmente collocati assieme all'avversario, anzi essi sono accomunati da un non-rapporto» (6). 
Questa tesi svaluta la complessità della storia del movimento operaio, riducendolo a movimento puramente trade-unionista, sottovaluta la varietà dei fattori culturali operanti, nel bene e nel male, nella formazione della coscienza di classe, tra cui importanti, a volte decisivi, sono anche quelli esterni alla fabbrica (di tipo ambientale e locale); e ignora, perché non può renderne conto, gli slanci ideali universalistici, libertari, internazionalisti ed antimilitaristi del movimento socialista, di cui si possono mettere in evidenza i limiti ma che sono una realtà storica dei momenti più alti della lotta di classe. Dall'altra essa è curiosamente vicina alle ragioni per cui le organizzazioni di stampo operaista della nuova sinistra (che riducevano il capitalismo alla fabbrica ed all'organizzazione del lavoro: idea, quest'ultima, tutt'altro che obsoleta) diffidavano dei nuovi movimenti etichettandoli come «piccolo borghesi». Si tratta di punti di vista che, nel loro empirismo, sottovalutano gli impatti socialmente differenziati e la selettività spaziale e sociale di fenomeni di degrado ambientale, e negano a priori la possibilità di contraddizioni sistemiche, risultanti dalla sinergia di più rapporti ed istituzioni sociali. Contraddizioni che rimandano all'unità strutturale di sfere solo relativamente autonome e che, per questo motivo, si possono esprimere in movimenti anticapitalistici su terreni diversi dalla produzione e in luoghi diversi dalla fabbrica, presentando proprie specifiche forme di coscienza e identità culturali.
Consideriamo, come prima approssimazione alla questione, i movimenti sociali urbani, che sono stati il terreno sociale della componente più di sinistra degli «alternativi» tedeschi.
Per Manuel Castells essi sono il prodotto di due contraddizioni: la prima è quella tra i bisogni collettivi della riproduzione della forza lavoro e la promozione capitalistica del consumo individuale; la seconda contraddizione scaturisce dalla necessità della gestione collettiva dell'organizzazione urbana da una parte e, dall'altra, dall'appropriazione privata delle condizioni di riproduzione dell'urbano, dallo «scarto esistente tra la globalità dei problemi e le unità di gestione amministrativa». La regolazione di queste contraddizioni richiede l'intervento dello Stato e quindi la politicizzazione delle lotte: «lo Stato gioca il ruolo di autentico "amministratore" della vita quotidiana delle masse e, con la copertura dell' "organizzazione dello spazio", si occupa in realtà della predeterminazione della vita» (7). 
In termini più ampi, meno schematicamente legati alla dicotomia produzione-consumo e alla riproduzione della forza lavoro, tutti i nuovi movimenti sociali esprimono, ciascuno in modo specifico, una contraddizione sistemica del capitalismo (e che spiega la tendenza all'ibridazione tra ecologismo, femminismo e pacifismo): la contraddizione tra il carattere sempre più «socializzato» delle condizioni della riproduzione sociale e la loro gestione monopolizzata da apparati economici e politici (pubblici e privati) sottratti al controllo sociale.
I movimenti sui problemi ecologici si collocano quindi nell'intersezione tra dinamica dell'accumulazione, tipo di sviluppo delle forze di produzione, modi e campi della regolazione politica e rapporto con le condizioni materiali ed ideali di riproduzione della vita: essi sono frutto del complesso dei rapporti di classe che presiedono alla forma storica del capitalismo come totalità sociale ed esprimono le tendenze di crisi sistemiche inerenti all'articolazione, in tutte le sue dimensioni, del ricambio organico tra società (capitalistica) e natura.
È la percezione dell'unità sistemica che può portare i movimenti ambientalisti a contestare, nello stesso tempo, tanto i criteri della giustizia sociale quanto i rischi e l'incertezza delle condizioni di vita prodotti «arficialmente» dalle due istituzioni fondamentali della modernizzazione borghese: l'impresa privata e lo Stato.
Ed è anche per questo che tra le lotte ambientali e le lotte antimilitariste (se non antimperialiste) esiste una dialettica: l'incertezza massima è infatti quella derivante dalla guerra e dal possibile uso delle armi nucleari, sintesi della sovranità statale sulla vita dei cittadini e sulla biosfera. Non a caso i momenti più alti della tensione politica dei movimenti ambientali si sono verificati nelle lotte contro le centrali nucleari ed i depositi di scorie radioattive, negli anni '70 e nei primi anni '80; e tra queste e l'opposizione al dispiegamento degli euromissili si coglie una continuità. Tra le motivazioni di quelle lotte non era secondaria la constatazione che una politica energetica centrata sul nucleare, oltre ad essere connessa con le armi di distruzione di massa, richiedesse più estese e intense attività di «comando e controllo» poliziesco e militare sulla popolazione: lo «Stato atomico», si diceva. E infatti, contro quelle lotte furono realizzati alcuni tra i più massicci e duri spiegamenti repressivi del dopoguerra, come si è visto anche recentemente, prima durante i test nucleari francesi a Mururoa e poi in Germania, in occasione del trasporto delle scorie radioattive fino al deposito di Gorleben.
I problemi ecologici derivano la loro complessità dalla contraddittorietà multidimensionale della mediazione tra società e natura, quale risulta dalla contraddittorietà del sociale: questa complessità ne fa un condensato delle contraddizioni della modernità ma è anche il motivo della difficoltà, per la soggettività ambientalista, di mediare le problematiche ecologiche con l'insieme dei rapporti sociali e di potere che le costituiscono. Le difficoltà aumentano anche perché né l'oppressione delle donne né i problemi ecologici nascono con il capitalismo e non è detto che debbano scomparire con esso. È anche per questo che i movimenti femministi o ambientalisti hanno e devono avere una loro autonomia, irriducibile alla «politica di classe» tout court; ma le forme storicamente determinate delle contraddizioni a cui si riferiscono sono poste dal capitalismo, nel cui progresso si riproducono su scala allargata lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, l'oppressione delle donne e la predazione della natura. Quando la coscienza si ferma alla critica della fenomenologia, le cause delle contraddizioni possono essere trasfigurate o spostate nella forma della critica della tecnologia e del predominio del mercato (non del capitalismo) e/o della critica dei valori «occidentali» e dell'iniquità degli scambi commerciali (non dell'imperialismo); ne può risultare una grande narrazione, drammatica ma interclassista, dell'emancipazione della Terra, una filosofia sociale che si legittima mediante il riferimento ad una scienza della natura.
Stretta tra il realismo pragmatico e il volontarismo etico-politico, o tra programma minimo e programma massimo, per usare una vecchia terminologia, l'ecologia politica ha difficoltà a costruire un ponte programmatico, orientato alla e dalla mobilitazione sociale, tra le lotte parziali e la condizione per costruire una società socialmente ed ecologicamente razionale: ponte con obiettivo la rottura del potere esercitato dagli apparati economici e politici sulla totalità sociale. Sulla questione del potere l'ecologismo si è fatto sempre più ambiguo (8) e su questo si misura politicamente il suo carattere realmente alternativo rispetto all'esistente. Concordo quindi con quanto scrive John Dryzek:
«Sia gli economisti che gli ecologisti hanno dello Stato una visione semplicistica, la quale contrasta nettamente con la sottigliezza delle analisi dei sistemi che sono al centro dei loro studi, ossia i mercati per gli uni e gli ecosistemi per gli altri» (9).
La quasi totalità dell'elaborazione politica ecologista ed ecosocialista si risolve in diverse combinazioni della linea della democratizzazione dello Stato capitalista, quasi esso fosse uno strumento plasmabile da una volontà politica «alternativa», e della linea dell'autonomo sviluppo della società civile e di forme sociali alternative, che possono intendersi, ad un tempo, sia come momenti di costruzione della società futura sia come mezzi per influenzare l'opinione pubblica e quindi la stessa azione dei poteri politici ed economici (10).
Nessun movimento sociale può essere vitale se non riesce a strappare attraverso la lotta conquiste importanti e se non riesce a prefigurare nella propria pratica interna o in esperimenti sociali alternativi la propria idea di società: ma la storia del movimento cooperativo potrebbe mettere in guardia da certe illusioni e da certi pericoli di degenerazione, e suggerire qualche misura preventiva (11). E dalla storia dei diritti economico-sociali e delle politiche «keynesiane» si può ricavare la lezione che, se è vero che le istituzioni, le normative e le politiche condensano rapporti di forza e compromessi sociali, ciò avviene tuttavia entro limiti strutturali, la cui variazione è quella della riproduzione-trasformazione del sistema attraverso lo spostamento nel tempo e nello spazio dei problemi e dei costi sociali e ambientali. Quando la congiuntura muta, se le conquiste non sono cancellate, si trasformano in fattore di modernizzazione, di approfondimento dei rapporti capitalistici e di estensione delle funzioni e dei poteri dello Stato capitalista: Casi classici la riduzione dell'orario di lavoro e il sostegno della domanda.
Tanto le pratiche «realistiche» orientate alla responsabile collaborazione politica e governativa, o al lobbying, quanto quelle «alternative», sottovalutano i limiti strutturali che i sistemi politici e la forma Stato oppongono sia alla giustizia sociale che ad un rapporto razionale con la natura. Un aspetto comune a queste posizioni è l'assenza di una concettualizzazione teorica e realistica della struttura dei sistemi politici, delle funzioni dell'amministrazione dello Stato contemporaneo, della forma dello Stato territoriale (o «nazionale») nel quadro del sistema mondiale capitalistico.
Più che analizzare il teatro politico o la storia dei partiti verdi, nelle pagine seguenti intendo trattare dei limiti intrinseci alla politica ambientale e degli ostacoli posti dallo Stato capitalista alla razionalità ecologica (12). Con essi deve confrontarsi qualsiasi volontà politica che intenda saldare la resistenza quotidiana e le lotte parziali alla prospettiva della razionalità complessiva del rapporto tra società e natura (13).


Lo Stato come limite alla razionalità ecologica

Oggetto della politica ambientale sono i rapporti sociali e solo di conseguenza gli effetti dell'attività umana sull'ambiente: essa non è più naturale della politica fiscale o monetaria, con cui deve fare i conti. Non deve quindi stupire il fatto che l'oggetto della politica ambientale,
«l'ambiente, come valore da tutelare, viene descritto con ambiguità e imprecisione terminologiche e concettuali che corrispondono non soltanto a "incertezze tecnico-scientifiche", ma anche alla molteplicità degli interessi coinvolti. L'inevitabile soggettività delle valutazioni implica la possibilità di individuare soluzioni notevolmente differenziate nella definizione dei vari tipi di ambiente, dei vari tipi di relazione in cui l'ambiente si pone con la natura e con l'uomo, e quindi dei vari modi di definizione delle norme per la sua tutela» (14).
Una considerazione connessa alla precedente è che
«Nell'ecosistema non c'è né centro né periferia, ma solo una rete di relazioni orizzontali. L'ambiente, invece, si definisce in relazione ad un centro che circonda l'individuo, che lo alimenta, e persino che lo definisce, ma in ogni caso si distingue da esso ed è in funzione di esso. Ridurre la natura ad ambiente dell'uomo significa non abbandonare una posizione fortemente antropocentrica» (15).
All'antropocentrismo dobbiamo dare un significato meno filosofico e più storico. Non si tratta di contrapporre ad esso una concezione filosoficamente ed eticamente ecocentrica, che nelle versioni forti è aporetica e suscettibile di legittimare prospettive autoritarie, ma di capire che questo antropocentrismo, quello del capitale e dell'azione statale, consegue da una struttura sociale la cui intrinseca contraddittorietà si esprime anche come contraddittorietà degli interessi oggettivi e dei «progetti» soggettivi che si costituiscono nel rapporto con la natura.
Come tutte le politiche statali la politica ambientale svolge nello stesso tempo più funzioni. La funzione simbolico-ideologica ha in questo campo un ruolo forse maggiore che in altri, mentre gli strumenti più originali prodotti dalla politica ambientale sono di carattere procedurale: quelli con cui vengono organizzati i compromessi (ad es. tra livelli istituzionali ed organi dello Stato: il «concerto») e viene istituzionalizzato il conflitto tra valori ed interessi sociali contrapposti. E' quanto si vede, ad esempio, nell'enfasi posta sulle campagne rivolte al pubblico, sul diritto di informazione e, specialmente, nella consultazione prevista dalle procedure di valutazione dell'impatto ambientale. Si può allora dire che compito primario della politica ambientale sia mediare interessi e valori sociali diversi, il che non significa loro conciliazione reale.
Credo che questo sia particolarmente evidente, e grave, nella regolamentazione degli ambienti di lavoro. Considerando le sostanze inquinanti, l'ineguale mediazione degli interessi contrapposti della salute dei lavoratori e della redditività del capitale si concretizza intorno a questioni quali l'esistenza o meno di standards e per quante e quali sostanze, il livello al quale sono fissati, i modi della misurazione, la frequenza dei controlli, le disposizioni e le responsabilità circa la protezione dei lavoratori e della cittadinanza, le sanzioni, la possibilità di deroghe (16). La salubrità degli ambienti di lavoro, che non si riduce all'inquinamento ma comprende l'insieme delle condizioni tecnico-organizzative, è qualitativamente il termometro delle reali possibilità della razionalità ecologica globale di una società. Mi sembra difficile immaginare una trasformazione radicale del rapporto con la natura e una società che minimizzi l'inquinamento senza l'attribuzione a chi lavora del potere di decidere il cosa ed il come viene prodotto. Diciamo che si tratta di una condizione microeconomica non sufficiente ma indispensabile della razionalità ecologica macrosociale.  
L'ambiente è uno solo nelle affermazioni di principio, troppo ampie e generiche per dar luogo direttamente a diritti e obblighi specifici che si determinano in rapporto a situazioni ed a campi particolari, esposti al mutare delle contingenze. In pratica, oggetto della politica statale sono solo porzioni di realtà e specifiche attività, regolamentate da provvedimenti particolari. Nel discorso politico è sistematicamente occultato il fatto che «nell'organizzazione delle politiche, non è possibile parlare al singolare di "politica dell'ambiente" come si parla di politica culturale o dell'occupazione. Non si tratta in effetti di vere politiche settoriali autonome, ma piuttosto di dimensioni interne ad altre politiche settoriali» (17). Nella pratica esiste un tensione insuperabile fra la globalità e complessità della gestione ambientale e la sua settorializzazione.
Da qui anche l'incertezza sullo status reale di questa politica e dei ministeri per l'ambiente: centri di riferimento di un interesse particolare ma, nello stesso tempo, di una questione macroscopica e non scorporabile da alcuna attività umana. Giuridicamente questa contraddizione è assorbita nella concertazione e nella fattispecie degli «interessi diffusi». Tuttavia, il rapporto con la natura si costituisce come un interesse particolare e da valutare in casi particolari, piuttosto che essere incluso a monte nella gestione sociale o come interesse guida del sistema (quale è il saggio di profitto in una società capitaistica come la nostra), a causa, innanzitutto, della particolare razionalità economica della struttura sociale complessiva. A questo né l'ingegneria istituzionale né la normazione possono rimediare: al più possono incorporare la contraddizione nella loro logica interna e nelle oscillazioni e stratificazioni in cui essa si attua.
Nell'analisi politologica il carattere artificiale, frammentato, mediatorio, complesso e diversificato della politica degli ambienti, al contrario di quanto accade nella retorica politica, è normalmente riconosciuto. Emilio Gerelli, economista da tempo sostenitore della compatibilità tra mercato e ambiente, non ha difficoltà a riconoscere che «è senso comune che l'integrazione ambientale richieda un quid pro quo: per renderla politicamente accettabile bisogna anche considerare i vincoli dei ministeri di settore» (18). In quel «politicamente accettabile» il realismo dell'economista esprime di fatto non solo la necessaria mediazione tra le politiche dei vari ministeri ma, a ben guardare, la subordinazione delle politiche ambientali alla logica complessiva della riproduzione capitalistica, più o meno «ben temperata».
In un'ottica riformatrice, i conflitti di competenza tra livelli istituzionali ed apparati, i contrasti dovuti alle diverse finalità delle amministrazioni e ai diversi gruppi di interesse e problemi sociali di riferimento, la varietà e contraddittorietà delle interpretazioni, l'inerzia applicativa, il ritardo nel recepire le direttive, possono apparire come disfunzioni, effetti dovuti a carenze della razionalità amministrativa e della cultura di governo. Senza dubbio la segmentazione funzionale e territoriale degli apparati e delle competenze, insieme alla genesi degli stessi ed alle caratteristiche del personale (da cui possono derivare punti di vista diversi sugli ambienti e modi diversi di rapportarsi agli interessi), sono aspetti importanti quanto il contenuto formale della regolamentazione. Mentre lo schema della retorica politica, sia di destra che di sinistra, segue un percorso lineare, dal problema alla soluzione, dalla decisione legislativa alla sua esecuzione, l'analisi politologica evidenzia, invece, che tanto nella fase di formulazione che di attuazione gli attori politici non detengono l'esclusività dell'azione, che i diversi organi dello Stato non sono meri esecutori passivi e che i problemi o le forme dell'attuazione possono retroagire portando alla riformulazione della normativa. Ed è noto che apparati e uomini dell'amministrazione statale possono durare più a lungo delle maggioranze parlamentari e perfino dei regimi politici: possono sopravvivere anche a una guerra mondiale e a una Resistenza. 
Per definire i limiti della regolazione statale ed i suoi fattori di crisi non ci si può limitare a biasimare le «disfunzioni» istituzionali, né è sufficiente criticare l'esclusione dal calcolo economico e dalla contabilità nazionale delle esternalità negative e del degrado delle risorse naturali (dell'entropia dell'energia e della materia), o l'attendibilità dei prezzi di mercato come segnali della scarsità e del degrado ambientale complessivo.
Porre la questione solo in questi termini significa mettersi nell'ottica della «correzione delle imperfezioni del mercato» e della trasformazione della mentalità imprenditoriale e della élite politica, oppure della limitazione del mercato mediante la regolazione istituzionale e/o la pressione dal basso. Né si può semplicemente affermare che il carattere capitalistico della politica ambientale dipenda in qualsiasi caso dall'influenza dei capitali individuali e dei settori interessati sui suoi contenuti: il compromesso è la norma ma, o per la gravità dei fenomeni o per la forza delle lotte o dell'opinione pubblica, l'intervento statale può forzare o danneggiare particolari capitali ed interessi. Se si trattasse solo di questo allora sarebbe ragionevole pensare di compensare, o anche di sostituire del tutto, un'influenza con un'altra: per via parlamentare o con il lobbying, dall'interno o dall'esterno dello Stato. Si tratta, in fondo, di posizioni economicistiche, per nulla antitetiche al volontarismo politico ed all'idealismo. I contenuti delle politiche ambientali sono l'oggetto diretto del dibattito e del conflitto politico e sociale; ma sul piano strategico ed ideale si tratta di capire come le politiche ambientali funzionino nella riproduzione complessiva del capitalismo e di mettere in discussione il concetto stesso di politica ambientale (19).

Note
1) Se si assumono gli Stati Uniti come termine di riferimento si può datare l'emergere della politica dell'ambiente come campo specifico dell'azione statale al 1969-1970. Con l'approvazione del National Environment Policy Act da parte del Congresso degli Stati Uniti, la costituzione del Council on Environmental Quality e della Environmental Protection Agency, e con le normative seguenti, la protezione e la qualità dell'ambiente diventavano oggetto della politica federale acquistando con ciò una rilevanza qualitativamente nuova.
2) The limits to growth. A report for the Club of Rome's projects on the predicament of Mankind, di Dennis Meadows ed altri, venne pubblicato a New York nel 1972 e tradotto in italiano nello stesso anno.
3) Si veda di Joan Robinson «La seconda crisi della teoria economica», tradotto in Il disagio degli economisti, a cura di Riccardo Fiorito, Firenze, La Nuova Italia, 1976, ma pubblicato per la prima volta sulla American economic review nel maggio 1972.
4) Central intelligence agency, Potential implications of trends in world population, food production and climate, agosto 1974, citato da Sophie Bessis in L'arme alimentaire, Paris, La Découverte, 1985, pp. 243-244.
5) «I problemi ecologici sono problemi sociali, non problemi scientifici; cercare di trovare una soluzione soddisfacente vuol dire risolvere un pacchetto di problemi di diversa natura: scientifica, tecnologica, economica, morale, politica, amministrativa», John Passmore, La nostra responsabilità per la natura, Milano, Feltrinelli, 1986, p. 67.
6) Da «Le basi sociali e morali dell'ecologia politica» di Paolo Ceri in Ecologia politica, Milano, Feltrinelli, 1987, p. 105, a cura di Ceri.
7) Manuel Castells, Lotte urbane, Venezia, Marsilio, 1975, p. 19. Si veda anche La questione urbana, Venezia, Marsilio, 1974; e con E. Cherki, F. Godard, D. Mehl, Movimenti sociali urbani, Milano, Feltrinelli, 1977.
8) Si veda per esempio la ricostruzione delle posizioni dell'ecologismo francese di Guillaume Sainteny, «La question du pouvoir d'état chez les écologistes», in Le defi ecologiste, Paris, L'Harmattan, 1993, a cura di Marc Abélès.
9) John Dryzek, La razionalità ecologica. La società di fronte alle crisi ambientali, Ancona, Otium Edizioni, 1987, p. 99, prima edizione Oxford, Basil Blackwell, 1987; si veda anche «Ecology and discursive democracy: beyond liberal capitalism and the administrative state», in Capitalism, nature and socialism n. 2, 1991, pubblicato anche in The politics of the environment, Edward Elgar, 1994, a cura di C. Goodin.
10) Un esempio piccolo ma significativo: «Mentre lo Stato capitalistico è strutturato in modo da impedire una vasta riforma economica ed ambientale, come Noble e Wooding hanno lucidamente espresso, lo Stato pluralista nella società capitalistica può essere ed è stato utilizzato per ostacolare l'accumulazione capitalistica. Lo Stato può essere paragonato ad un campo di battaglia pratico e discorsivo in cui il capitale sta nella parte più alta. Ma le lotte all'interno e contro lo Stato sono possibili ed è anche possibile vincere queste battaglie se le condizioni sono favorevoli», da Il movimento ambientalista negli Stati Uniti, Roma, Datanews, 1990, p. 63, di James O'Connor e Daniel Faber. Ineccepibile l'ultimo concetto. Tuttavia, nella società borghese lo Stato è sempre capitalista; in alcune, limitate, aree del mondo, e da non moltissimo tempo, è più «flessibile» e «pluralista» che in altre, perché può permetterselo. Le lotte sociali ostacolano l'accumulazione capitalistica, mentre lo Stato fa del suo meglio per garantirla, e non necessariamente perché dei capitalisti siedono nella sua parte più alta. Quando un vero capitalista sfrutta sfacciatamente il suo successo sociale e le sue risorse per fini politici e arriva a presiedere il governo non è che il sistema abbia raggiunto una sua purezza. In breve, direi piuttosto che «c'è del marcio».
11) Marx attribuiva grande valore dimostrativo e sperimentale al movimento cooperativo, ma ne riconosceva sia il carattere di autosfruttamento dei cooperanti nel quadro della società borghese, sia i limiti nel conseguire una trasformazione radicale della società ed i pericoli in esso impliciti qualora fosse diventato un surrogato della conquista del potere politico.
12) Dryzek ha analizzato i meccanismi di scelta sociale mediante cinque criteri costitutivi della razionalità ecologica: retroazione negativa, coordinazione, flessibilità e/o robustezza, resilienza. La retroazione negativa è la capacità dei sistemi sociali e naturali di affrontare i problemi ecologici, caratterizzati da complessità, non riducibilità, variabilità nel tempo e nello spazio, incertezza, coinvolgimento degli interessi dell'intera collettività, spontaneità. La coordinazione interessa le decisioni dei singoli agenti, la flessibilità è intesa come la capacità di adeguare le strutture alle mutevoli esigenze, la robustezza riguarda il livello delle prestazioni in circostanze diverse, la resilienza la capacità di correggere gravi squilibri. Saranno privilegiati retroazione negativa e coordinazione in quanto «queste due, unite alla robustezza o flessibilità, sono condizioni sufficienti, a meno che non si parta da una situazione di completo squilibrio, nel qual caso occorre poter contare anche sulla resilienza». I movimenti ponevano l'esigenza di forme sociali capaci di retroazione negativa, flessibilità e resilienza, mentre la robustezza era ignorata o sottovalutata e la questione cruciale della coordinazione affidata semplicisticamente alla «bontà» dell'autogestione o, per i socialisti, della pianificazione.
13) Devo dare per scontato la tesi per cui, grazie anche all'indebolimento della distinzione destra/sinistra, il principio della «rappresentatività» degli interessi reali della massa dei cittadini tende sempre più ad essere un espediente retorico variamente pubblicizzato sul mercato politico. Robert Dahl, uno dei più importanti teorici della democrazia pluralista, riconosce realisticamente che nei nostri sistemi politici poliarchici «la partecipazione al governo non può essere particolarmente diffusa, ed il cittadino medio non può avere molta influenza su di esso» (La democrazia e i suoi critici, Roma, Editori Riuniti, 1990, p. 19). E Danilo Zolo si spinge oltre criticando la dottrina neoclassica del mercato politico perché essa, non cogliendo la logica sistemica delle società complesse, resta ancora interna all'orizzonte rappresentativo: ragion per cui «nel funzionamento effettivo dei sistemi che chiamiamo democratici praticamente nulla sembra corrispondere a ciò che la teoria politica - e il linguaggio dei politici, dei giornalisti e in generale della comunicazione multimediale - presume o tenta di evocare con termini come "sovranità popolare", "partecipazione", "rappresentanza", "opinione pubblica", "consenso", "eguaglianza"», da Il principato democratico. Per una teoria realistica della democrazia, Milano, Feltrinelli, 1992, p. 210. Si può criticare Zolo perché sottovaluta il problema della mediazione con le classi dominate in situazioni di crisi del sistema e sopravvaluta l'autoreferenzialità del sistema politico, ma nel complesso ritengo che la sua analisi evidenzi correttamente le tendenze «spontanee» del sistema politico-amministrativo.
In questa sede si discute delle liberaldemocrazie dei paesi a capitalismo avanzato e non dei socialismi di Stato. Ma il discorso intorno al rapporto fra democrazia e regolazione del ricambio organico tra società e naturain linea di principio è fondamentalmente lo stesso per entrambi i sistemi sociali. A proposito del partito verde tedesco si è scritto della «dicotomia onnipresente ed essenziale che esiste tra la logica liberatrice del pensiero del '68 e la logica restrittiva del conservatorismo dei valori. I temi verdi hanno subito degli effetti di sintesi tra le due logiche. Gli effetti di sintesi sono anche degli effetti di disintegrazione» (Les Verts allemands. Un conservatisme alternatif, Paris, L'Harmattan, 1993, p. 165). La storia del come si è giunti a quella sintesi e dei diversi modi in cui si articola l'azione istituzionale e di base potrebbe essere la chiave di lettura per l'analisi comparata dell'ambientalismo nei singoli Stati. Una considerazione generale è però possibile: i successi elettorali dei partiti verdi hanno contribuito a porre le questioni ambientali nell'agenda politica, ma della spinta antisistemica dei movimenti non si trovano ormai che tracce nella solidarietà internazionale con gli oppressi, nell'antirazzismo e nell'antimilitarismo, nell'idea di una «rivoluzione» dei valori sociali e nel progetto di ristrutturazione ed «espansione» della società civile in senso ecologico.
14) Stefano Grassi, «Costituzioni e tutela dell'ambiente», in Costituzioni razionalità ambiente, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, p. 397, a cura di Sergio Scamuzzi. 
15) Francesco Viola, Stato e natura, Milano, Anabasi, 1995, pp. 43-44.
16) Come analisi esemplare segnalo La sorpresa di ferragosto. Se lo conosci non ti uccide, manuale critico del decreto legislativo 277 del 15 agosto 1991 ad uso dei lavoratori, delegate e operatori della prevenzione, a cura di Fulvio Aurora e Roberto Bianchi di Medicina Democratica. Il decreto attua direttive Cee «in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizioni ad agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro».
17) Pierre Lascoumes, L'éco-pouvoir. Environnements et politiques, Paris, La Découverte, 1994, p. 15, mio corsivo. Concetto simile in Le politiche ambientali. Intervento pubblico e regolazione sociale di Gian-Luigi Bulsei, che si riferisce però all'Italia: «sarebbe forse più corretto parlare di politiche per l'ambiente. Il plurale è d'obbligo non tanto per ammettere l'esistenza di una molteplicità di campi e livelli di intervento (varie forme di degrado e impatto ambientale; attività di prevenzione, risanamento, valorizzazione), quanto piuttosto per sottolineare il carattere tutto sommato ancora largamente episodico e frammentato dell'azione pubblica in tale settore»; e poco più avanti: «permane tuttavia la tendenza a far leva su politiche dimostrative e simboliche, in cui le esigenze di autoaffermazione organizzativa (degli apparati amministrativi) e di legittimazione politica (del sistema nel suo complesso finiscono per prevalere» (Torino, Rosenberg & Sellier, 1990, p. 185). Sulla politica ambientale in Italia si vedano anche i lavori di Rodolfo Lewanski: «La politica ambientale», in Le politiche pubbliche in Italia, a cura di Bruno Dente, Bologna, il Mulino, 1990, «Il difficile avvio di una politica ambientale in Italia», in L'industria e l'ambiente, Bologna, Il Mulino, 1992, a cura di Bruno Dente e Pippo Ranci, Governare l’ambiente. Attori e processi della politica ambientale, Bologna, il Mulino, 1997.
18) Emilio Gerelli, «Strategie per la sostenibilità», in Istituto di Ricerche Ambiente Italia (a cura di), Ambiente Italia 1996. Rapporto sullo stato del paese e analisi ambientale delle città e delle regioni italiane, Milano, Edizioni Ambiente, 1996, p. 34.
19) Ai marxisti ed agli ecologisti con una forte e rigorosa motivazione etica (e i due punti di vista possono coincidere) quest'ultimo punto non dovrebbe risultare strano. Per i primi si tratta di criticare teoricamente l'economia politica e di articolare politicamente un programma di lotta; una politica economica socialista ha senso solo in una fase transitoria in cui si tratta di gestire i rapporti mercantili verso la dissoluzione. I modi della pianificazione democratica in una società ecologicamente razionale saranno altro, per mezzi e per fini, dalla politica economica e dalla politica ambientale. La questione non è solo di principio poiché il fine e la prospettiva possono influire sulla selezione dei contenuti e la tattica del presente.


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