Che
sia in atto uno scontro interimperialistico
fra Stati Uniti e Ue da un lato, e Federazione Russa dall’altro, è sotto gli
occhi di tutti. Va detto però che in tale scontro operano anche altri
protagonisti, con ruoli strumentali, certo, ma in rappresentanza di propri
interessi effettivi. Indipendentemente da come finisca la vicenda, le conseguenze
che si delineano non sono di breve periodo. Premetto anche che chi scrive spera
di essere riuscito a formalizzare un discorso il più spassionato possibile,
senza cioè (in questa sede) parteggiare per nessuno; e “nessuno” include anche
la fazione ucraina che ha prevalso a Kiev.
La rivolta antirussa di una
parte dell’Ucraina
Visibile
a tutti è l’esistenza di una rivolta antirussa da parte di alcuni settori della
società ucraina: parlare di rivolta del popolo ucraino tout court risulta esagerato e fuorviante, non solo per quanto sta
accadendo in Crimea, ma altresì alla luce della situazione montante nella parte
orientale del paese. Di recente su La
Repubblica è comparso un articolo dal titolo “Le quattro Ucraine”, contenente
già alcune delle motivazioni per cui non si può parlare di rivolta “degli
Ucraini” collettivamente intesi. Forse le Ucraine sono addirittura più di quattro:
abbiamo gli Ucraini antirussi, quelli filorussi, i Russi dell’Ucraina, la
Crimea (un caso un po’ a parte, essendo stata russa fin da quando venne
sottratta alla signoria ottomana, per essere poi regalata negli anni ’50 alla
Repubblica Ucraina dell’Urss da Chruščëv per ragioni di politica interna alla
stessa Urss), i Ta(r)tari di Crimea (rientrati nella penisola dopo la
deportazione ordinata da Stalin quale punizione per aver collaborato con gli
invasori tedeschi, senza però poter riavere i beni loro sottratti) e infine
quelli che non stanno da nessuna parte,
e alla sicura mercé di tutti gli altri.
Non
è storicamente causale che i partiti antirussi abbiano il loro forte bacino
elettorale essenzialmente nella parte occidentale e centrale del paese, mentre
i filorussi siano forti nella parte centro-orientale (e in Crimea, ovviamente).
La parte occidentale per secoli ha gravitato nelle orbite della Polonia e
dell’Impero asburgico, e nel secolo scorso – dagli anni ’20 alla fine della Seconda
guerra mondiale ha dovuto compiere dolorosi “vai e vieni” tra Polonia e Urss [1].
Impero zarista e Urss staliniana hanno fatto molto per non farsi amare (anzi!)
dall’Ucraina in genere e da quella occidentale in specie, seminando milioni di
morti. Tuttavia – come a volte accade nei “regni di mezzo” – alla fine si è
sedimentata una divaricazione fra irriducibili nemici della Russia e abitanti
ormai da tempo russificati oppure di etnia russa vera e propria. La situazione
seguita all’indipendenza, nata dalla polverizzazione dell’Urss, non era certo
tale da soddisfare i nazionalisti ucraini: ma si potrebbe dire “per forza di
cose”. Economicamente, infatti, l’Ucraina indipendente non è in grado di
reggersi e svilupparsi senza optare fra i corni di un dilemma non eludibile:
restare “agganciata” alla Federazione Russa, oppure gravitare sempre di più
verso l’Unione Europea (e verso la Nato); ma senza che nessuna di tali opzioni,
in realtà, garantisca l’uscita da una dipendenza oggettiva.
Riguardo
alla rivolta di Kiev, non ha alcun significato il fatto che abbia rovesciato un
governo che formalmente aveva vinto le elezioni: si spera, infatti, che i
popoli conservino il diritto di rovesciare i propri governi quando e come
vogliono, indipendentemente dal numero di voti che questo ha conseguito alle
elezioni. Semmai sarebbe da stigmatizzare l’avvenuta violazione dei patti per
una transizione pacifica firmati il 21 febbraio scorso. Ma nemmeno questo è il
punto. È vero però che i filoccidentali, nella loro aperta sfida a una grande
potenza come la Russia, con un paese senza risorse economiche e senza Forze armate
temibili, non avrebbero prevalso senza l’aiuto e l’incoraggiamento di alcune potenze occidentali, contando sulla loro
protezione, ma col forte rischio di fare la fine della Georgia nel 2008 [2].
Inoltre
i nazionalisti ucraini sono andati alla carica come se dietro di sé avessero
avuto un paese unito, mentre è il contrario. Esistono elementi di disunione a
doppia faccia, cioè fonte di possibili argomenti da parte di tutte le fazioni in
causa a sostegno delle rispettive scelte politiche.
Le faglie su cui poggia
l’Ucraina
A
un osservatore esterno non sfugge che costante dei nazionalisti sia stato lo
sforzo di costruire un’identità nazionale ucraina sull’unico elemento disponibile:
la contrapposizione con la Russia sviluppatasi in una lunga vicenda storica della
regione che l’ha sempre vista come vittima della rapace “sorella maggiore”, la
Russia. I buoni motivi per farlo ci sono eccome, e fra essi il grande genocidio
per fame causato dalla stalinismo nei primi anni ’30 è stato forse l’ultima grande
atrocità. Per chi ha subìto le ingiustizie russe, ovvero le sente a suo carico,
non basta certo il fatto che nel secondo dopoguerra siano stati notevoli
nell’Urss il peso dell’Ucraina e delle leadership da essa date all’Unione, come
Chruščëv e Brezhnev. Questa contrapposizione, però, non era condivisa da circa
metà della popolazione, e da qui il suo risolversi in elemento di disunione,
invece che di unione.
Ad
ogni modo l’Ucraina indipendente ha scelto di non scegliere per circa 20 anni
in ordine a ogni possibile opzione, con la conseguenza che molti abitanti hanno
lasciato il paese e la non-scelta si è rivelata esiziale. Tanto per citare un “inattaccabile”
santone della politologia occidentale, il famigerato Huntington, ricordiamo che
nel suo Clash of Civilizations aveva
definito l’Ucraina un torn country, cioè un paese lacerato da faglie
da est a ovest, pronosticandone la secessione per un futuro non lontano.
E
di faglie su cui poggia l’Ucraina ne ha parecchie. La prima è la faglia linguistico-culturale, tra chi
parla russo e chi parla ucraino, lingua slava ma differente dal russo. Questa
distinzione si riproduce nelle divisioni tra partiti politici: per esempio, Yanukovich
è della parte orientale, e si esprime in ucraino in modo non perfetto.
Poi
c’è la faglia religiosa: qui fu
battezzato il popolo slavo della Rus’ da S. Vladimir secondo il rito ortodosso,
e qui è nata la Chiesa ortodossa russa. Per varie vicende storiche inerenti
all’espansionismo polacco e asburgico la parte occidentale è diventata
maggioritariamente cattolica, vuoi di rito latino vuoi di rito orientale (cattolicesimo
travestito da ortodosso che è bestia nera di tutti gli ortodossi del mondo e
ancora motivo di scontro col Vaticano).
E
infine c’è la faglia economica, che s’intreccia
con quella linguistico-culturale. Infatti nella parte occidentale, se è palese
l’identità nazionale, non si riscontra però quella economica. Invece nella
parte orientale – dove non sempre sono distinguibili gli ucraini russofoni dai
russi etnici - l’identità economica è palese, seppure problematica.
La
vera base industriale ucraina è data dalla siderurgia e dalla sua industria
pesante, che produce missili balistici e grandi aerei da carico ed è apprezzata
in molti paesi emergenti. Il rovescio della medaglia è che gli impianti sono
vecchi e le esigenze ecologiche non si sa nemmeno cosa siano [3].
Inoltre tutta l’Ucraina dipende energeticamente dalla Russia, e per le sue pipelines (per quanto arcaiche e
scadenti) passa il 60% del gas russo verso l'Europa. Sta di fatto, ad ogni
modo, che se si cerca la base
economica dell’Ucraina bisogna guardare alle sue regioni orientali, dove
esistono sia le vere imprese industriali sia i centri dell’insieme di relazioni
commerciali ed economiche con la Russia: queste relazioni sono state sì lo
strumento per l’enorme arricchimento degli oligarchi locali, ma hanno anche
consentito la sussistenza di tanti cittadini ucraini.
I soggetti esterni
interessati
Dopo
aver accennato alle parti in causa interne, c’è da dire qualcosa sugli estranei
portatori di interessi sull’Ucraina, anche per la loro maggiore importanza. Gli
interessi della Russia sono notoriamente politici, economici e strategici,
sottolineando che quelli strategici non si riducono all’essere l’Ucraina una
specie di porta d’ingresso alla Russia: un eventuale ingresso dell’Ucraina
nella Nato inciderebbe – per non dire altro - sull’agibilità della base navale
russa di Sebastopoli, e poi è sempre pendente la possibilità che prima o poi dall’Occidente
emergano le spinte antirusse anche in Bielorussia. Inoltre, l’Ucraina ha la sua
importanza per il progetto russo di creare la tanto agognata Unione
Euroasiatica.
Gli
Usa hanno l’opportunità di restituire la pariglia per i recenti successi
diplomatici di Putin e soprattutto per aver mandato a monte i piani di
Washington sulla Siria. Evidentemente i vertici statunitensi prediligono le
Olimpiadi: la crisi georgiana fu innescata in occasione di quelle cinesi;
l’attuale crisi è andata al calor bianco durante quelle di Sochi.
Può
essere giudicata maligna – ma non del tutto irrealistica – l’ipotesi che la
crisi ucraina sia pilotata da Washington anche contro l’Unione Europea e sotto
il naso di essa. Già in passato non sono mancati i malpensanti secondo cui
l’appoggio Usa all’adesione della Turchia alla Ue mirava a espanderla al fine
di diluirla, per così dire; oggi è lecito pensare che far espandere l’Ue verso
un paese problematico come l’Ucraina costituisca un’ottima occasione per
indebolirla ulteriormente.
L’Unione
Europea ancora una volta si è messo in mezzo in modo incongruente, e
soprattutto avvalendosi dell’intermediazione di suoi membri – come Polonia,
Svezia e Lituania – che, per ragioni storiche e attuali, oltre ad avere legami
con l’Ucraina sono anche titolari di propri interessi specifici. L’accordo tra
Yanukovich e l’opposizione – da quest’ultima subito violato – è avvenuto con la
mediazione dei ministri degli Esteri di Germania, Francia e Polonia, e quindi con
l’ennesima brillante assenza della baronessa Ashton, che in teoria sarebbe ministro
degli Esteri dell’Unione Europea.
L’Ue
avrebbe anche potuto indirizzare diversamente le proprie manovre di attrazione
dell’Ucraina. Ma ciò avrebbe richiesto un qualche progetto, inesistente nella
mente dei burocrati di Bruxelles. Stante la chiarissima posizione dell’Ucraina
quale delicata zona intermedia fra Europa e Russia, sarebbe stato possibile provare
a convocare un tavolo trilaterale onde fare in modo che l’apertura verso
l’Ucraina venisse inquadrata in una più ampia manovra di apertura e
coinvolgimento verso la Russia quale parte integrante dell’Europa. Cioè
presentando tale manovra globale non come questione di mera politica estera
europea, bensì come questione europea quasi di ordine interno; e
indipendentemente dalla possibile concretizzazione degli interessi russi oltre
gli Urali.
Tanto
per dare un quadro completo, diciamo che dietro le quinte c’è pure la Cina, a
dimostrare la debolezza economica dell’Ucraina. In questo paese che è una
grande pianura agricola sfruttata poco e male, ma ricca di fiumi, alcune imprese
cinesi hanno già comprato 100.000 ettari lo scorso anno, e si parlava di
ulteriori acquisti per i prossimi anni pari a 3 milioni. Cioè il 5% dell’intero
territorio del paese. Comunque sia il ruolo della Cina non è problematico per
nessuna delle parti ucraine in lotta per il potere – cioè per le oligarchie
locali – giacché la Cina è indifferente alla natura politica degli Stati con
cui negozia.
E
poi c’è la Polonia: non dietro le quinte, ma sullo sfondo. Come dianzi detto,
l’effimero accordo fra Yanukovich e l’opposizione è stato firmato dai ministri
degli Esteri di Francia, Germania e Polonia. Che i primi due possano passare come
esponenziali di due potenze forti dell’Ue, lo si può pure capire. Ma il
ministro polacco? Forse perché negli ospedali polacchi vengono curati gli
insorti feriti a Kiev (come dichiarato dal primo ministro Tusk il 20 febbraio)?
Le spiegazioni possibili sono solo di due tipi: 1) umanitarismo: difficile da
ipotizzare nei politici e in quelli capitalisti in particolare; 2) una
rivincita polacca: è più plausibile.
Motivare
quest’ultima ipotesi vuol dire rifarsi alla mai avvenuta metabolizzazione della
perdita delle regioni orientali dello Stato polacco fatta da Stalin. La
compensazione per una Polonia in mano agli stalinisti fu lo slittamento verso Occidente
del corpo territoriale polacco: al posto dei territori presi dall’Urss la
Polonia ebbe le regioni orientali tedesche, da cui cacciò senza tanti
complimenti tutti gli abitanti di etnia germanica, con il plauso anche dei non-comunisti.
Rimettersi in gioco nelle vecchie marche orientali sarebbe ottimo per
sentimenti nazionalisti sempre in bilico fra passate glorie imperiali e
frustrazioni plurisecolari avvenute per forza di cose.
Washington fa la voce grossa,
ma …
La
promessa di Obama sui costi che la Russia dovrà pagare in caso d’intervento
militare in Ucraina è una cortina fumogena priva di concretezza. A un
contro-intervento militare occidentale non crede pressoché nessuno, non essendo
la Russia paragonabile alla piccola Serbia che fu “umanitariamente” bombardata
per via del Kossovo e non essendo molte le carte in mano a Obama. Il fallimento
del G8 a Sochi è ormai scontato, e forse anche la sospensione o espulsione
della Russia da quell’organizzazione in caso di aggravamento della crisi.
Possibili sono il blocco dei negoziati commerciali con la Russia e/o iniziative
per rendere difficile la vita alle imprese russe all’estero. Sì, ma prima o poi
il business rivendicherà i suoi
sovrani diritti, giacché ormai i reciproci interessi economici sono enormi: le
esportazioni Usa in Russia sono aumentate del 38% nel 2011 e quelle russe verso
gli Stati Uniti del 35%; una serie di grandi società Usa, scarsamente sensibili
ai fatti ucraini – General Motors, Ford, Paper Co., Exxon Mobil e
General
Electric – hanno in corso grandi progetti di sviluppo in Russia, e
al pari di Mosca sono interessate all’instaurazione di una specie di spazio di libero
mercato tra Usa e Russia. Se Obama bloccasse tutto, la perdita per l’economia
russa sarebbe pesante, ma anche per i capitalisti nordamericani. Comunque va
registrato che le reiterate e recentissime rimostranze di Washington e della Georgia
per il protrarsi della presenza militare russa in Abkazia e Ossezia del Sud,
nonché in zone georgiane a prescindere dagli accordi di pace del 2008, sono
rimaste senza riscontro a Mosca.
Ma
i problemi di Obama, in caso di acutizzarsi della crisi, non sono solo
economico-finanziari: la questione siriana è ancora aperta, quella del nucleare
iraniano deve ancora chiudersi, e dulcis
in fundo c’è l’Afghanistan. Sembra infatti che per il ritiro delle proprie
truppe da questo paese gli Stati Uniti abbiano bisogno anche delle vie di
comunicazione russe.
Comunque
vada a finire la faccenda ucraina sta di fatto che il clima da guerra fredda
instauratosi fra Mosca e Washington non sarà di breve durata, giacché fra
potenza russa e potenza statunitense il peggioramento dei rapporti ha natura
quasi genetica; a prescindere da quali possano essere le buone o cattive
volontà delle persone alle leve di comando.
Restiamo in attesa
Previsioni
vere e proprie è molto difficile farne. Al mero stato degli atti, tuttavia, la
rottura dell’unità politico-territoriale dell’Ucraina non appare completamente ipotetica.
Ormai si profila all’orizzonte la secessione della Repubblica Autonoma di
Crimea, con il referendum fissato per la fine del presente mese. Le regioni
orientali ucraine – che già si vanno agitando in senso filorusso – potrebbero seguire
l’esempio della Crimea e indire un proprio referendum. E qui verrà di nuovo
messo alla prova l’opportunismo delle potenze occidentali: poiché non conveniva
loro, esse già hanno negato il diritto di autodeterminazione ad Abkazi, Osseti,
Serbi di Bosnia e del Kosovo, mentre lo hanno riconosciuto agli Albanesi
kossovari. Si può scommettere che lo negheranno anche al popolo di Crimea e
agli Ucraini orientali. Per cui costoro, alla pari di Abkazia e Ossezia, non
potranno prescindere dal protettorato militare russo.
[1] Per sinteticità si può partire dal 1596, quando il regno di Polonia, fino
a quell’epoca assai tollerante, optò per una politica di cattolicizzazione forzata
delle popolazioni slave della sua parte orientale. Le comunità ortodosse furono
costrette a entrare nella Chiesa cattolica in cambio del mantenimento del proprio
rito slavo-bizantino. Poi cominciarono i problemi territoriali. Nel 1654, epoca
della guerra tra Mosca e la Polonia, i cosacchi ucraini (viventi in parziale autonomia)
tramite l’ataman Bogdan Chmielnicki firmò
con lo zar Aleksej Michajlovič Romanov il trattato di Perejaslav che sanciva il
passaggio dei loro territori sotto la sovranità russa. Con la terza spartizione
della Polonia nel 1795 la Russia si impadronì anche della sponda destra del
Dnepr, mentre la Galizia orientale diventava parte dell’Impero asburgico, fino
al 1918. Nel turbolento e sanguinoso periodo della Rivoluzione russa, e dopo
una guerra russo-polacca, l’Ucraina entrò a far parte dell’Unione Sovietica e
la Galizia orientale della Polonia indipendente. Qui le correnti nazionaliste
mantennero viva la rivendicazione dei territori orientali, considerati polacchi
per ragioni storiche e culturali (per la Russia erano invece le regioni appartenute
alla Rus’ di Kiev). Con il patto Molotov-Ribbentrop i territori ucraino-occidentali
e moldavi furono annessi dall’Urss, ma nel 1941 vennero occupati dalla Germania,
e ripresi dai sovietici nel 1944. I nazionalisti dell’Esercito Insurrezionale Ucraino
(Upa) si dettero alla guerriglia, durata fino agli inizia degli anni ’50. Da
rimarcare che dopo la vittoria del ’45 i beni della Chiesa uniate, per
decisione di Stalin, vennero passati al Patriarcato di Mosca.
[2] Negli
anni, dopo il crollo
dell’Urss, gruppi ucraini e Ong d’appoggio hanno ricevuto almeno 5 miliardi di
dollari (fondamentale il ruolo del
National Endowment
for Democracy) non certo per fini socio-umanitari,
tant’è che a beneficiarne sono stati settori ultranazionalisti e la Chiesa
cattolica di rito orientale, detta “uniate”, creata dal Vaticano nel XVI secolo
in funzione ostile al Patriarcato ortodosso di Mosca. Espressive della
mentalità e del ruolo di questa Chiesa sono le parole pronunciate in un recente
sermone da Mykhailo Arsenych, prete uniate della regione di Ivano-Frankovsk: “Oggi
siamo davvero pronti alla rivoluzione. I soli metodi efficaci di combattimento
sono assassinio e terrore! Vogliamo essere sicuri che nessun cinese, negro, ebreo
o moscovita possa prendersi la nostra terra domani”. Dopo il 2004 sono stati
costituiti centri di addestramento Nato per ultranazionalisti ucraini negli
Stati baltici, cioè dopo la loro adesione al Patto Atlantico, e sono state
rafforzate loro unità paramilitari. Pochi sanno che elementi nazionalisti
ucraini hanno partecipato alle guerre balcaniche e alla guerriglia cecena, come
Olexander Muzychko (Sasha Bilij).
[3] È la roccaforte
dei grandi oligarchi ucraini, come gli Akhmetov, i Firtash e i Pinchuk, divisi
da un abisso di ricchezza dai loro concittadini dal reddito medio inferiore ai 300
€ mensili.
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