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domenica 16 marzo 2014

L'UCRAINA E L'AUTODETERMINAZIONE DELLA CRIMEA, di Pier Francesco Zarcone

Un capitolo si va chiudendo: dopo la proclamazione dell’indipendenza della Crimea da parte del Parlamento locale, scontata è la vittoria dei filorussi al consequenziale referendum. Per il seguito, chi vivrà vedrà.   
Resta il fatto che solo l’autodeterminazione filoccidentale dei popoli è “lecita”. La secessione della Crimea viene infatti considerata illegittima da Usa, Ue e loro sodali, mentre per la Russia è conforme alla Carta e alle statuizioni dell’Onu. Certo è che un giurista chiamato a rendere un parere pro veritate (cioè non di parte) troverebbe grandissime difficoltà a fare propria la valutazione occidentale. Incidentalmente si noti che per il prossimo autunno sono in agenda in Europa altri due referendum secessionisti, in Scozia e in Catalogna. “Ovviamente” né Londra né Madrid e nemmeno i vertici dell’Ue sono d’accordo. Saranno interessanti gli sviluppi.  
Dal punto di vista della teoria, il principio dell’autodeterminazione esprime il diritto di ciascun popolo a scegliere liberamente il proprio sistema di governo (autodeterminazione interna) e a essere libero da ogni dominazione esterna (autodeterminazione esterna); il che giuridicamente sancisce la possibile contrapposizione fra i diritti dei popoli e quelli degli Stati che li inquadrano, ma altresì la derogabilità alla tradizionale concezione della sovranità statale e - cosa in teoria importante - al principio della integrità territoriale degli Stati. Per quanto (come constatiamo) priva di effetti pratici, va ricordato che la “Dichiarazione di principi sulle relazioni amichevoli tra Stati”, approvata dall’Assemblea generale dell’Onu nel 1970, contiene la raccomandazione agli Stati membri perché si astengano da azioni di forza a contrasto della realizzazione del principio di autodeterminazione, e si riconosce ai popoli il diritto di resistere, anche con il sostegno di altri Stati e delle Nazioni Unite, ad atti di violenza che possano precludere loro l’attuazione di tale diritto. 
Oggi in Ucraina da parte di due settori della popolazione era emersa la comune voglia di autodeterminarsi, ma in maniera contrapposta, cosicché uno di essi (i vincitori di Kiev) vuole imporre la sua autodeterminazione all’altro settore (e in primis alla Crimea, dove i russofoni sono il 90% della popolazione), che invece guarda alla Russia. Per quanto ciò sia visto come Male pressoché assoluto dall’Occidente, ancora una volta sarà la forza a decidere sull’esercizio del diritto; così come è stata, ed è, la forza a decidere negativamente sull’autodeterminazione dei Serbi di Bosnia e del Kossovo settentrionale, mentre ha favorito quella degli Albanesi kossovari.
Inoltre l’intangibilità delle frontiere – ribadita dall’Occidente – è solo una formula politica apparentemente ragionevole e rassicurante per i governi, ma molto meno per le popolazioni interessate, le quali spesso la pensano diversamente, o con spontaneità o per induzione esterna (ma questo alla fin fine è un dettaglio).
A ogni buon conto, cioè a prescindere da chi abbia ragione sul referendum della Crimea, il concetto di legittimità in sé non garantisce nulla, giacché – per cinico che possa apparire - senza la forza il diritto diventa mera filosofia. La crisi ucraina è l’ultima nel tempo a riportare alla ribalta questo problema, operante per il diritto internazionale - in parte pattizio (i trattati) e in parte consuetudinario – come per i diritti interni degli Stati. Innanzi tutto non vi è ordinamento e/o fenomeno giuridico che non implichi alla sua base, e per la sua conservazione, un dato materiale che si attribuisce autonomamente e a cui esso stesso attribuisce giuridicità: l’esercizio della forza. Ciò vuol dire che senza la capacità di coazione (prima manifestazione della forza) il diritto è imperfetto (minus quam perfectum si diceva nell’antica Roma) a motivo della sua conseguente inefficacia operativa. E l’inefficacia è, quanto meno, lo stato comatoso delle norme giuridiche.
Il diritto internazionale non sempre è munito di sanzioni, e comunque è sostanzialmente assente un organismo sopraordinato per farne rispettare le statuizioni e dotato di per sé degli strumenti necessari. Talché le violazioni che riescano a imporsi diventano stati di fatto produttivi di effetti giuridici. Valgano per tutti l’occupazione sionista dell’intera Palestina dopo il 1967 oppure, per la sua maggior pregnanza, il governo russo dei soviet dall’ottobre del 1917: illegittimo per i diritto internazionale alla sua nascita, la sua vittoria nella guerra civile costituì il presupposto per il riconoscimento da parte degli altri Stati, e quindi la sua legittimazione.   
Lo stesso vale per gli ordinamenti interni, poiché nessun ordinamento giuridico alla sua nascita e alla sua morte, dispone di una base già giuridica, bensì solo di una situazione di fatto impostasi con la forza al di fuori di qualsiasi diritto positivo. In quest’ottica nemmeno ha rilievo l’entità quantitativa della massa di persone che l’abbia esercitata o appoggiata. Se il fatto si impone senza che gli avversari riescano a prevalere, allora diventa matrice di diritto.   

La pesantezza politica della Storia

I nazionalismi non si nutrono solo delle proprie creazioni ideologiche, giacché esse a loro volta derivano dall’assemblaggio di dati del reale. Si dice che se un popolo spezza il legame col suo passato rischia di non avere futuro. Può anche essere, ma spesso il passato storico – per le manipolazioni e strumentalizzazioni effettuate da politici e politicanti, in cerca di sogni di gloria che sempre si risolvono in guadagni per le classi possidenti e in disastri popolari – pesa, ingombra e condiziona negativamente il futuro. Non si tratta di un’esclusiva dei popoli dell’Europa Orientale, ma ciò è presente con ampiezza anche nella storia della parte Occidentale del continente. Si pensi a quanto abbia condizionato la strumentalizzazione del mito imperialista di Roma in Italia, oppure il mito dell’impero d’oltremare in Portogallo. Naturalmente resta irrisolto l’eterno problema se siano i nazionalismi a rendere più pesante il passato storico, oppure se al contrario sia questo passato a operare come “brodo di coltura” dei nazionalismi, incrementato da elementi geopolitici.  
Se le guerre nella ex Jugoslavia hanno fatto superficialmente conoscere a un ampio pubblico il ruolo della mitizzata epopea della battaglia di Kosovo poglie (Косово Поље, il campo dei merli) per il nazionalismo serbo, invece assai meno è conosciuto il pesante passato che ancora grava fra i popoli delle grandi pianure orientali che si congiungono con quella russa. Si tratta di popoli con una storia assai complicata e terribilmente sanguinosa, con tragici cambi di ruolo per cui i dominatori diventavano dominati e viceversa, con successive ripetizioni di tali scambi. Chi pensava che con la fine della II Guerra mondiale si fosse arrivati, bene o male (spesso più male che bene), ad assetti politico-territoriali non ha considerato quale grande “effetto congelatore” si fosse verificato nel periodo del “socialismo reale”: appena ha smesso di funzionare e si è sciolto il ghiaccio, le plurisecolari complessità e rivalità del mondo slavo sono riemerse o tali e quali o aggravate. Solo con apparente folklorismo un giornalista italiano ha di recente sostenuto che oggi in Crimea mancano solo le cariche dei Cosacchi a sciabole sguainate contro i Tartari.       
Mentre definire artificiali le frontiere delle ex colonie occidentali è ormai comune, tuttavia non si parla mai della artificialità di tante frontiere europee, specialmente orientali, frutto di una lunga storia di Stati gonfiatisi e sgonfiatisi in tempi tutto sommato brevi. Sono vari i limiti territoriali nati solo da vittorie militari, unite sovente a pulizie etniche di massa, e non mancano i raggruppamenti di popolazioni disomogenee – spesso nemiche – all’interno del medesimo Stato. Oggi sono anche riapparse le mai sopite reminiscenze di glorie passate, espressione di velleità espansionistiche spesso occultate. Per l’Europa orientale fenomeni del genere sono normalmente attribuiti ai popoli della ex Jugoslavia, ma ci si dimentica della Polonia, dell’Ungheria, dell’Ucraina, della Georgia, dell’Azerbaigian, della Russia.  
Ampliare i confini, magari includendo “fratelli irredenti”, è certo un sogno abbagliante e tale da far dimenticare che il vincolo di fratellanza univa pure i biblici Caino e Abele. Con la fine della Seconda guerra mondiale sono state inglobate in un unico assetto tutte le popolazioni definibili ucraine, ma la comune e “rassicurante” ucrainicità formale celava varie differenze e ostilità plurisecolari: economiche, religiose, linguistiche e politiche. Come si è visto.

Una crisi tutto sommato evitabile

Sostenere che altresì sulla Russia di oggi gravi il peso del passato, che essa sia portatrice di progetti imperiali, che la sua fase attuale sia di espansione dopo i disastri delle gestioni di Gorbaciov e El’cin, ecc. ecc., è vero, tuttavia equivale a sfondare la classica porta aperta, perché il nocciolo della crisi ucraina non sta solo in questo, e proprio perciò è scontato il fallimento dei “tentativi diplomatici” di Usa e Ue, in definitiva i medesimi che hanno attizzato la crisi. Le semplificazioni superficiali e manichee, seppure oggi del tutto “politicamente corrette” e quindi obbligatorie, sono fuorvianti, in quanto si è in presenza di una questione molto complessa coinvolgente, oltre tutto, la tradizionale ossessione russa per la sicurezza dall’esterno si confronta, dopo la fine dell’Urss, con gli aumentati appetiti dell’imperialismo statunitense e di quello un po’ dilettantistico e pasticcione, ma non meno concreto, dell’Unione Europea.
A capire meglio la questione è una vecchia e cinica volpe della politica, Henry Kissinger. In un articolo pubblicato lo scorso 6 marzo dal Wahington Post (“How the Ukraine crisis ends”) egli ha opportunamente sottolineato come l’Ucraina, in quanto Stato, non possa vivere né come alleato della Russia né come alleato degli Usa, bensì solo come ponte tra queste due entità, anche in ragione dell’avere la Russia le sue radici storiche in Ucraina; e non ha omesso di attribuire la responsabilità della crisi alla volontà di imporsi sull’intero paese da parte di Julija Tymoshenko e Viktor Janukovich. In termini costruttivi da parte sua ci sono quattro proposte improntate a quel raro fenomeno che è il realismo: aderisca l’Ucraina all’Unione Europea se lo vuole; ma non aderisca alla Nato e sia “finlandizzata”, cioè collocata in posizione di effettiva neutralità; mantenga l’unione con la Crimea ma col riconoscimento di maggiore autonomia di tale repubblica da parte di Kiev, che altresì dovrebbe garantire la permanenza della flotta russa a Sebastopoli.
Purtroppo le proposte di Kissinger sono rimaste inascoltate e, tenuto conto della rapida evoluzione degli eventi, appaiono fuori tempo massimo. Per Mosca sono ormai inaccettabili; Washington, Ue e Nato mostrano i muscoli e fanno la faccia feroce, impongono sanzioni, alla fine faranno anche avanzare i propri missili e armamenti vari fin sotto le frontiere russe, e applicheranno sanzioni economiche; ma come risultato della diplomazia occidentale ci saranno le rappresaglie economiche russe sulle imprese occidentali presenti in Russia, l’Ue dovrà fare fronte ai 35 miliardi di dollari del debito ucraino e dulcis in fundo la “primavera ucraina” ha portato l’estrema destra al potere a Kiev (quotidiano è il bombardamento di imma­gini tele­vi­sive sui mili­tari russi in Crimea mentre sono assenti, per esempio, quelle del segre­ta­rio del Par­tito comu­ni­sta ucraino di Leo­poli, Roti­slav Vasilko, tor­tu­rato da neo­na­zi­sti all’ombra di una croce di legno, oppure quelle delle sina­go­ghe attaccate al grido di heil Hitler).
La posizione di Kissinger è comunque importante perché viene da personaggio non tacciabile partigianeria per Mosca, cosa che capita a chi non si allinei con gli osanna agli eventi di Kiev. Si deve prendere atto che nella stampa italiana - oltre Il manifesto - le voci un po’ fuori dal coro si riscontrano (ahimè!) nei quotidiani berlusconiani che altresì irridono agli epici sfracelli fin qui fatti dall’Occidente in tutte le questioni slave in cui si sia immischiato. 

Imperialista o no, se la Russia è strategicamente sotto attacco, le contromosse vanno messe in conto

Nei rapporti reciproci le entità imperialiste occidentali hanno reputato conveniente comportarsi fra loro come sostanziali partner quand’anche esistano interessi propri e distinti. Le frizioni, gli attriti e i debordamenti sono inevitabili, ma nella sostanza l’assetto regge. Nulla del genere è mai avvenuto nei confronti della Federazione Russa, fin dal suo nascere. Anzi essa e i paesi indipendenti emersi dal crollo dell’Urss sono stati visti come entità irrimediabilmente deboli e suscettibili di ricevere passivamente l’estensione dell’influenza economica e militare occidentale. Ma sottovalutare è forse peggio del sopravvalutare. In concreto è stata la guerra del Kosovo del 1999 a far intendere ai vertici del Kremlino che era necessario svegliarsi davvero. Alcuni osservatori parlano di vera e propria “lezione geopolitica” per la Russia. Per l’analista Vitalij Tre’tjakov, si poneva l’esigenza di evitare scenari jugoslavi nelle tradizionali zone di influenza russa, e a tale fine era necessario arrendersi al fatto che di fronte alla politica estera statunitense si ponevano solo due alternative: o fare quel che gli Usa dispongono per i loro interessi veri o presunti, oppure rafforzarsi innanzi sui piani militare ed economico, sia pure con il ricorso agli autoritarismi del caso. Altresì imprescindibile il non fidarsi mai dell’Occidente, nemmeno nei dettagli e rendersi conto dell’ineluttabilità del ripetersi di scenari jugoslavi, dando una particolare attenzione alla regione del Dnestr (in Moldavia), dove sono stanziate truppe russe e in genere vivono cittadini russi e nel Caucaso. Infine, ma non da ultimo, rendersi conto dell’inesistenza dell’Europa come soggetto autonomo rispetto alla Nato, con la conseguenza dell’inutilità del ricorso alla diplomazia europea, subordinata o corifea degli Usa. Da qui l’importanza dei rapporti diplomatici, economici e militari con gli Stati che sfuggono all’egemonia statunitense: Cina, India, Iran, paesi islamici se del caso.
Al di là dei giochi politici internazionali è stato chiaro a Mosca che, dietro tanti “positivi” atteggiamenti europei e statunitensi nei suoi confronti, c’era solo l’intento di avvalersi della Russia in funzione anticinese. Tutto sommato – a parte l’intervento in Georgia, senza il quale avrebbe tradito i separatisti locali suoi alleati - Mosca aveva risposto finora con una certa cautela alle provocazioni e agli spostamenti dell’armamentario Nato verso Est. Non si dimentichi che quando nel maggio 2013 il governo romeno aprì il proprio territorio all’installazione di missili mobili statunitensi di tipologia SM-3, e quando lo stesso fece la Polonia per i missili Patriot, per quanto irritata Mosca reagì chiedendo a Washington di aprire negoziati per un trattato con la Nato sui vincoli per le modalità di dispiegamento dello “scudo antimissile”, con specifica del loro numero, tipologia e luogo di installazione, trovando il netto rifiuto statunitense. Quindi addio alla promessa statunitense fatta a Gorbaciov di non spostare la linea della Nato ad Est, per quanto dalla Russia non sia mai stata creata alcuna situazione tale da giustificare tale spostamento.
D’altro canto, se si guarda indietro agli anni ’90, la strategia statunitense emerge con assoluta chiarezza. L’espansione della Nato a Est è avvenuta passo dopo passo e non è ancora finita. Tutti i paesi dell’ex Patto di Var­sa­via (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Bulgaria, Romania), tre dell’ex Urss (Estonia, Lettonia, Lituania) e due della ex Jugo­sla­via (Slovenia e Croazia) sono stati progressivamente inglobati e l’imperialismo occidentale ha spostato la sua capa­cità nucleare sempre più vicino alla Rus­sia, compreso lo scudo antimissili (che non è strumento difensivo ma offensivo), con proteste russe sempre più patetiche per la loro sterilità. Oggi solo chi non vuole vedere può negare che la posta in gioco sia l’ingresso dell’Ucraina nella Nato, e non la sua mera adesione all’Ue; ovvero negare l’esistenza di una strategia volta a impegnare sempre di più la Rus­sia nella corsa agli arma­menti, per metterla in difficoltà economica. È un vecchio copione, ma sempre valido.
Le manovre per conglobare l’Ucraina nella Nato sono cominciate subito dopo la disgregazione dell’Urss. L’Ucraina dapprima è entrata a far parte del Consiglio di Cooperazione Nordatlantica» e poi, nel 1994, della «Partnership per la Pace», in tale veste partecipando a operazioni “umanitarie” nei Balcani; poi nel 2002 avemmo il Piano di Azione Nato-Ucraina, con l’allora presidente ucraino Kuchma che annunciò l’intenzione di aderire alla Nato. Nel 2005, fatta la “rivoluzione arancione”, il presidente Yushchenko fu invitato a un summit della Nato a Bruxelles. Ne seguì il cosiddetto “dialogo intensificato sull’aspirazione dell’Ucraina a divenire membro della Nato” e nel 2008 a Bucarest fu dato il via libera. Nel 2009 l’Ucraina firmò un accordo sul passaggio attraverso il suolo ucraino di rifornimenti per le truppe occidentali in Afghanistan. Sembrava in dirittura di arrivo l’adesione alla Nato, ma nel 2010 ecco che appena eletto il nuovo presidente Janukovich annunciò che questa adesione alla Nato non era in programma. Tuttavia la Nato aveva già instaurato legami nelle Forze Armate ucraine: suoi ufficiali partecipano a corsi del Nato Defense College a Roma e in Germania (a Oberammergau); nell’Accademia Militare ucraina è stata inaugurata una “facoltà multinazionale” con docenti della Nato; si è sviluppata la collaborazione tecnico-scientifica sugli armamenti; per chiarire ad usum delphini ruolo e della Nato è stato istituito a Kiev un Centro di Informazione che organizza incontri e seminari. La consapevolezza di comandare la conferma il fatto che  Segretario Generale della Nato il 20 febbraio ha intimato alle Forze Armate ucraine di restare neutrali, per non incorrere in “gravi conseguenze negative”.
Illuminante – e non corroso dal passare degli anni – è il libro La Grande Scacchiera, l’America e il resto del mondo (1997) di Zbigniew Brzezinski, ex consigliere per la sicurezza nazionale di Carter. In esso risulta senza mezzi termini che la sfida principale per gli Usa è l’Eurasia (lo spazio che va dall’Europa occidentale alla Cina passando per l’Asia centrale) e sotto questo profilo egli ha scritto che «Dal punto di vista americano, la Russia sembra destinata a divenire un problema», e da qui l’interesse a minarne la posizione nella regione. Ma non basta: «La politica degli Stati Uniti ha anche lo scopo d’indebolire la Russia e privare di autonomia militare l’Europa. Da qui l’allargamento della Nato verso l’Europa centrale e orientale al fine di sostenere la presenza degli Stati Uniti, mentre la formula della difesa europea capace di contrastare l’egemonia americana sul vecchio continente comporterebbe un “asse anti-egemonico” Parigi-Berlino-Mosca». Di fronte a questa situazione, la rimembranza delle prevaricazioni e delle ingiustizie russe sull’Ucraina serve solo a inquadrare la posizione dei locali settori antirussi, ma è ininfluente ai fini dell’analisi della situazione globale ingenerata dai fatti di Kiev. E che essi costituiscano una vittoria per l’imperialismo occidentale è difficile da confutare.     
Per quanto la risposta russa non sia stata immediata, tuttavia al suo manifestarsi è apparso chiaro che Mosca non era impreparata. D’altro canto, se allo stato delle cose l’attuale dirigenza russa fosse rimasta inerte o in seguito Mosca cedesse ai diktat occidentali sull’Ucraina, firmerebbe la propria morte politica e darebbe un rilevante e forse decisivo successo all’imperialismo occidentale. Per questo va scontato il fatto che il cedimento non  ci sarà.
La reazione russa alle sanzioni potrebbe consistere politicamente nel dare una stabile definizione organizzativa a Transnistria [o Transdniestria], Abkhazia, Ossezia del Sud, e anche ad appoggiare in modo un po’ più concreto di oggi le aspirazioni secessioniste in Bosnia (Republika Srpska) e nel Kosovo del Nord, creando un notevole imbarazzo all’Unione Europea che dopo le elezioni del maggio prossimo sarà alle prese, nel suo Parlamento, con la crescita di movimenti comunque antieuropei. Resta aperto il problema dell’Ucraina orientale, dove già ci si agita e si muore: se Mosca avesse il destro dell’esigenza di tutelarvi la popolazione russa, allora la crisi si aggraverà. E poi restano aperte le questioni di Siria, Iran, Iraq, Venezuela e Cuba, e non è detto che manchi del tutto l’appoggio cinese (già la Cina guarda malamente alle manovre statunitensi in Thailandia e Myanmar).

Le sanzioni

Le sanzioni economiche certamente faranno male alla Russia, che tuttavia – oltre a poter contare sulle strutture dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai e sulla Banca mondiale dei cosiddetti Brics – non è del tutto inerme, e alla fine le sanzioni potrebbero ritorcerci contro chi le attua.
Il presidente della Sottocommissione per gli Affari europei del Senato Usa, Chris Murphy, ha annunciato il congelamento di fondi bancari russi pubblici e di privati. Potrebbero essere aumentati i tassi di interesse sui prestiti a mutuatari russi, ma un po’ meno probabile appare il blocco dei pagamenti a società russe mediante banche corrispondenti statunitensi. Per l’Europa la sanzione più efficace sarebbe il cambio degli approvvigionamenti energetici, tuttavia non realizzabile in tempi brevi, e quindi si dovrebbero adottare strategie a medio se non a lungo termine. In teoria l’alternativa alla Russia potrebbe essere l’Iran (il secondo produttore di gas al mondo, e con giacimenti più vicini all’Europa), ma ci vorrebbero almeno 10 anni per arrivare a tale sostituzione. E oltre tutto se Teheran decidesse di compiere questo passo, addio appoggio russo per la questione del nucleare iraniano e per gli armamenti. Altra soluzione per l’Ue potrebbe consistere nell’esportazione di gas liquido dagli Usa all’Europa, oggi soggetta a restrizioni legali statunitensi. Comunque, quand’anche fossero abolite, non si avrebbe l’invio immediato per la mancanza dei necessari terminali. Non sembra quindi azzardato dire che la riduzione degli acquisti di gas russo è ancora praticamente impossibile, oggi e nell’immediato futuro, con l’aggravante per l’Unione Europea di dover investire decine o centinaia di miliardi di dollari per creare le idonee infrastrutture per diversificare il suo approvvigionamento (costruire gasdotti e impianti di rigassificazione). Infine c’è il non indifferente problema del dove comprare il gas[1], mentre la Gazprom ha già iniziato l’estrazione di petrolio nel giacimento artico di Prirazlomnoe nel Mare della Pečora, e si prevede che per la fine del 2014 saranno prodotte almeno 300 mila tonnellate di petrolio.
Circa il fatto che la Russia non resterà inerte va citato Sergej Glaziev, consigliere del Presidente della Federazione Russa, per il quale in caso di sanzioni applicate a entità pubbliche russe Mosca potrà dichiarare irrecuperabili i crediti concessi alle aziende russe dalle banche americane, e questo oltre tutto aumenterebbe i tassi di assicurazione dei rischi commerciali. Nemmeno sono da escludere le rappresaglie sui beni delle società occidentali in territorio russo. Prima o poi o i grandi capitalisti occidentali premeranno perché finiscano le perdite causate loro dalle sanzioni (variante economicista del famoso “morire per Danzica?”).

L’Ucraina può essere contagiosa per l’estrema destra europea

Mentre in Occidente prevale il coro degli entusiasti per gli avvenimenti ucraini, non mancano organismi d’informazione in cui cominciano a manifestarsi i timori per le connotazioni di estrema destra esistenti tra i vincitori di Kiev, tanto più che le destre estreme sono in fase espansiva nell’Europa occidentale e in Ungheria è al potere una destra dalle forti connotazioni nazifascistoidi. Oggi grazie all’Occidente fra i personaggi politici emergenti troviamo individui dalla connotazione politica ben poco “rassicurante” (a voler essere ottimisti): Andrej Parubij, oggi Segretario del Consiglio nazionale sicurezza e difesa, cofondatore del Partito Social-Nazionale d’Ucraina; Dmitrij Jarosh, oggi Vicesegretario del medesimo organismo, capo del Trizub Stepan Bandera” e di “Fazione Destra”, ex combattente in Cecenia con gli islamisti ceceni, e collegato con Doku Umarov, considerato dall’Onu membro di al-Qaida; Aleksandr Sych, oggi Vicepremier e membro del Partito per la Libertà (Svoboda); Igor Tenjukh, oggi Ministro della Difesa, seppure la sua adesione formale allo  Svoboda non sia certa, ha partecipato comunque a varie sue riunioni; Sergej Kvit, oggi Ministro della Pubblica Istruzione, membro dello Svoboda; Andrej Mokhnik, oggi Ministro dell’Ecologia e delle Risorse Naturali, ugualmente membro dello Svoboda; Igor Shvajka, oggi Ministro delle Politiche agricole e alimentari, anch’egli membro di quel partito; Dmitrij Bulatov, oggi Ministro della Gioventù e dello Sport, membro di Una-Unso, noto per aver dichiarato di essere stato rapito e torturato orribilmente il 22-31 gennaio 2014, e poi ricomparso in perfetta salute un mese dopo; Oleg Makhnitskij, oggi Procuratore generale dell’Ucraina, membro dello Svoboda. Ancor meno rassicuranti sono i “padrini” statunitensi dei nazionalisti ucraini. Per l’organizzazione delle manifestazioni a Kiev i non-entusiasti puntano l’indice sull’Ukrainian Congress Committee of America” (Ucca), emanazione della fascista Organization of Ukrainian Nationalists. L’Ucca dal canto suo ha forti legami con il partito ucraino Svoboda . E come dimenticare Oleh Tyahnybok che, oltre ad accusare la “mafia moscovita-giudaica”, nel 2010, definì John Demjanjuk – famoso massacratore di ebrei durante l’occupazione tedesca - “eroe che si batte per la verità” ed è in stretti rapporti col gruppo neonazista ucraino “Fazione Destra”? D’altro canto, il riemergere dell’antisemitismo in Ucraina - terra di progrom autoctoni e dove abita la quarta comunità ebraica del mondo per consistenza – e la proibizione della lingua russa a danno di una rilevante minoranza russofona, sono tutti dati che potrebbero fungere da precedenti di riferimento se non contrastati. 

Violazione russa degli accordi sull’integrità territoriale ucraina: ma è vero?

La rinuncia dell’Ucraina alla sua porzione di arsenale nucleare ex sovietico avvenne in cambio di protezione dell’Occidente e di garanzia russa circa l’inviolabilità dei confini. Per questo a Budapest nel 1994 Russia, Usa e Regno Unito firmarono il Budapest memorandum on security assurances. Un testo che risulta poi ratificato da nessuno dei Parlamenti dei paesi firmatari, e quindi non è pervenuto al rango di trattato internazionale, rimanendo una raccolta di intendimenti non vincolanti per nessuno. Ma a parte ciò, si tratta di un documento tale da fare inorridire anche un avvocato di prima nomina. I punti essenziali sono: rispetto dell’indipendenza, della sovranità, e dei confini dell’Ucraina; rinuncia a usare o minacciare l’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’Ucraina, a parte i casi di autodifesa o che siano in accordo con i principi della Carta dell’Onu; astensione da forme di pressione economica per subordinare al proprio interesse l’esercizio dei diritti sovrani da parte dell’Ucraina, e per assicurarsi vantaggi di qualsiasi tipo; richiesta di intervento immediato del Consiglio di Sicurezza dell’Onu per assistere l’Ucraina se vittima di atto di aggressione oppure oggetto di minaccia di aggressione con armi nucleari; rinuncia all’uso di armi nucleari contro Stati non nucleari; consultazioni in caso del sorgere di qualsiasi problema riguardanti i predetti punti.
Quand’anche fosse stato ratificato, risalta subito la sostanziale mancanza di garanzie al di là di quelle dell’Onu; non c’è nessun obbligo di intervento dei firmatari a difesa dell’indipendenza e integrità territoriale ucraina, ma solo quello di consultarsi e di rivolgersi al Consiglio di Sicurezza. D’altro canto, proprio alla stregua dell’atto di Budapest, la possibilità dell’uso della forza (contro l’Ucraina) in caso di autodifesa potrebbe finire con l’includere l’intervento russo in Crimea se si considera (o si interpreta come) atto di aggressione il golpe di Kiev. Su queste cose i giuristi vanno a nozze.    

Che si prospetta per l’Ucraina nel connubio con l’Europa?

Nel corso delle prime manifestazioni filorusse in Crimea si è notato un giovane con un cartello sicuramente un po’ retorico, ma tutto sommato azzeccato: vi si diceva “in Russia abbiamo dei fratelli, in Europa saremmo schiavi”. Oggi molti ucraini sono convinti di trovare una vita migliore nell’abbraccio con l’Europa; con maggior certezza incontreranno colossali e cocenti delusioni. Innanzi tutto perché, al pari dei Greci, pagheranno un conto salato in termini sociali e umani con l’arrivo del Fmi. In aggiunta a ciò, e anche a prescindere, l’inserimento nello spazio dell’Ue comporterà notevoli sconvolgimenti: è chiaro che all’Europa non interessano affatto né l’industria ucraina né una produzione ad alta tecnologia. Si prospetta cioè per l’Ucraina il ruolo di provincia agricola da sfruttare intensamente e in cui magari diffondere coltivazioni transgeniche. Sarebbe miracolosa una crescita economica dell’Ucraina tenuto conto della massa di debiti a cui l’Europa la obbligherà. Resta sempre l’incognita della possibilità che l’Europa – nella sua attuale congiuntura – sia in grado di fornire all’Ucraina i 30 miliardi di euro necessari perché essa eviti la catastrofe. Intanto la Gazprom, col suo credito di 2 miliardi di dollari verso l’Ucraina per gas non pagato, sta suo malgrado fungendo da finanziatrice di un’economia oggi nelle mani di nazionalisti che già vanno in giro col metaforico cappello in mano a elemosinare (magari avranno un po’ di quel che alla Grecia fu negato, ma non basterà). È fuori discussione che l’Ucraina avrebbe grande bisogno di espandere il proprio commercio estero, ma con la rottura totale in corso con la Russia, potrà mai compensare con esportazioni verso l’Ue, mercato la cui domanda interna è quanto meno asfittica?  



[1] Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia un terzo del gas comprato dall’Ue proviene dalla Russia (si tratta oggi di almeno 170 miliardi di metri cubi); i paesi del Nordafrica sono in grado di fornire meno di 50 miliardi di metri cubi; Iran e Azerbaigian arriverebbero insieme a una sessantina di miliardi di metri cubi. I prezzi rischiano di essere maggiori di quelli russi. E poi c’è il fatto che avere un unico grande fornitore – per  quanto a volte politicamente scomodo – è più agevole del trattare con una pluralità di soggetti con le loro condizioni differenziate. La lista dei clienti della Gazprom e dei loro consumi è la seguente: Germania, per almeno il 42% del suo consumo annuale; Turchia, il 67% circa del fabbisogno; Italia, per circa il 28% del fabbisogno; Gran Bretagna,  per il 16% del consumo; Francia, 24% del fabbisogno; Ungheria, 60% del fabbisogno; Repubblica Ceca, 80% del fabbisogno; Polonia, 50%; Austria, 60%; Grecia per i ¾; Slovacchia, Bulgaria, Finlandia e Bosnia sono vicini al 100%.  

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