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giovedì 5 dicembre 2013

SULLA PROPOSTA DI FRANCA PERONI E MAURIZIO SCARPA*, di Andrea Furlan

Cari Maurizio e Franca,
sento di poter utilizzare con voi un tono confidenziale nel rispondere al vostro elaborato critico perché, soprattutto con Maurizio, ci conosciamo ormai da diversi anni, nel corso dei quali abbiamo spesso polemizzato confrontandoci politicamente.
Attraverso questo mio contributo vorrei scambiare con voi alcune considerazioni in merito a quanto da voi sostenuto nella vostra lettera pubblica e sull'analisi politica e la relativa proposta che lanciate alla vigilia del XVII congresso nazionale della Cgil ormai alle porte.
La vostra lettera ha sicuramente il pregio di voler innescare all'interno e all'esterno della Cgil una riflessione ad ampio raggio sullo stato dell'arte della nostra organizzazione, denunciando il processo involutivo determinatosi all'interno della Cgil negli ultimi anni. 
Il pensiero centrale del vostro ragionamento, è tutto centrato nel mettere a fuoco gli ultimi anni dell'agire politico della Cgil.
Avete giustamente sottolineato gli arretramenti importanti subiti dell'organizzazione sul piano della democrazia interna e la mancanza di autonomia della Cgil nei confronti del quadro politico di centrosinistra.
Su questi due assi del vostro ragionamento, non ho particolari difficoltà nel sostenere le vostre ragioni che sono anche le mie.
Devo però dissentire sui tempi da voi indicati nel vostro documento, dove si evince che l'involuzione della Cgil verso il sindacato dei servizi per voi è iniziato con l'avvento di Guglielmo Epifani alla segreteria nazionale Cgil e si sta concludendo con Susanna Camusso.
Questa vostra spiegazione, oltre ad essere sbagliata sul piano temporale, sottende una visione politica che ha contribuito a innescare una serie di scelte che provengono tutte dalla stessa radice: il riformismo.
E neanche del più coerente come la vostra storia sindacale ne è testimone. 
Se le cose fossero andate realmente come da voi sono state descritte, sarebbe a mio modesto avviso difficilmente spiegabile il cambiamento repentino avvenuto in un lasso di tempo così breve nel seno della più grande organizzazione sindacale italiana.
E mi sembra alquanto azzardato sostenere che la Cgil, prima dell'avvento dei due ultimi segretari generali Epifani-Camusso, era ancora un’organizzazione in linea con i compiti politici di una struttura proveniente dalla storia del movimento operaio anche se nell'accezione riformistica.
Quando si fa appello alla necessità di tirare un bilancio, non lo si può intendere solo in relazione alle scadenze congressuali, ovvero ogni quattro anni, perché come voi sostenete, la Cgil ha subito un cambiamento genetico dell'organizzazione, un cambiamento profondo anche in relazione ai mutamenti avvenuti in seno ai partiti della "sinistra" post muro di Berlino.
Io penso che l'involuzione della Cgil sia iniziata molto ma molto tempo prima, e la situazione odierna è il frutto di un lento ma inesorabile processo che affonda le sue radici nella cultura stalinista del Pci, che nel corso dei decenni è naufragata in relazione con la deflagrazione dell'Urss.
La successiva trasformazione di un partito a vocazione socialdemocratica - che il Pds-Ds ha tentato di essere - in un partito organicamente e direttamente espressione degli interessi del capitalismo italiano che è l'odierno Pd, ha determinato nella Cgil all'inizio un senso di smarrimento e successivamente il suo gruppo dirigente burocratico senza colpo ferire si è adattato al corso delle cose.
Se escludiamo la fase storica del biennio rosso e la favolosa esperienza dei consigli - dove l'allora (CgdL) e la Fiom erano strettamente legate al Partito socialista italiano, con il quale tentarono attraverso l'occupazione delle fabbriche di innescare un processo rivoluzionario - dopo quell’esperienza non ci sono stati più tentativi di costruire un movimento dei lavoratori su basi rivoluzionarie come espressione dell'azione politica  e sindacale.
Tutto ciò che è avvenuto dopo, comprese le conquiste sociali degli anni Sessanta e Settanta, è stato innescato dal movimento studentesco del ‘68 e dalle lotte operaie autorganizzate dei consigli nel ‘69 che hanno ottenuto la conquista dello Statuto dei lavoratori e della riforma delle pensioni.
E tali conquiste sono state ottenute da un movimento che scuoteva nelle fondamenta sia la burocrazia di matrice togliattiana del Pci, con una chiara e lampante avversione nei confronti dell'Urss, sia la burocrazia sindacale della Cgil che, per non perdere il contatto con le masse, fu costretta a seguirle sul terreno della lotta politica e sindacale, dello scontro frontale con il padronato italiano.
Quindi, a mio avviso, si compie un errore teorico nel sostenere che la Cgil e il suo gruppo dirigente burocratico, prima dell'avvento del binomio Epifani-Camusso, sia stata un organizzazione all'avanguardia delle lotte e che tutto sommato malgrado i suoi limiti, abbia agito in difesa delle conquiste sociali dei lavoratori.
Secondo il mio parere, e non solo secondo il mio, la cosiddetta cinghia di trasmissione che indissolubilmente ha legato il Pci alla Cgil, continua ancora adesso sotto altre forme a legare la maggioranza della Cgil al Pd, e adesso come allora quel rapporto organico continua ad essere funzionale in rapporto agli interessi del capitalismo italiano.
Tali interessi sono stati rappresentai degnamente dalle politiche concertative della Cgil le quali erano mirate anche a preservare i compromessi realizzati tra il Pci e la Dc.
 Ora, invece, assistiamo - come ulteriore degenerazione di quelle sciagurate politiche e del parlamentarismo borghese - all'affermazione spudorata di un vero e proprio consociativismo politico tra Pd e Pdl (al di là delle sigle e delle spaccature in quest’ultimo).
Considero anche intempestiva, oltre che limitata ad analizzare solo ed esclusivamente alcuni aspetti, la critica della burocrazia Cgil e delle sue componenti di sinistra.
La storia delle sinistre sindacali nella Cgil è una storia tutto sommato recente, che nasce nel periodo di riflusso del movimento dei lavoratori italiani e come risposta alla fine delle componenti socialiste e comuniste nella Cgil.
Quindi è da li che dobbiamo partire per analizzare gli errori commessi.
Non possiamo limitarci a criticare l'ultima esperienza di sinistra sindacale "la Cgil che Vogliamo" come se fosse stata l'unica esperienza ad aver fallito in Cgil.
Nella storia delle "sinistre sindacali" dobbiamo riconoscere che nessuna di esse: Essere Sindacato, Alternativa sindacale, Lavoro e società, Area dei Comunisti, Rete 28 Aprile, La Cgil che vogliamo, sono state costruite per assolvere a un obiettivo di natura politica per cambiare la linea del sindacato, o per costruire il sindacato di classe come si è sempre scritto nei documenti.
La vera finalità, mai dichiarata apertamente, era e continua ad essere, il riposizionamento dei dirigenti in seno ai posti di direzione politica dell'organizzazione.
Al massimo, lo scontro sindacale - e qui risiede l'errore principale di queste esperienze - si è svolto nel recinto dello scontro interburocratico senza realmente mai coinvolgere il corpo attivo dei lavoratori e senza porsi veri obiettivi di riconquistare dopo la fine dei consigli (svolta dell'Eur), una nuova partecipazione democratica dei lavoratori fondata sul protagonismo dei delegati di fabbrica e di posto di lavoro.
L'involuzione democratica della Cgil non è solo espressione della forma mentis del gruppo dirigente legato alla coppia Epifani-Camusso, ma è il frutto anche delle responsabilità delle sinistre sindacali che sul piano della democrazia interna sono a loro volta mancate.
Su questo versante, non si è mai riusciti a innescare un processo dialettico tra lavoratori e gruppo dirigente (funzionari e segretari di categoria e confederali), oltre al fatto che tra ciò che si teorizza e ciò che invece si realizza, vi è sempre stata una distanza siderale.
L'assunzione del fine che "giustifica i mezzi", non è stato appannaggio solamente della maggioranze della Cgil, ma ha investito anche le minoranze congressuali che purtroppo non continuano a rappresentare un’alternativa di prassi sindacale che coniughi la teoria con l'agire coerente.
Tutto ciò ha contribuito a determinare l'involuzione democratica e la svolta verso destra dell'organizzazione.
I segnali della "caporetto" sindacale, come voi definite la sconfitta dei lavoratori italiani, erano ben presenti già da diversi anni e nessun dirigente sindacale appartenente alle "aree programmatiche" o mozioni congressuali ha colto fino in fondo.
Non mi sembra di dire un eresia, ma solamente di fare una mera e semplice constatazione se dico che le "aree programmatiche o sinistre sindacali", non sono servite a nulla per arginare l'involuzione della Cgil e, di questo, non possiamo non tenerne conto.
Anche io condivido la vostra proposta di ripartire dai delegati di base per tentare di invertire la rotta, e visto che tale proposta è patrimonio della mia storia politica e sindacale che da anni coerentemente la porto avanti, anche contro il parere della burocrazia di sinistra, penso che da lì si debba tentare di ripartire con tutte le difficoltà della fase storica.
Quindi, sulla base di queste mie riflessioni riguardo ad una storia che - nel bene o nel male ci accomuna, penso che si stia aprendo una fase di collaborazione.
Con la mia esperienza di lotta sindacale e di rappresentanza diretta sul "campo", vorrei dare un contributo a ciò che proponete.
Contate sul mio impegno sulla ricostruzione di una rete di delegati e delegate intercategoriale che diventi punto di riferimento per la generalizzazione unitaria delle lotte sociali e sindacali.
Come ha dimostrato di recente la vertenza dei lavoratori dei trasporti di Genova, le potenzialità di conflitto radicale e di generalizzazione dei contenuti e delle forme di lotta, possono ancora emergere nonostante i disastri compiuti per decenni dagli apparati politici e sindacali. 
Andrea Furlan
Rsa - Direttivo Filcams Roma nord e Camera del lavoro di Roma Nord.

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LA Cgil  CHE NON C’E’

“Anche se la colpa è al 99% del padrone, se c’è un 1% che ci riguarda è su questo che io voglio lavorare” Giuseppe Di Vittorio – Direttivo della Cgil  1955  sulla sconfitta alla FIAT –

Care compagne cari compagni

Nei prossimi giorni si avvierà il percorso per lo svolgimento del XXVII congresso della Cgil.
In questa fase si chiude anche l’esperienza dell’area programmatica la Cgil che Vogliamo. Una fine ingloriosa per un collettivo ed un progetto che aveva aperto tante speranze in centinaia di dirigenti sindacali e in centinaia di migliaia di iscritti che ci avevano sostenuto al congresso scorso. Una speranza di cambiamento nel più grande sindacato del nostro paese che stava scendendo una china di involuzione rispetto al proprio passato, un cambiamento che avevamo sintetizzato in una parola centrale per il nostro documento: discontinuità.
Come è andato il congresso passato lo sappiamo tutti.  “Il fine giustifica i mezzi”, e tutti i mezzi sono stati utilizzati per costringere in uno spazio marginale la minoranza congressuale, negandole ogni dignità politica. 
Questo “successo” ha persino accelerato l’involuzione della Cgil verso  un  modello sindacale di accettazione silente del semplice ruolo di patronato, tanto assistenziale quanto accondiscendente con la strategia del sistema politico.
In soli 5 anni, dal 2008 al 2013, si è concluso nel nostro paese un progetto, scientificamente studiato da  anni, che ha totalmente annullato il ruolo del lavoro dipendente come soggetto politico   Costituzionalmente sancito. 
Tutto ciò si è realizzato con il totale assenso di Cisl e Uil e con una Cgil sostanzialmente inattiva, quindi accondiscendente perché ormai subalterna al PD,  nella cui orbita politica si è collocata sin dalla segreteria di Epifani. Percorso resosi peraltro esplicito in tutta la sua evidenza con l’elezione di quest’ultimo a segretario del  partito:  oggi le tesi e le proposte sostenute da massimo esponente del PD chiariscono meglio di mille parole i suoi precedenti comportamenti,  quando dirigeva la Cgil.
Un congresso dovrebbe essere il tempo di bilancio, di analisi e di proposta.
E mai come oggi avremmo bisogno di un bilancio. 
Evidentemente chi ha governato la Cgil in questi anni non ha nessuna voglia di fare bilanci che senza dubbio posso essere ricondotti ad un termine: “Caporetto”. Non un provvedimento del Governo o dei padroni ha visto la Cgil coinvolta, non una sola proposta ha trovato udienza ai tavoli o nelle leggi. Per quanto moderate fossero le proposte della Cgil hanno visto le controparti ignorarle.
E, quando si è sottoscritto un accordo, lo si è fatto accettando in toto il testo delle controparti. Eclatanti in questo senso l’accordo del 28 giugno, dove si è fatto un “copia incolla” dell’accordo separato del 22 gennaio e l’avviso comune fatto con Confindustria nell’agosto 2011, dove si chiedeva la parità di bilancio in Costituzione, scelta definita dai documenti del comitato direttivo “una sciagura”. L’ultimo accordo sulla rappresentanza: onestà intellettuale vorrebbe  fosse letto alla luce di quanto approvato da quel direttivo convocato d’urgenza, di sabato, dopo le note vicende alla Fiat.
In questi anni abbiamo avuto la cancellazione-controriforma del sistema pensionistico (ci ricordiamo lo slogan di Camusso, “40 anni numero magico”). Abbiamo subito lo svuotamento dell’articolo 18,  anche qui anticipato da roboanti dichiarazioni stampa e striscioni in piazza ”l’art. 18 non si tocca”. Per non parlare del collegato Lavoro, che avevamo definito incostituzionale preannunciando “barricate” contro la certificazione dei contratti e l’arbitrato, per poi inserirli nei contratti firmati anche dalla Cgil. Per non dimenticare la continua, persistente riduzione del ruolo del pubblico, con il progressivo “prosciugamento” di scuola (con la riforma Gelmini persino consolidata dai governi della larghe intese), delle autonomie locali, sanità, servizi sociali che hanno
ridotto ormai a ruolo residuale il sistema di welfare italiano. Per non parlare della contrattazione, dove le piattaforme sono carta straccia e la negoziazione affronta solo le richieste delle controparti. In questi anni, pur di firmare, la nostra organizzazione ha accettato di ridurre i diritti dei nuovi assunti, di aumentare l’orario di lavoro, di rinunciare al pagamento della malattia lasciando l’organizzazione della prestazione lavorativa totalmente in mano alla volontà dell’azienda. Ed ancora. Nel lavoro pubblico si nega da anni sia il rinnovo del contratto nazionale, che della contrattazione integrativa, arrivando al punto che il governo Monti inserisce nella legge che l’unico vincolo nei confronti del sindacato è “l’informazione”.
La lista è lunga, ma non per questo va dimenticata. Analizzare tutto ciò sarebbe il principale compito di un Congresso.
Ammettere una sconfitta (ed analizzarne le cause) è una buona base di partenza se si vuole tornare a vincere. Di Vittorio insegna.
Purtropp,o questo congresso della Cgil si apre anche con la scelta della maggioranza della “Cgil che Vogliamo” di rinunciare alla battaglia per il cambiamento, ricercando strade “unitarie”,  nell’attesa di un messianico quanto indefinito cambiamento futuro.
Il problema non è lo strumento (documento alternativo si o no), che come sempre è subordinato alle possibilità di incidere ma, come detto, è l’analisi.
Nel passato la sinistra sindacale ha saputo incidere, sia con percorsi alternativi che con quelli unitari. 
Oggi può esserci una analisi condivisa nei punti strategici con questa maggioranza della Cgil?
A ognuno di noi la risposta.
La nostra è no. Un no deciso, che affonda le proprie radici in quel cambiamento della natura della Cgil che la segreteria Epifani prima, Camusso dopo, ha imposto. La Cgil ha oggi cambiato la propria natura, perdendo la propria autonomia dai partiti e l’indipendenza dai padroni.
I tanti errori, denunciati dalla nostra area in questi anni, si sono amalgamati nel tempo diventando il cemento armato su cui oggi poggia l’agire della Cgil. Per difendere un percorso politico si sono accettate scelte che hanno lentamente cambiato il Dna di un sindacato confederale, e una volta avremmo definito , seppur moderato, “di classe”. La cosa grave è che questo cambiamento non è stato nè discusso, nè tantomeno frutto di una scelta consapevole, ma conseguenza di una accettazione passiva della evoluzione imposta da altri. Gli accordi sulla contrattazione e sulla rappresentanza nei fatti cancellano uno dei nostri pilastri, cioè che la democrazia si fonda sul voto di tutti gli interessati  e le interessate e che le Rsu sono il nostro strumento strategico di rappresentanza nei luoghi di lavoro.
Il finanziamento al sindacato è sempre meno proveniente dai tesserati e sempre più dagli enti bilaterali e dalle quote di servizio.
Oggi categorie come la Filcams possono vivere senza alcun iscritto/iscritta, ma non senza le risorse economiche provenienti dall’essere  firmatari dei contratti e quindi messi alla mercè delle volontà padronali.
Un sindacato che non è più autonomo economicamente,  lo è tanto meno politicamente.
E quando per una organizzazione non è più indispensabile il consenso dei lavoratori  e delle lavoratrici, questa non  è più un sindacato.
Su questo non si può mediare.
Oggi più che mai sarebbe necessaria una alternativa al governo di questa segreteria diretta da Camusso.
Ma questo non sarà possibile.
Non è possibile, anche perché questo gruppo dirigente ha cancellato ogni spazio di confronto democratico in Cgil. Il dissenso è stato criminalizzato, togliendo ogni agibilità. Solo chi ha rinnegato il proprio percorso congressuale ha avuto vita facile ed in alcuni casi “avanzamenti di carriera”; per tutti gli altri vi è stata la marginalizzazione e in qualche caso l’espulsione dal gruppo dirigente. 
Come si è domandato un autorevole esponente della nostra area programmatica: “sono ancora “scalabili” gli organismi dirigenti della Cgil?”. E’ una domanda centrale. Perché una
organizzazione dove, per sua natura, non sono più modificabili “i governi”  non è più democratica.
Nella nostra non breve esperienza sindacale abbiamo sempre cercato, anche quanto eravamo minoranza nei numeri, di non essere minoritari nell’agire politico.
Oggi si può essere minoritari anche aderendo alla maggioranza.
Forse una massa critica seppur minoranza, ma non minoritaria, avrebbe potuto essere il seme che  avrebbe potuto dare un germoglio a primavera. Ma così non sarà, data la scelta della Fiom di rinunciare a questa battaglia.
Una scelta che non condividiamo, anche nella sua opzione di mettere in sicurezza la linea sostenuta in questi anni dai metalmeccanici Cgil. 
Le cittadelle assediate non resistono a lungo, e pensiamo che dopo il congresso si giungerà inevitabilmente alla resa dei conti tra la Cgil e la Fiom: anche perché non sarà più tollerata la presenza di due confederazioni nella stessa organizzazione. La dialettica tra categorie e confederazione, un tempo cavallo di battaglia di Sabatini ed oggi riproposto da Landini, dura solo se c’è un programma strategico condiviso (ci ricordava Trentin). Quando sono i progetti strategici ad andare in conflitto la strada è segnata. Una delle due ipotesi soccombe. 
Altra cosa un progetto che, seppur alternativo, è riconosciuto come un pluralismo confederale che può essere maggioritario in una categoria o in un territorio, ma non isolato, bensì inserito in una lotta generale. Confederale appunto.
Ma questo non sarà e dobbiamo prenderne atto.
In questo quadro abbiamo deciso di non partecipare al congresso, non potendo condividere il documento della maggioranza. 
Non ha senso partecipare solo per vedersi riassegnato un qualche posto garantito alla passata minoranza congressuale; peraltro, dopo aver criticato chi nel passato ha fatto scelte analoghe. Oggi riteniamo prioritaria la coerenza delle proprie azioni per sostenere (ed essere credibili domani) le proposte  e le analisi che si avanzano.
I compagni e le compagne dell’area “28 aprile” ci hanno chiesto di firmare il loro documento.
Lo abbiamo fatto con spirito di servizio. Noi siamo stati eletti da un mandato di “discontinuità”. Questi compagni e compagne si sentono di riproporre un documento alternativo, e se servono due firme perché lo possano fare aggirando i quorum dello statuto, siamo ben felici di poter permettere loro di confrontarsi con gli iscritti e le iscritte. 
Ma personalmente non crediamo che questa sia una strada percorribile, se non per ribadire una pura testimonianza. 
Con loro (con tutti coloro che sono interessati) saremo disponibili a lavorare, se lo vorranno, per ricostruire una rete di delegati e delegate, veri dirigenti sindacali di posto di lavoro, che siano l’embrione della rifondazione di un sindacato confederale di cui abbiamo così tanto bisogno.
Oggi il sindacato concretamente, come dimensione collettiva, è espulso dai luoghi di lavoro. La complicità di Cisl e Uil, la passività al limite della corresponsabilità della Cgil hanno posto la stragrande maggioranza dei lavoratori e lavoratrici in una condizione di disperante solitudine.
Da anni abbiamo affermato che “la precarietà non è solo un contratto a termine”.
Oggi precarietà è in ogni luogo di lavoro perché non c’è lavoro, pubblico o privato, che non viva sotto la spada di Damocle del ricatto, sia esso occupazionale, economico, di condizione lavorativa.
La mancanza di identità della Cgil è evidente anche nei risultati elettorali, dove la stragrande maggioranza dei lavoratori e lavoratrici è politicamente in rotta di collisione con i 15 mila funzionari a tempo pieno. Anche questo è segno della mancanza di consenso e della propria marginalità nei luoghi di lavoro. 
Il nuovo contesto politico è frutto dell’evoluzione della società, maturata in anni di politiche economiche e sociali liberiste e di relazioni sindacali fondate sull’accettazione della centralità della produttività a scapito dei diritti e del salario.
In questi anni, attraverso una copiosa ed unilaterale produzione legislativa dei Governi alternatisi a palazzo Chigi, si è prodotto un modello sociale dove il cittadino/lavoratore viene relegato in una dimensione di solitudine sociale. Paradossalmente si ha qualche diritto fuori dalla propria azienda, ma lo si perde quando si varca quella soglia per timbrare il cartellino.
La riduzione, sino alla cancellazione, dei diritti universali,  per trasformarli in condizione di miglior favore che ogni individuo, singolarmente deve riconquistare quotidianamente, ha prodotto quella cultura individualista egoista e competitiva,  egemone nella società in tutti i ceti sociali. 
Poi, quando la crisi economica e morale di questa società porta disagio e indignazione a livelli insopportabili, si risponde con l’unico strumento che è immediatamente percepibile: il rifiuto dell’esistente.
Evidentemente manca una rappresentanza politica (da tempo) e (oggi) sociale del lavoro. 
Il congresso della Cgil non è più una occasione mancata, ma un passaggio ininfluente in questo scenario. 
Ripartire dai luoghi di lavoro è oggi la chiave di volta di un cambiamento che non è né breve, né scontato.  Anche il cambiamento della Cgil passa da questa strada che, al contrario, non passa più dai suoi organismi dirigenti, ormai estranei alle condizioni materiali del mondo reale.
Altre strade diventano dannose, se non consentono di prendere coscienza di questa realtà.
E’ questo un nostro pensiero che vogliamo confrontare con chi è interessato, fuori dai percorsi congressuali che ognuno di noi farà e dagli accordi congressuali. 
A chi è interessato proponiamo di farci sapere cosa pensa in un libero scambio di idee.
Comunque, sin da ora, proponiamo di vederci tra tutti coloro che sono interessati  a continuare questa riflessione per il giorno 1 febbraio 2014 in un luogo che decideremo collettivamente Una data lontana quando ormai la collocazione congressuale di ognuno sarà definita e quindi senza rischi di retro pensieri facili in questi periodi.
         Novembre 2013

*FRANCA PERONI  direttivo uscente nazionale FP
MAURIZIO SCARPA direttivo uscente nazionale FILCAMS
ed entrambi Direttivo uscente nazionale Cgil

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