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domenica 3 novembre 2013

GARIBALDI: PATRIOTA INTERNAZIONALISTA, PIONIERE DELL'ECOSOCIALISMO, di Carlo Felici

Giuseppe Garibaldi ha accompagnato da sempre la storia d'Italia, dal concepimento alla nascita, ed è probabile che se la memoria di questo grandissimo personaggio venisse oscurata definitivamente, con essa si eclisserebbe definitivamente anche l'Italia, sicuramente quella migliore.
Nonostante gli attacchi dei padani e dei filoborbonici, protesi a delegittimarne il valore e la straordinaria importanza storica, morale e politica, e nonostante i tentativi di imbalsamarne o di strumentalizzarne la figura, per meri obiettivi propagandistici - come è avvenuto da molte parti, persino opposte (basti solo pensare alla retorica celebrativa del regime fascista che vedeva nelle camicie nere le continuatrici di quelle rosse, oppure alle brigate antifasciste garibaldine che animarono le pagine più belle della guerra di Spagna e della Resistenza) - Giuseppe Garibaldi resta tuttora un punto di riferimento imprescindibile quando si parla di giustizia e di libertà, e soprattutto quando si cerca una autentica via rivoluzionaria per ribadire la nostra sovranità e la nostra unità di popolo proteso a testimoniare i migliori valori della nostra storia.
Si parla di lui chiamandolo “eroe dei due mondi”, trascurando però il fatto che il suo mondo fu sempre “uno solo”: quello della libertà e della giustizia sociale, ovunque: dal Sudamerica all'Europa. E questo perché la causa patriottica, internazionalista ed ecologista, furono in lui sempre un unicum per cui impegnarsi e lottare, non solo con la spada e con il fucile, ma molto anche con la penna, se consideriamo la mole dei suoi scritti (e del suo epistolario), purtroppo reperibili tuttora, nella loro completezza, in sei volumi solo in edizione antiquaria, risalente agli anni Trenta, e con un prezzo esorbitante, quando, invece, come le opere di Marx o di Gramsci, essi dovrebbero essere ristampati e a disposizione di tutti.
Il patriottismo di Garibaldi coincide infatti con il socialismo e con il suo internazionalismo, ma giammai con il nazionalismo: un’idea in gran parte formatasi nel Novecento, mediante una astratta idea di appartenenza non a una cultura o a un progetto di trasformazione sociale, ma per lo più a una razza, a una tradizione o a una “volontà di potenza”, militare e imperialistica, e che, non più sul piano politico, ma prevalentemente su quello economico, perdura tuttora.
La Patria di Garibaldi è quella di coloro che rivendicano la terra e la libertà, di chi cerca di emanciparsi, socialmente, culturalmente ed economicamente, ovunque nel mondo. Nella sua visione, chi combatte per una Patria, infatti, combatte per tutte le Patrie che condividono gli stessi intenti, tanto che lo stesso Garibaldi affermò che non avrebbe esitato a combattere contro la stessa Italia se essa avesse aggredito un altro popolo, e, sull'Aspromonte, ciò fu detto fatto, anche se poi lui stesso si rifiutò di combattere contro altri italiani, e preferì farsi azzoppare per tutto il resto dalla sua vita.
Nell'epoca di Garibaldi l'idea di Europa socialista era molto lontana, dato che prevalente era piuttosto quello spirito cosmopolitico che animava anche Mazzini, con cui si dava più risalto a un'Europa federata e su base borghese, rispetto alle singole nazioni e alla tendenza che essere mettevano in atto per prevalere le une sulle altre.
È uno spirito che oggi purtroppo ha completamente abbandonato non solo la sinistra, ma anche i gruppi dell’estrema sinistra che tendono piuttosto a riproporre un bieco nazionalismo autoreferenziale, tutto fondato sulla contestazione ad oltranza dell'euro considerato come capro espiatorio di ogni male, soprattutto di quelli atavici degli italiani: della loro eterna tendenza a dividersi in fazioni, ad appartenere a parrocchiette di ogni colore e a mafie di ogni sorta, in una permanente apologia del “particulare”: un rozzo e anacronistico antieuropeismo, dunque, come maschera grottesca delle proprie perduranti miserie, anche campanilistiche tra Nord e Sud.
Per cui oggi è molto più facile dare la colpa agli istituti sovranazionali (dei quali Garibaldi fu pionieristico rpropugnatore) o  all’Europa se non si sanno far fruttare i fondi europei, se non si sa amministrare correttamente il territorio, oppure se si preferisce entrare in affari con la mafia per risparmiare o speculare sullo smaltimento dei rifiuti, e via dicendo.

A scuola d’internazionalismo in America latina
Per Garibaldi gli anni della formazione in America latina restarono una scuola indelebile di prassi rivoluzionaria, tanto che, nelle sue Memorie, invece di dare risalto agli anni che vanno da Quarto a Porta Pia, si sofferma, dilungandosi piuttosto sui ricordi sudamericani e dice esplicitamente che quella in Uruguay fu la campagna più brillante della sua vita.
Lo stesso esempio di Garibaldi è stato appreso forse meglio dagli uruguaiani piuttosto che da noi italiani, se pensiamo che il loro attuale Presidente della Repubblica potrebbe essere benissimo una reincarnazione dello stesso Garibaldi, per esperienza guerrigliera, per amore della libertà, della semplicità e della giustizia sociale, oltre che della natura.
L’intera America latina considera tuttora Garibaldi come un eroe della sua storia, esattamente come Bolívar o come Martí: la toponomastica e non solo, lo testimonia abbondantemente.
Una lettura distortamente marxista e condotta con categorie di analisi culturali recenti tende a individuare nel pensiero di Garibaldi una sorta di contiguità con l'imperialismo europeo e in particolare britannico, trascurando però del tutto la fase più critica della guerra civile uruguaiana, con l'internazionalizzazione del conflitto e l'assedio di Montevideo, in cui Garibaldi fece la scelta di condividere la lotta di un piccolo popolo contro un dittatore brutale, lasciando completamente sullo sfondo le mire economiche e speculative dei potentati europei, specialmente di quello inglese.
In Sudamerica si affaccia alla sua coscienza anche la sensibilità animalista e la difesa della causa “meticcia”. Osservando le innumerevoli sofferenze inflitte agli animali, egli scrisse:
“E le sventure inflitte alle altre razze animali? Io credo: la morte una semplice transazione della materia, a cui conviene conformarsi pacatamente - anzi famigliarizzarsi con essa - Ma i patimenti inflitti da un essere all’altro! Oh! io credo che esistendo una vendetta della natura, essa dev’essere applicata ai ministri del rogo, delle torture e di qualunque sofferenza inflitta ad animale qualunque”.
Nel 1846 ebbe come luogotenente un certo “indigeno Paolo”, sulla cui etnia e sulle sventure che da essa gliene derivarono, Garibaldi denuncia apertamente i «predoni europei» che l’hanno resa infelice. Non sappiamo molto di Paolo e possiamo solo supporre che fosse un chanua, originario delle pianure uruguaiane, uno di coloro che furono sterminati da Rivera. Garibaldi li nomina una sola volta, quando dice di aver visto «l’ultima famiglia chanua mendicare un pezzo di pane nei nostri campamenti».

Nella Prima Internazionale
L'internazionalismo di Garibaldi risalta però in forma compiuta soprattutto nell’ultima fase della sua vita, quando, pur essendo azzoppato e permanentemente afflitto da una artrite fattasi cronica, continuò a combattere e a viaggiare in Europa, partecipando da protagonista alla Prima Internazionale. Nel 1864 il suo socialismo libertario trovò piena sintonia con quello di Bakunin che lo andò a trovare personalmente a Caprera, anche se fu avversato da Marx.
Nel corso della Prima Internazionale Socialista (che forse tuttora resta la migliore), fallita per gli insanabili contrasti tra seguaci di Marx e Bakunin, Garibaldi ebbe un ruolo da protagonista. Fu lui infatti a coniare il detto “L'Internazionale è il Sole dell'Avvenire.”
In essa Marx accusava Bakunin di avere idee poco aderenti alla realtà. Bakunin invece imputava a Marx di voler sostituire la tirannia borghese con una nuova forma di tirannia, non meno opprimente della prima. Come poi fu dimostrato dalla storia, nessuno dei due aveva torto.
Tra il 1869 e il 1870, alla vigilia della Comune di Parigi, pur formandosi sezioni dell'Internazionale in quasi tutti i paesi europei e facendosi decisiva l'azione di Bakunin in Svizzera, Spagna e Italia, con l'aumento delle lotte operaie e l'impegno di primo piano dei militanti internazionalisti, nacque il Partito Operaio Socialdemocratico, ad opera di Bebel e Liebknecht, ma nel congresso di Basilea si ebbe una spaccatura decisiva tra centralisti, seguaci di Marx e federalisti antiautoritari seguaci di Bakunin che segnò le future sorti dell'internazionalismo proletario.
Ciò accadeva dopo che già nel 1866 l'opposizione mostrata dalle sezioni dominate da proudhoniani e mazziniani verso gli indirizzi del Consiglio Generale aveva portato Marx ad affermare le stesse tendenze dell'internazionalismo proletario contro quelle che venivano definite istanze piccolo borghesi francesi e democraticiste italiane.
Il fallimento, in ogni caso, della idea di Mazzini di mobilitare i popoli europei in senso antiassolutistico e su scala europea che animò il suo progetto di Giovine Europa, fu evidente già dopo un breve lasso di tempo e naufragò nel 1836, sottoposto all'incessante controllo delle autorità svizzere pressate dai governi stranieri. La sua avversione per le idee socialiste era comunque esplicita e potremmo condensarla con queste sue parole: i socialisti sarebbero rei di avere "falsato, mutilato, rigredito quel grande pensiero con sistemi assoluti, che usurpano ad un tempo sulla libertà dell'individuo, sulla sovranità del paese e sulla continuità del progresso, legge per tutti noi, - sostenuto che la vita è ricerca della felicità, mentre la vita è una missione, il compimento di un dovere, - fatto credere che un popolo può rigenerarsi impinguando, - sostituito al problema dell'umanità, un problema di cucina dell'umanità, - detto a ciascuno secondo le sua capacità e secondo i suoi bisogni, invece di bandire: a ciascuno secondo il suo amore, a ciascuno secondo i suoi sacrifici…” E in ogni caso Mazzini non fu mai specificamente un federalista, né a livello nazionale né europeo.
Nel 1870, infine, le tensioni tra centralisti e federalisti si aggravarono a tal punto che questi ultimi, specialmente in Spagna e in Svizzera formarono una corrente autonoma dell'Internazionale, fino a scindersi del tutto.
Contrariamente al Mazzini, in Garibaldi vi fu comunque sempre la netta percezione che la lotta dei lavoratori non passa solo per forme di associazionismo e di miglioramento delle rappresentanze democratiche, ma si svolge e trova compimento mediante soprattutto l'impegno politico degli operai, egli dice infatti: "Di più del mutuo soccorso, le società operaie devono occuparsi di politica, cioè, procurar col tempo di avere un buon governo che non tolga i figli del popolo per il servizio di una monarchia, ma per quello del proprio Paese."
La posizione di Garibaldi fu favorevole a una società regolata dai criteri umanitari in cui lo Stato si prende cura scrupolosamente della "classe più numerosa e più povera" con la specificità di volere "una continuazione del miglioramento morale e materiale della classe operosa, laboriosa e onesta, conformemente alle tendenze umane di progresso di tutti i tempi".
Garibaldi non voleva una dittatura di una classe, ma non era nemmeno contrario all'intervento dello Stato, era per una sorta di "collettivismo maggiore", in anticipazione dell'idea dello Stato sociale moderno. Il giornale garibaldino La plebe, espressione delle frange più democratiche di quel movimento, scrisse con chiarezza: "due grandi correnti solcano il mondo. L'una è quella della libertà individuale o individualismo assoluto che mena all'egoismo. L'altra tende a centralizzare sempre gli interessi e mena al cosiddetto comunismo autoritario. La soluzione del problema consiste nell'armonizzare le due correnti".
Garibaldi promosse in Italia la costituzione di una Lega democratica, proprio per unire tutti i movimenti e i gruppi democratici e progressisti in un fronte comune che si occupasse delle "questioni razionali e sociali le cui soluzioni sono praticabili".
Una lezione che, purtroppo la cosiddetta “sinistra” italiana non ha mai appreso né tuttora dimostra di voler apprendere.

Attualità rivoluzionaria di Garibaldi
Garibaldi continua in ogni caso tuttora, dall'alto della sua straordinaria testimonianza civile e morale, ad essere un punto di riferimento imprescindibile, anche per quella sinistra rivoluzionaria che, dal Sessantotto ad oggi, non ha mai smesso di contestare la sclerotizzazione di un sistema borghese avvitato su se stesso, propugnando la necessità della lotta internazionalista.
Prova ne sia l’intervento di uno dei suoi protagonisti - Roberto Massari, col suo Garibaldi “sovversivo da salvare” [articolo pubblicato nel blog di Utopia Rossa a marzo del 2011 (n.d.r.)] - che, nella sua introduzione ad alcuni brani tratti dalle Memorie del Generale, afferma:
“Questo è lo stato d’animo - di ex garibaldino-non-ancora-a-riposo - con cui mi sono messo a estrarre dalle Memorie di Garibaldi alcune parole sue, contenenti le indicazioni ideali che mi sembrano aver incarnato la sua grandezza in campo etico (senza dimenticare le molte debolezze e fragilità in campo politico, che però qui non potevano essere prese in considerazione: altri sicuramente provvederanno a farlo). E nel sottolineare questa grandezza etica del personaggio, non ho potuto tralasciare di indicare la sua refrattarietà alla gestione personale del potere, il suo rifiuto di trasformare in carriera politica la celebrità gigantesca di cui godeva in Italia e nel mondo (forse il primo politico mondialmente mass-mediatico della storia e a livello intercontinentale).”
Massari, si sa, è uno dei più importanti “guevarologi” di fama mondiale e non esita anche a sostenere che tra Garibaldi e Guevara sussistono affinità fondamentali:
tra Garibaldi e Guevara, rimane incontestabile la somiglianza umana fra i due personaggi: in campo etico, nel rifiuto della carriera politica a titolo personale, nella visione operativa e combattentistica degli ideali, nel rischio personale della vita, nella sfiducia verso gli apparati partitici o militari che fossero. Il lettore o la lettrice vedranno nelle citazioni che seguono l’entità delle somiglianze che indico o altre che si potrebbero scorgere. Invito questo lettore e questa lettrice a vigilare d’ora in avanti perché si impedisca ai detrattori di Garibaldi e degli ideali di emancipazione che egli incarnò, che insieme alle sue indiscutibili responsabilità negative si gettino a mare anche il suo internazionalismo, il suo cosmopolitismo, il suo senso laico della vita sociale, il suo anticlericalismo, la sua etica dell’abnegazione personale e, consentitemelo, la sua (loro) grande umanità”.

Il socialismo “garibaldino”
Se oggi, dunque, inevitabilmente, ci è dato di celebrare il funerale della “sinistra” - dato che, non solo essa è sparita dal Parlamento come autonoma forza politica e permane solo come ombra vaga di eventuali accordi di residuale elemosina governativa da parte di chi persegue e rincorre scopi diametralmente opposti - non ci è dato tuttavia di rinnegare le basi fondanti di ciò che in Italia può superare di slancio e alla baionetta il falsoo steccato del confine destra-sinistra, un autentico Socialismo garibaldino patriottico ed internazionalista.
Una delle misere ragioni del fallimento del comunismo e del socialismo in Italia è infatti stato il fatto che queste componenti politiche, a lungo più indaffarate a delegittimarsi reciprocamente che a fare causa comune contro il comune nemico padrone del capitale, si sono sempre divise tra Internazionalisti e Patriottici, con le ulteriori, settarie e rovinose divisioni interne.
Garibaldi era invece patriottico e internazionalista allo stesso tempo, riteneva infatti prioritaria la “causa italiana” fino a consegnare purtroppo nelle mani di Vittorio Emanuele II il Sud, per unificare l'Italia, rimandando e rinnovando (memore della gloriosa Repubblica Romana) a tempi migliori, ulteriori tentativi rivoluzionari. In realtà, passarono solo due anni, prima che il Generale tentasse di nuovo l'impresa, non a caso ancora da Sud, mentre avrebbe potuto più tranquillamente sbarcare nel Lazio o arrivarci da altre destinazioni più vicine; perché si era accorto dei massacri in corso da parte dei Savoia, e perché gli era stata negata da Cavour quella milizia territoriale che avrebbe potuto svolgere, specialmente nel Sud, un importante ruolo di tutela dei diritti e di protezione dei più deboli.
Sappiamo come finì, con gli “italiani savoiardi” che spararono ai garibaldini, con il Generale che si levò per impedire un'inutile strage tra “fratelli d'Italia”, con il suo ferimento che lo azzoppò per il resto della sua vita, e soprattutto con la fucilazione di coloro che si erano sentiti di gran lunga di più garibaldini che “italiani savoiardi” disertando l'esercito italiano per quello garibaldino. Sappiamo anche che l'indomita energia di Garibaldi lo portò, nonostante questa ferita non più rimarginabile, a conquistare il Trentino, cinque anni dopo, a 59 anni e, l'anno successivo a rinnovare il grido “Roma o morte”, fermato a Mentana più che dai fucili francesi dalla mancata insurrezione di una città e di un popolo ormai rassegnato a non rinverdire più il sogno democratico e repubblicano, ma a passare da un re papa casareccio ad un altro re straniero e savoiardo, sventratore come altri duci-re del futuro, dei suoi fasti e delle sue antiche memorie.
Altre battaglie, oltre a quelle iniziali in Sudamerica, però, il Generale le fece con i suoi garibaldini nel 39° fanteria dei volontari garibaldini della Guerra di secessione negli Stati Uniti, e l'ultima, forse la più gloriosa, prima a difendere la rinata Repubblica Francese dai Prussiani (ancora una volta vittorioso) e poi, quando la Repubblica rifiutò di ascoltare sprezzante i suoi consigli, a lottare per la prima testimonianza di governo socialista e libertario, nella Comune di Parigi.
Un Socialista, dunque, anche se con ascendenti massonici (ma si deve pensare alla massoneria dell’epoca), pienamente patriottico e internazionalista, da seguire scrupolosamente oggi e in futuro, se vorremo far rinascere l'Italia sotto il segno della dignità, della libertà e della giustizia sociale, e soprattutto, se vorremo far risorgere un vero movimento di idee e di impegno politico e civile che sia tuttora all'altezza delle sfide della nostra epoca, in un mondo in cui la dicotomia e l'aut aut che ne deriva, per la nostra coscienza e la nostra prassi, ancora una volta impegnate in una lotta imposta dall'imperativo categorico di una mente e di un cuore liberi da tentazioni satellitari e servili, non è destra-centro-sinistra ma Socialismo o barbarie, nella versione contemporanea: Ecosocialismo o neoliberismo ecocida.

Un referente per gli ecologisti e gli animalisti
Garibaldi è tuttora un referente fondamentale per gli ecologisti e non solo per i socialisti o per i comunisti che hanno lasciato il fazzoletto rosso delle brigate Garibaldi nella cassapanca del museo della Resistenza. Garibaldi, infatti, fu impegnato in progetti avveniristici di tutela dell'ambiente e di protezione degli animali, e in un fervido programma di rilancio dell'agricoltura biologica.
Lui, che come tuttora testimonia il suo omonimo pronipote: “A Caprera ha zappato e concimato, irrigato e studiato i testi per conoscere le piante”. Lui che progettò di bonificare le paludi pontine soprattutto mandandoci a lavorare con intento rieducativo i preti più “parassiti” (questo lo ricordino quelli che considerano tuttora Guevara il cinico inventore dei campi di rieducazione). Lui che, per evitare la costruzione di quei muraglioni che hanno sì evitato al Tevere di continuare a straripare ma hanno distrutto la flora fluviale e creato un mostro destinato a separare la città dal suo fiume, aveva progettato di costruire un canale di deflusso per convogliare le acque dal Tevere, in caso di piena, e destinato a ricongiungersi con il fiume della città eterna dopo la basilica di S. Paolo, lo asserì con queste testuali parole:
“il mio progetto non distrugge nessun glorioso avanzo della storia dei nostri padri, né altre opere antiche e recenti. I miei lungotevere, essendo al livello delle strade adiacenti e degli attuali ponti, anziché recar sfregio all’ornato pubblico, concorrono a rendere più bella l’architettura stradale di Roma senza bisogno di nessuna demolizione, e di espropriazioni di sì enorme spesa. Quindi io fo appello agli scienziati, ai sanitari, agli archeologi e agli artisti di tutto il mondo civile, perché protestino altamente contro un progetto di sistemazione del Tevere esclusivamente interno, il quale considerato con la scienza idraulica è incerto e pericoloso: rende più gravi le condizioni igieniche della città, ed è un deplorevole attentato all’ornato pubblico ed alle glorie di Roma”.
Garibaldi fu il primo a impegnarsi in Italia per i diritti degli animali, in un’associazione che nacque il 1 aprile 1871, anno in cui il Generale, su esplicito invito di una nobildonna inglese - lady Anna Winter, contessa di Southerland - incaricò il suo medico personale, il dottor Timoteo Riboldi con studio a Torino, di costituire una Società per la Protezione degli Animali, che ebbe la signora Winter e lo stesso Garibaldi come suoi soci fondatori e presidenti onorari. Terminò la sua vita da vegetariano, come un antico filosofo pitagorico.
Per il riscatto di una Italia oggi prostrata dalla corruzione, dalla dittatura monetarista, non meno ferrea e distruttiva di quella che emerse con la Restaurazione e la Santa Alleanza, per un Paese in cui la politica è ormai ridotta a conquista di misere prebende e al vassallaggio territoriale, o alla ricerca spasmodica dell'ultimo guitto televisivo da presentare a una massa prostrata e prostituita al verbo mediatico, per ottenere l'obolo consensuale con cui l'elettore-schiavo paga permanentemente il suo “pizzo” al governo di turno, con l'unico scopo di mantenersi il suo misero piattino di lenticchie. Per un territorio un tempo chiamato “giardino d'Europa” e oggi ridotto a “discarica di veleni tossici” che fertilizzano solo il proliferare della morte e della desolazione di terre che un tempo erano celebrate con l'appellativo di Felix, ed oggi sono umiliate nell'abiezione camorristica. E soprattutto per un popolo abituato a dividersi in clan e parrocchie di ogni fazione e colore, afflitto da un sonno comatoso che lo rende incapace di slanci ideali e patriottici, così come di grandi sogni che si espandano nel Mediterraneo ed oltrepassino anche le colonne dell'erculea padronanza imperialistica in cui esso è oggi confinato e schiavizzato, ebbene, per tutti quelli che oggi sono ancora convinti che “O Roma o morte”... civile, politica, economica, sociale, e soprattutto culturale - Garibaldi resta, con il suo fiero sguardo proteso dal Gianicolo oltre l'orizzonte di una città-mondo, verso “interminati spazi e sovrumani silenzi”, il testimone di un’eternità e di un mondo altro, infinitamente necessario e possibile.
La rinascita dell'Italia non potrà che avvenire ancora seguendo il Generale che, in prima fila, a passo di carica con il suo grido lacera il futuro e ci sprona: “Venite a vincere o a morire con me!”

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