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mercoledì 2 ottobre 2013

TERRAMATTA (Costanza Quatriglio, 2012), di Pino Bertelli

Il novecento italiano di Vincenzo Rabito, analfabeta siciliano

“...L’estate seguente,doppo che venne di Messina,Giovanni ci deceva la testa che voleva partire per farese una cita,e poi ha cirato tutto Raqusa per cercare uno zaino.E zaine Giovanni ni ha trovato 4;e di tutte 4 zaine,prese lo più crante e lo cominciava a principe.Cosi,Giovanni era pazzo che per forza si ne voleva antare a cirare l’Italia,la Spagna,laFrancia,tutta con l’auto toppe,e io ci diceva:”Ciovanni reposete.Che vuoi antare a tastare la fame?!Perchè tu non sai che quanto si va forianto ci vogliono assai solde!?”.E Ciovanni,per forza,si ne doveva antare.Io,che bastonate non ni sapeva dare,e Ciovanni faceva come ci piaceva a lui.Poi,io più assai ci poteva dare lire 50000,che li teneva sempre di riserba,ed erono poco,ma che cosa ci poteva fare?Quinte,magare che non voleva,lui si n’antava lo stesso.E poi,l’altra butta che mi dava,che era l’unica scupetata che mi dava,che mi diceva:”Io,se tu non mi mante alla cita,non vado più all’università”:Così,la mia vita era sempre a mienzo queste farse,ma faceva pazienza:Voldire che io fu nato per vedere tutte queste quaie…”.
Vincenzo Rabito


I. Delle memorie di un “inalfabeta” della terra Iblea 

Terramatta; è un documentario di Costanza Quatriglio, ricostruisce con abilità e sapienza filmica la vita di Vincenzo Rabito... contadino, soldato, cantoniere siciliano semianalfabeta, tratto dai suoi sette quaderni battuti a macchina, 1027 pagine legate con uno spago... migliaia e migliaia di parole interrotte (quasi sempre) da un punto e virgola, interlinea zero... è una sorta di lingua inventata, difficile da decifrare, né italiano né dialetto, quasi una sinfonia musicale propria dei cantastorie siciliani. Il suo diario resta una delle più belle e profonde testimonianze di vita del Novecento.

Rabito nasce a Chiaromonte Gulfi (provincia di Ragusa) nel 1899 e qui scompare nel 1989. Consegue la licenza elementare a trent’anni. Dal 1968 al 1975 si apparta in una stanza della sua casa (senza che i familiari sapessero cosa faceva) e ogni giorno scrive i ricordi e i sogni di una vita «maletratata e molto travagliata e molto desprezata». Dopo la morte di Rabito, il figlio Giovanni trova il dattiloscritto in un cassetto, nel 1999 lo invia all’Archivio Diaristico Nazionale curato da Saverio Tutino a Pieve Santo Stefano (Arezzo) e nel 2000 vince il “Premio Pieve”, che viene conferito ad opere diaristiche, memorialistiche ed epistolari. La motivazione non è delle più felici: «Vivace, irruenta (sic), non addomesticabile, la vicenda umana di Rabito deborda dalle pagine della sua autobiografia. L'opera è scritta in una lingua orale impastata di “sicilianismi”, con il punto e virgola a dividere ogni parola dalla successiva. Rabito si arrampica sulla scrittura di sé per quasi tutto il Novecento, litigando con la storia d’Italia e con la macchina da scrivere, ma disegnando un affresco della sua Sicilia così denso da poter essere paragonato a un Gattopardo popolare. L'asprezza di questa scrittura toglie la speranza di vedere stampato, per la delizia dei linguisti, questo documento nella sua integralità. "Il capolavoro che non leggerete". Così un giurato propone di intitolare la notizia sull'improbabile pubblicazione di quest'opera» (www.archiviodiari.org). Di là dalle inadeguatezze o sottolineature espresse malamente nella motivazione, va detto che grazie al contributo per i Beni e le attività culturali e della società Augustea, il diario di Rabito è pubblicate nel 2007 da Einaudi (a cura di Evelina Santangelo e Luca Ricci) in una versione ridotta e la veridicità espressiva che contiene diventa patrimonio dell’Italia intera.
La lingua anomala, metaforica, surreale di Rabito racconta con notevole fervore le vicende della sua magra esistenza... Ragusa, Regalbuto, Slovenia, Etiopia, Germania... sono viatici rivelati nelle sue magiche parole e l’epica narrativa si fa portatrice di vissuti, situazioni, sentimenti struccati che ci accostano al punto di vista dello scrittore, come è raro incontrare nella letteratura odierna, anche la più, incidentalmente, celebrata. Le parole sgrammaticate che incide sulla carta ripercorrono la sua vita e definiscono un’identità singolare, una sorta di cantore impulsivo che senza alcun filtro ideologico o dottrinario si lascia andare alla ricostruzione del suo passaggio nel mondo.
Rabito è franco, ironico, salace e, forse, senza saperlo, disegna l’emersione di un Paese di voltagabbana, prima fascista, poi comunista, già omologato al dispositivo televisivo che debutta nell’immaginario degli italiani negli anni cinquanta. I suoi quaderni attraversano le guerre, le sconfitte, i tradimenti di un’Italia in piena mutazione sociale e vede negli ultimi, negli esclusi, nei poveri i soli che continuano a patire la miseria (non solo in Sicilia) per mano dei soliti profittatori della politica. Non mostra di avere nessuna inclinazione ideologica, frequenta fascisti, comunisti, baroni solo per poter lavorare, sfamare la famiglia e mandare i figli a scuola. La laurea in ingegneria del figlio maggiore segna la realizzazione più alta della propria disperata esistenza.

La singolarità comunicazionale di Rabito sembra seguire una partitura scritturale immaginifica, senza mai cadere nell’illustrazione o nella rappresentazione manierata... ciò che più affascina dei suoi racconti è il sale dell’autenticità che si scontra con la bronzea indifferenza delle istituzioni verso gli esclusi... c’è stupore e sdegno, c’è desiderio e richiesta di una quotidianità meno feroce, più umana, nelle sue parole... e anche la coscienza di una giustizia sempre disattesa o negata. Una ricerca di verità, di libertà, di democrazia che risponda ai bisogni dell’anima e ai diritti dell’uomo. Sembra dire — tra le righe — che la giustizia dovrebbe essere la sola misura del dovuto ad ogni essere umano e la pietà verso la memoria, la cultura dei padri, il rispetto per bene comune sul quale si fonda il presente e il futuro di una civiltà, gli appare sconosciuta.
Va detto. La sicilianità di Rabito che emerge in Terramatta; è trattata con grande dignità e le sue parole sparse su immagini di repertorio e frammenti dei suoi scritti, esprimono un elogio all’uomo e alla terra nella quale ha vissuto, sofferto e amato. La regista è cortese non solo con la frasistica di Rabito, ma anche con gli ambienti, le persone che lo ricordano con contenuta gioia, tanto da andare a toccare le corde della commozione. Il docufilm insomma è un canto d’amore per un uomo e una Sicilia che nobilitano la bellezza di una terra sovente massacrata o derisa. Degno del nostro interesse è soltanto chi non ha alcun riguardo delle menzogne elettorali, delle convenienze e dei privilegi che una minoranza di saprofiti continua a perpetuare contro la parte migliore della società.

  II. Terramatta;

Terramatta; è storia del Novecento raccontata da un ultimo, Vincenzo Rabito. Le pagine dattiloscritte (in blu) del suo straordinario diario di vita vera... sono filmate dalla Quatriglio e intrecciate a paesaggi siciliani, testimonianze, cinegiornali della prima e seconda guerra mondiale... la voce fuori campo narra le gesta e la “disonesta vita” del Guerin Meschino (scrive Rabito), di un povero tra i poveri... e la sua storia intrecciata a quella dei migranti, degli affamati, degli offesi... diventa la storia di un intero Paese. La regista è abile... sporca il bianco e nero dei filmati di rosso, blu, verde, giallo e, ad esempio, le visioni del regime fascista in Sicilia escludono il tono caricaturale per ricordare un tempo dove la tragedia sociale si mostrava tutta nell’impalcatura olezzante della dittatura. Il consenso collettivo incluso.
Terramatta; è un film sulla memoria martoriata di un uomo e di una nazione. Lo sguardo è quello di un accadere tutto narrato al maschile e non è la storia scritta — questa volta — dai vincitori e dagli storici che la storia non ha ammazzato. Il pezzo in cui Rabito parla della partecipazione allo stupro di una ragazza con un gruppo di soldati alla fine della prima guerra mondiale è agghiacciante, lucido fino a suscitare la collera nello spettatore più sensibile... tanto più che dopo sessant’anni Rabito lo descrive “senza chiedere perdono né sentirsi in colpa, consegnandoci pagine tanto scomode quanto scrupolose nella descrizione dell’orrendo atto di vendetta” (Costanza Quatriglio) o banale/abituale violenza contro il genere femminile.
Il film si dipana in avvenimenti legati alla storiografia nazionale... sequenze documentali della prima guerra mondiale sono interpolate a cartelli, frasi, tasselli metafilmici che bene fanno comprendere il lessico “selvatico” di Rabito e la quotidianità della “soldataglia” si configura come carne da macello. La guerra nell’Africa coloniale è vista come una sorta di film propagandistico rovesciato e il racconto di Rabito la testimonianza di un antieroe del fascismo che è soltanto un uomo che ha paura di morire per qualcosa che non capisce e nemmeno lo riguarda. Il passaggio dalla caduta del fascismo alla seconda guerra mondiale è trattato come un cinegiornale inchiodato alle parole/immagini crude del siciliano e in qualche modo riesce anche ad evidenziare l’avanzamento della società omologata annunciata da Pier Paolo Pasolini nei suoi attacchi feroci contro la televisione, il cinema, la letteratura, il giornalismo, la politica dominante, la sinistra tradita... negli occhi degli spettatori passano (anche per assenza) commedianti, saltimbanchi, alfieri dell’Italia preindustriale e nelle loro falsità politiche già echeggiano i terrori del domani. La bellezza muore quando tollera o nasconde verità che la escludono.


La regista non teme di inserire nel corpo testuale film amatoriali in super8 della famiglia Rabito che lascia sullo schermo una traccia di sé, dei propri desideri e delle proprie piccole gioie... al di qua di ogni considerazione estetica/etica di questo “realismo epico”, ciò che più sborda dalla narrazione filmica sono le incursioni nella vita quotidiana dello scrittore e la tracimazione del semplice sul superficiale, del bello sul brutto, del vero sulla cattività della ragione imposta. La Quatriglio lavora sulla forza evocativa del testo di Rabito... filma i luoghi, i segni, le tracce del suo diario, li addossa alle sue parole impervie, anche infuocate, sempre dolorose... elabora un film in soggettiva dunque, riveste i ricordi del siciliano di verità intangibili e il ticchettio della sua macchina da scrivere rimbomba nella coscienza di ciascuno, opera un risveglio che buca l’indifferenza generale e insegna il valore del giusto, anche.

La regia della Quatriglio si chiama fuori da ogni compiacenza stilistica, lascia parlare le immagini che si legano al testo di Rabito e dà al suo docu-film un’impronta di notevole impegno civile. La sceneggiatura (Quatriglio, Chiara Ottaviano) è più complessa di quanto sembra a una prima visione... le articolazioni costruttive sono asciutte, tese ad esplicitare il viatico del personaggio. La voce del narratore (Roberto Nobile) riprende il ritmo scritturale di Rabito, lo depone lungo i filmati e i contrappunti vocali (le sottolineature discorsive) accompagnano lo spettatore in una dimensione intima, anche sentimentale del diarista. La fotografia (Sabrina Varani) e la musica (Paolo Buonvino) avvolgono il film con delicatezza e amorevolezza, cosa abbastanza insolita nelle vetrine del documentario corrente. Al tempo della società consumerista costruire un film con questa autorevolezza poetica significa fare anche un buon uso dell’indignazione.
Terramatta; mette a fuoco con precisione il cuore della tragedia di un uomo, dei siciliani (ma non solo) tenuti nella soggezione, nella sottomissione, nel crimine del potere feudale, religioso, mafioso, politico che in cambio del consenso raggiunto con l’abuso e il sopruso, calpestano la dignità e i diritti dovuti agli uomini liberi... sono i responsabili impuniti della distruzione della coscienza personale e collettiva di un intero Paese. L’abbiamo già detto altrove: sugli scranni del parlamento la partitocrazia si è sempre comportata come ratti su un cumulo di spazzatura ed ucciso ogni forma di libertà reale. Ogni schiavitù ha i propri teatri e ogni boccascena i suoi buffoni. Restano gli insorti del desiderio di vivere tra liberi e uguali a lavorare per la caduta del Palazzo e dare agli inquilini la sorte che meritano. Un tocco d’anarchia è indispensabile per dare alla società che viene la bellezza che spezza la cultura dell’osceno, e la forma visibile della bellezza è la giustizia. 

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 18 volte giugno, 2013.

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