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domenica 18 agosto 2013

L’EGITTO CAMPO DI BATTAGLIA INTERARABO, di Pier Francesco Zarcone

Facciamo il punto politico: fu golpe
Nell’attuale tragica situazione di stallo della crisi politica egiziana, e con i massacri in corso, fare il punto è più agevole di prima ed è meno facile commettere errori di interpretazione. All’inizio si poteva essere perplessi sul qualificare o no l’intervento dell’esercito come uno dei soliti golpe, a motivo della massiccia partecipazione popolare contro Morsi e i Fratelli Musulmani. Una volta deposto il Presidente, eletto in termini di democrazia parlamentare, l’Egitto si è trovato in una situazione che formalmente giustifica la posizione dei pro-Morsi nel considerarlo ancora il Presidente dell’Egitto: Morsi, infatti, non si è dimesso, né è stato costretto a farlo (cosa a cui invece il generale al-Sisi avrebbe dovuto puntare decisamente e subito: non si capisce cosa ne facciano di Morsi i militari se non lo “usano”). Poiché il diritto si basa su formalismi – non privi di rilevanza politica – con le dimissioni di Morsi (quand’anche coatte) la formazione del nuovo governo su impulso dei militari avrebbe potuto essere spacciata per iniziativa di salute pubblica, stante la vacanza sia del Parlamento (dissolto da mesi) sia del Presidente della Repubblica. Ma così non è stato. La conseguenza è che l’intervento dei militari ha posto in essere una palese rottura della legalità costituzionale ed è quindi una “rivoluzione” in senso strettamente giuridico; che tuttavia politicamente equivale a golpe.
I più delusi dagli avvenimenti egiziani – o sarebbe meglio dire basiti – sono rimasti Obama e il suo entourage, che vedono progressivamente franare i castelli di carta su cui avevano puntato: in Egitto con l’intesa fra Fratelli Musulmani e militari in un quadro di presunta palingenesi democratica di un Egitto notoriamente colmo di mali politici, economici e sociali; in Tunisia, in Libia e in Siria, dove Assad rifornito da Russia e Iran sta mettendo alle corde i ribelli. Sfumata l’illusione, seppure con evidente imbarazzo, si sono limitati a prendere atto della situazione egiziana e a invitare le parti alla mediazione. Parole, parole. Ma ancora una volta dimostrando che per Washington l’intervento militare è accettato o sollecitato quando non ne lede gli interessi economici, politici e militari; e che, come al solito, dall’Occidente non ci si deve mai aspettare niente di buono.
Morsi – anche per colpa della politica dissennata perseguita da lui e dai suoi - si è trovato alle prese con una massiccia e insistente campagna mediatica (a cui non può essere rimasto estraneo il Mukhabarat, o servizio segreto) scatenata da un gran numero di giornali legati al vecchio regime. Tutte le voci autorevoli – compreso Muhammad al-Baradei - sono state indirizzate non più contro i fulul, ancora in possesso delle vere leve del potere, ma solo contro Morsi e la Fratellanza Musulmana presentati come il vero nemico attuale. E ora si comincia a parlare delle commistioni tra i fulul e il mitizzato (in Occidente) movimento Tamarrod di Mahmud Badr, che dette vita alle manifestazioni di piazza Tahrir.
Una vera reazione di Morsi & C. praticamente non c’è stata, mentre si andava tessendo la trama  di Tamarrod, Forze Armate, fulul, miliardari egiziani, sovvenzionati dal denaro dell’Arabia Saudita. Le masse anti-Morsi del Cairo, Alessandria ecc. hanno offerto ai militari il pretesto con una sollevazione popolare tale da far giustificare il loro intervento. La sanguinosa repressione attuata dai  militari, e ancora in corso, segna una svolta politica anche formale, svelando cioè in modo chiaro l’inesistenza del preteso spazio per mediazioni tanto invocato dalle “anime belle” di Ue e Usa.
Esso non è mai esistito, essendo il paese diviso in due schieramenti nemici, con nessuno dei contendenti in grado di fare nemmeno un passo indietro senza perdere la faccia: le Forze Armate non possono rimettere Morsi alla Presidenza, e la Fratellanza Musulmana non può accettare l’accaduto con un Morsi che non si è nemmeno dimesso. Oggi con tutto il sangue sparso la (non) soluzione della crisi è al momento affidata alla forza di chi ce l’ha: cioè le Forze Armate. Ma siamo solo al primo atto della tragedia.

Troppi giochi di potere arabi nella crisi egiziana
Purtroppo per il popolo egiziano ci sono in campo troppi giochi di potere interni ed esterni a svolgersi sulla sua pelle. E ridurre il tutto a uno scontro fra laici e islamisti risulta, più che riduttivo, sbagliato.
a) I militari
In  primo luogo i militari. Il generale Abdul Fatah al-Sisi – nominato a capo delle Forze Armate proprio da Morsi dopo la caduta del maresciallo Tantawi; ironia che ricorda Pinochet nominato da Allende – sta giocando la carta più pericolosa: quella dello scontro frontale armi alla mano. Non avendo usato Morsi né per dimissioni né per un forzato appello ai suoi sostenitori, e poiché spazi per mediazioni non ce ne sono, non potendo perdere la faccia sia i militari sia i Fratelli Musulmani, la scelta di al-Sisi, sanguinaria quanto si vuole, non stupisce. E non è detto che sia impopolare fuori dalla cerchia della Fratellanza. Questo l’ha ben capito Gianni Riotta, che a caldo ha messo in evidenza come al-Sisi faccia conto su quella parte di opinione pubblica egiziana non islamista che è stanca dell’aggravato collasso economico perdurante da almeno due anni di crisi politica, di disoccupazione e violenza, tutto sommato non molto sensibile alla democrazia. E poi ci sono laici e copti, giustamente timorosi delle rappresaglie islamiste (del resto già in atto), nonché tutte le famiglie che bene o male vivevano di turismo. A tutti costoro un regime forte e magari “ragionevolmente” andrebbe benissimo e, come nota Riotta, esiste un sondaggio Zogby che sembra dare ragione al calcolo di al-Sisi. Si possono aggiungere a sostegno dell’analisi l’appello del mullah Shafti Alam contro la Fratellanza Musulmana e quanto accaduto il 17 agosto allo sgombero della moschea di piazza Ramses, con i militari costretti a proteggere i Fratelli Musulmani dalla folla che li voleva linciare!
Pur tuttavia non è detto che i militari riescano a mettere davvero alle corde i Fratelli Musulmani in tempi brevi e, se gli islamisti non mollassero, la possibilità di uno scenario algerino, oppure siriano, si concretizzerebbe. Allora, oltre al bagno di sangue, addio alla ripresa economica tanto più che l’industria turistica ne risulterebbe distrutta e per la sussistenza si dovrebbe fare conto sugli aiuti esterni, che già ci sono e potrebbero benissimo proseguire, da parte di Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti che nel frattempo hanno versato all’Egitto l’equivalente di dieci volte il contributo annuale degli Stati Uniti.
A proposito di industria turistica va ricordato un aspetto in genere poco evidenziato dai media: le Forze Armate (vero Stato nello Stato), controllano direttamente settori manifatturieri e dei servizi il cui peso va oltre il 30% del Pil egiziano, e tra i servizi vanno inseriti complessi alberghieri e villaggi turistici. È ovvio che si abbia tutto l’interesse a ridurre quanto prima alle corde i Fratelli Musulmani.
Un’ulteriore considerazione. Se i militari non riuscissero a costringere subito gli islamisti ad abbandonare le piazze, è ovvio che si troverebbero impegnati al massimo nella repressione dei disordini urbani, dovendo intervenire rapidamente ora qui ora li, un po’ come accadde alle Forze Armate siriane nella prima fase della guerra civile; ed è quindi ragionevole pensare che in un siffatto scenario Israele potrebbe intervenire ancora nel Sinai contro le bande jihadiste ivi operanti. Che la cosa dispiacerebbe ai militari egiziani è discutibile: non si invochi la solidarietà con i Palestinesi, giacché ha una certa diffusione in Egitto la tesi che questo paese in passato ha già fatto abbastanza per i Palestinesi, traendone più danni che guadagni, di modo che ormai se la sbroglino loro da soli.
Ad ogni buon conto, quand’anche non ci sia la necessità di compensazione militare israeliana nel Sinai, sta di fatto che fino alla risoluzione della crisi egiziana - ed altresì in base a come si concluda - i riflessi della situazione saranno negativi per l’ennesimo tentativo di dialogo di pace fra Israele e Autorità palestinese: infatti, come ragionevolmente opporsi alle pretese israeliane se da Israele ci si aspetta una collaborazione per tamponare le difficoltà del governo egiziano?
Per quanto riguarda l’Occidente, in definitiva, i militari non sembra che abbiano molto da temere. Poiché un intervento militare alla maniera libica è del tutto fuori dalla realtà, l’unica arma a disposizione sarebbe il blocco del contributo annuale statunitense, ma come già detto, fra monarchie arabe e Russia, i finanziatori non mancano: all’Egitto servono 20 miliardi di dollari; per i monarchi arabi un’inezia. Per questo al-Sisi può infischiarsene dei lamenti di Usa e Ue. Il suo vero problema è solo interno e si chiama durata della resistenza dei Fratelli Musulmani e prevedibile reazione jihadista.
b) Arabia Saudita e Qatar
La politica dei paesi arabi può sembrare contraddittoria, e a volte incomprensibile, se non si usa la chiave di lettura appropriata, e cioè che affinità ideologiche e religiose non significano niente quando sono in campo interessi concreti e soprattutto giochi di potere. Cerchiamo quindi di spiegare come mai l’Arabia Saudita – insieme a Kuwait ed Emirati Arabi Uniti (Eau) – madre di tutti gli integralismi wahhabiti e non, finanziatrice di una rete mondiale di moschee e mádrase divulgatrici dell’interpretazione radicale dell’Islam, sia stata prontissima ad appoggiare la scelta repressiva dei militari egiziani. Non si tratta solo degli interessi economici sauditi e degli Emirati in Egitto, più che consistenti e orientati al di là dei massicci investimenti effettuati in Egitto (vi è infatti anche l’interesse all’avvicinamento al Mediterraneo a motivo di un mercato europeo di circa mezzo miliardo di consumatori); ci sono anche quelli prettamente politici. Il perché è facilmente individuabile.
Probabilmente non si è data molta attenzione ad almeno due fatti: l’Arabia Saudita e gli Emirati fin dall’inizio delle rivolte in Tunisia ed Egitto si sono nettamente schierati in favore del vecchio ordine, prendendo le distanze dagli opportunistici entusiasmi statunitensi, peraltro non tradottisi in consistenti aiuti economici a differenza di quelli sauditi e degli Eau; e poi vi è la lettera inviata all’ambasciatore al Cairo, nel maggio 2012, dal ministro degli Esteri saudita, Saud al-Faisal, con cui lo si invitava a fare ogni possibile sforzo per evitare la vittoria di Morsi alle elezioni presidenziali, in quanto ciò sarebbe risultato dannoso per gli interessi sauditi nel mondo arabo e islamico. Il coronamento è stato l’appoggio formale di re Abdallah alla repressione di questi giorni.
Il fatto è che la Fratellanza Musulmana nel mondo arabo assomiglia a una piovra, con velleità di autonomia operativa, e i suoi tentacoli (cioè le sue diramazioni) sono un po’ dappertutto: oltre che in Egitto, in Tunisia, in Libia, in Marocco, in Siria e nella penisola araba. E tutte (almeno finora) sono sostenute dal Qatar che ne condivide l’obiettivo di reislamizzazione del mondo arabo, o per via elettorale o forzata. Chi parla, per tutti costoro, di Islam moderato meriterebbe un corso forzato di linguistica e di logica.
In Qatar la recente abdicazione dello sceicco at-Thani forse non porterà a grandi mutamenti nella politica estera del piccolo regno giacché permangono i suoi interessi economici e gli investimenti che contrastano gli interessi sauditi e degli Emirati (il Qatar ha investito in Egitto 8 miliardi di dollari e la sua televisione, Al Jazeera, è stata di supporto per il governo Morsi). Arabia Saudita e Qatar lottano fra loro in Egitto, nei paesi del Maghreb, in Siria, Libano, Yemen e Palestina. D’altro canto le tensioni tra Qatar e Arabia Saudita – se sono aumentate a partire dopo il 2011 – non sono però nuove e riguardano varie questioni regionali per la politica a tutto campo del Qatar che cerca di strappare l’egemonia all’Arabia Saudita nella sua zona di influenza. Non stupisce quindi che il re saudita Abdallah, la notte del 5 luglio abbia chiamato al-Sisi per garantirgli il suo appoggio.
c) Fratellanza Musulmana
Tornando alla Fratellanza Musulmana. Per le monarchie arabe è un pericolo politico poiché potrebbe approfittare della sua presenza nei loro territori per creare moti in favore dell’introduzione di assetti costituzionali: islamici, ma pur sempre costituzionali. E non lascia tranquilli il fatto che si chieda agli aderenti locali alla Fratellanza di giurare fedeltà a Muhammad Badie, guida suprema della casa-madre egiziana. Per non parlare della rilevante presenza della Fratellanza nel campo dell’istruzione e dei sospetti che ciò desta. Considerato che un milione e mezzo di egiziani lavorano e vivono in Arabia Saudita, e 250.000 negli Eau, non è ingiustificato il timore che costoro possano costituire una massa di manovra per un movimento che si sta diffondendo. Se è vero che di recente i Fratelli Musulmani sono stati sconfitti alle elezioni in Bahrain, in Kuwait invece hanno conseguito una schiacciante maggioranza al Parlamento, e sono fortissimi elettoralmente in quella Giordania che chiude a nord la penisola araba. Non è quindi casuale che di recente il Capo della polizia di Dubai abbia messo in guardia contro i Fratelli Musulmani, sostenendo addirittura che essi rappresenterebbero una minaccia tanto grave quanto quella dell’Iran.
Si tratta comunque di timori fondati sui fatti. Già nel febbraio del 2011 i Fratelli Musulmani sauditi cercarono di emulare Tunisia ed Egitto, ma i loro moti furono sanguinosamente repressi, e fuori dal regno non se ne è saputo quasi nulla. Nel caso dell’Arabia Saudita c’è poco da reislamizzare, ma trattandosi di un paese in cui la partecipazione alle decisioni politiche avviene fra il re e la sua famiglia, al massimo col coinvolgimento consultivo del consiglio degli ulamaa, dei capi tribali e qualche grosso capitalista – cioè al massimo il 5% della popolazione – la richiesta di Costituzione fatta dai Fratelli Musulmani ha un  effetto dirompente. In passato la famiglia reale saudita li ha finanziati per molto tempo a motivo della loro politica ultraconservatrice e della loro contrapposizione con gli Sciiti. Ora, però, ci si è accorti che la Fratellanza non è più così umile e devota come un tempo, e che può diventare una temibilissima concorrente, tanto più essendo anch’essa integralista. Emirati e Arabia Saudita accusano i Fratelli Musulmani di voler rovesciare i monarchi esistenti e di voler costituire con i loro regni il primo nucleo di un Califfato sunnita, cosa che potrebbe trovare troppe orecchie disposte a considerarla positivamente.
d) Gli Stati Uniti, per quanto definirli “attori” sembri eccessivo
Gli Stati Uniti, dal canto loro, sono solo muti sullo sfondo, poiché non sanno che “pesci pigliare” e sono privi di una qualsiasi carta da giocare. Ci si potrebbe azzardare a dire che la loro influenza nella regione appare fantasmatica. In fondo pagano l’avventata giravolta al buio fatta quando hanno scelto di allearsi proprio con quegli islamisti che avrebbero dovuto essere i loro nemici. Questo in Tunisia, Egitto, Siria e Libia.
C’era anche una prospettiva più concreta:l’Egitto è in ginocchio; la Siria pure, vinca chi vinca; la Libia, nemmeno a parlarne; la Tunisia non se la passa bene nemmeno lei. Questo vuol dire che appoggiando gli islamisti in Stati in macerie (in vario modo e per motivi diversi) Washington ha perso l’incomodo di elite politiche apparentemente stabili – la loro corruzione e il loro autoritarismo importano poco – e talvolta riottose; i suoi interlocutori sono diventati dei pasticcioni islamici meno propensi a fare i capricci (trattare sul petrolio libico con capi tribù locali è certo più comodo) e dispostissimi a varare riforme economico-sociali liberiste in linea con gli interessi statunitensi. 
Per i maligni l’abbattimento di Morsi e quel che segue non avrebbero preso di sorpresa gli Stati Uniti, in quanto durante la visita del Segretario di Stato americano, John Kerry, il 25 giugno in Arabia Saudita si sarebbe discusso della transizione a favore dei militari egiziani.

Che si prospetta al momento nel mondo arabo?
Al di là della scontata mobilitazione del radicalismo islamico e jihadista per vendicare i morti egiziani, alcune considerazioni si possono già fare in rapporto alla Siria. La crisi dell’Egitto allontana ogni velleità di intervento occidentale e per Assad aumentano le prospettive di vittoria finale, considerato che l’azione di al-Sisi ha messo politicamente in stallo Qatar e Turchia. Però non è detto che non si possano delineare anche scenari meno guerreschi Due fatti più o meno contemporanei saltano all’attenzione: a Damasco, iniziata la repressione anti-islamista in Egitto, Assad di colpo ha sostituito tutti i 16 dirigenti del Baath, in carica da 13 anni, sostituendoli con giovani di propria fiducia, e quindi rafforzando il controllo sul partito; alla Presidenza del Consiglio Nazionale Siriano in esilio è salito Ahmad Jarba, un capo tribale di mentalità laica, ben accetto ai Sauditi, e il primo ministro ad interim, Ghassan Hitto, uomo d’affari che vive in America e che era stato nominato lo scorso marzo con l’appoggio di Qatar e Turchia, si è dimesso. Parallelamente la Russia, oltre ad aver riconosciuto il nuovo governo egiziano, sembra che abbia trattato con Israele il futuro della Siria ottenendo la disponibilità israeliana a Caschi Blu russi nel Golan a patto che Mosca sospenda la fornitura di missili terra-aria S-300 a Damasco.
Il resto è tutto da vedere.

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