Considerazioni preliminari
Non è chiaro se
Erdoğan ci tenga ancora a entrare nell’Unione europea, ma è ragionevole pensare
che per un periodo non breve lui e il suo governo se la siano bellamente
giocata. L’infelice frase uscita di Erdoğan sul suo non-riconoscimento del
Parlamento europeo (che aveva condannato la repressione) e la pronta risposta
con cui il presidente Schultz gli ha ricordato essere la Turchia a voler
entrare nell’Ue, e non viceversa, sono estremamente eloquenti al riguardo.
Certo, il problema dell’effettiva convenienza socio-economica dell’integrazione
con l’Ue per questo paese è altra cosa, e qui non interessa. Semmai c’è da
ricordare che la possibilità della sua realizzazione aveva (ed ha) per i turchi
davvero europeisti e per gli amici della Turchia lo scopo di attenuare al
massimo – possibilmente fino ad eliminarla del tutto - una caratteristica dei
governi della Mezzaluna vecchia di secoli e durata fino a oggi: l’autoritarismo endemico e la forte tendenza
all’arbitrarietà dei provvedimenti verso sudditi e cittadini. Con la
selvaggia repressione poliziesca delle manifestazioni a Istanbul, Ankara, Izmir
e in almeno una ventina di capoluoghi di provincia, Erdoğan ha mandato al
macero (psicologicamente e politicamente) tutte le riforme liberali finora
introdotte.
Giustamente sul
laico Hürriyet (Libertà) Semih Idiz
ha ricordato che finora i suoi sostenitori non erano solo islamici, ma «gruppi
molto diversificati, mossi dalla democrazia genuina e dai diritti umani (…).
Con il loro appoggio Erdoğan avrebbe potuto guadagnarsi un posto nei libri di
Storia come uno dei maggiori leader che la Turchia abbia prodotto. (… invece)
si è rinserrato nel passato e ha intrapreso una guerra che ha a che vedere più
con questo passato che con il futuro della Turchia».
A fronte del suo
comportamento è sembrata una tragica ironia l’osservazione del Presidente della
Repubblica Abdullah Gül (dello stesso partito di Erdoğan) per cui democrazia
non significa solo elezioni (e forse si tratta dell’inizio di una divaricazione
fra i due). Certo, nonostante tutto, la Turchia appare più come una democrazia
elettoralistica fortemente autoritaria che non come una più soft democrazia elettoralistica europea,
con autoritarismo temperato. Questo ci consente una riflessione di carattere
generale.
Il deficit
democratico sottinteso da Gül non è certo una caratteristica turca, giacché
tutte le democrazie occidentali si connotano per il maggiore o minore grado di
avvicinamento o scostamento rispetto alla partecipazione dei cittadini al di là
della periodica effettuazione di rituali elettorali, fermo restando che per
nessuna di esse può parlarsi di piena realizzazione dell’aspetto partecipativo.
In secondo luogo va detto che nemmeno la repressione poliziesca di piazza a cui
si è assistito in Turchia in sé e per sé merita l’indignazione dell’opinione
pubblica occidentale, sol se si pensa a quanto anni fa accadde a Genova durante
l’ormai famigerato G8 o alle manganellate della polizia spagnola agli indignados. Semmai è altro a rendere
anomala la repressione turca, e si tratta delle centinaia e centinaia di
arresti di giornalisti, medici e avvocati voluti o permessi da Erdoğan e
all’attuale implacabile repressione in sordina che porta all’arresto di un
numero incalcolabile di manifestanti ex
post. Che nel corso delle cariche dei gorilla in divisa costoro si prendano
manganellate a calci al pari dei manifestanti fa ormai parte della routine di tutte le proteste in cui a un
certo punto intervengano le cosiddette “forze dell’ordine”. Ma alla caccia di
massa no: non ci si è abituati, indigna e getta una nera ombra su chi le dà il
via. Soprattutto se l’autore è lo stesso che due anni fa biasimava Bashar al-Assad
per il fatto di non ascoltare la voce del popolo. Ma per Erdoğan gli oppositori
non fanno parte del popolo turco, bensì sono strumenti di un complotto
internazionale, sono terroristi e traditori. Ulteriore dimostrazione della
non-identità fra democrazia elettoralistica e spirito liberale.
Nello specifico i
recenti avvenimenti fanno compiere notevoli passi indietro al lento e faticoso
processo di democratizzazione iniziato negli anni ’80 da premier Turgut Özal e
successivamente proseguito da Erdoğan, portando però ogni possibile smaliziato
a pensare che quest’ultimo in realtà si sia mosso ad ampio raggio verso un solo
e unico obiettivo: prima tagliare le gambe alla leadership kemalista (e quindi
laica) delle Forze Armate e poi sostituirla con militari di maggiore fiducia.
Cosa puntualmente realizzatasi.
Cercare di capire le cause
La cosa più
semplice è vedere nei recenti avvenimenti turchi la contrapposizione fra
Turchia laica e Turchia islamica (che i mass-media hanno sempre decantato come
“moderata”), magari partendo dal fatto che i disordini sono avvenuti nelle
grandi città. Interpretazione semplice ma sbagliata. Intendiamoci: c’è anche questo; vale a dire
c’è il fatto che in un paese abituato alla libertà negli stili di vita
(condizionamenti famigliari a parte nella Turchia profonda) e dove i giovani
sono tantissimi i provvedimenti del governo islamico volti a condizionarli
(proibizione del fumo del narghilé nei locali pubblici, divieto di consumare
alcolici in pubblico dopo le 22, divieto di scambiarsi effusioni in pubblico
ecc.), l’aumento degli spazi per le scuole religiose e la crescita
dell’influenza per quella specie di confraternita islamica ma protetta dagli
Usa messa su da Fethullah Gülen, e altro, hanno diffuso un ampio malcontento,
aggravato dall’essere ormai manifesto che Erdoğan e l’Akp considerano
l’opposizione una iattura e non un elemento fisiologico per la dialettica
democratica. Ma questo non spiega tutto.
La questione del
Gezi Park è stata palesemente la classica goccia che ha fatto traboccare un
vaso già colmo e quindi la rabbia di una parte della popolazione nei confronti
di Erdoğan e del suo modo di governare, e manifesta lo scontento di strati
della società turca ormai stanchi dell’abitudine assunta dall’Akp abusando della
sua maggioranza parlamentare per forzare i limiti delle leggi e varare progetti
di notevole impatto evitando di sentire tutte le parti coinvolte oltre alla società
in senso più ampio del termine. L’ampiezza delle manifestazioni e il variegato
carattere dei partecipanti rivelano l’esplosione di un diffuso malessere
sociale e politico, aggravato dal fatto che in un paese dove la soglia di
sbarramento elettorale è addirittura del 10%, una gran parte della società
turca resta senza rappresentanza politica.
Del pari non c’entra
solo l’ecologismo nella difesa del parco; anzi, se solo di questo si fosse
trattato, l’avremmo potuta considerare immotivata. A ben guardare, infatti,
l’impatto ambientale del progetto di riconversione del parco Gezi è di gran
lunga inferiore a quelli per la costruzione del terzo ponte sul Bosforo (per di
più dedicato al sultano Yavuz Suleyman, ben noto alla storia ottomana per i
massacri contro gli Aleviti anatolici nel XVI secolo; e gli Aleviti sono a
tutt’oggi una consistente minoranza religiosa che difende la laicità e diffida
di Erdoğan) e del terzo aeroporto nella parte settentrionale di Istanbul e non
spiega come mai la protesta, iniziata a Istanbul e in aree di tradizionale
radicamento del laico Partito repubblicano del popolo (Cumhuriyet Halk Partisi-Chp) si sia diffusa in città dove al
contrario è forte il governativo Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi–Akp), come
Ankara, Kayseri e addirittura Konya (centro islamico per eccellenza) con la
partecipazione anche di musulmani ostili alla piega assunta dal governo di
Erdoğan e di giovani che avevano votato Akp. Praticamente nelle strade turche
si sono riversati elementi delle più varie provenienze, tra cui gente di
sinistra, curdi, islamo-ecologisti, aleviti e perfino seguaci di Fethullah
Gülen.
L’individuazione di
quanti sono scesi a manifestare nonostante la consapevolezza delle conseguenze
a cui sarebbero andati incontro è interessante, e lo ha fatto l’Università
Bilgi: più del 60% dei manifestanti aderenti al movimento Occupy Gezi avevano
un’età tra i 19 e i 30 anni e il 70% dei
duemila intervistati ha dichiarato la sua estraneità a qualsiasi formazione
politica; molti i liceali e universitari; c’erano militanti in gruppi della
sinistra rivoluzionaria, ma anche di sindacati, di ong, attori e artisti,
nazionalisti, gli ultras delle squadre di calcio, musulmani anticapitalisti,
anarchici, l’Unione della gioventù turca, il movimento dei curdi e pure casalinghe.
Con tutta
probabilità tra i motivi della reazione occasionata dal progetto di riconversione del parco
Gezi c’è un’esigenza identitaria in ordine alla preservazione di certi spazi
caratterizzanti il modo di essere della città contro l’ennesimo centro
commerciale, oltre tutto di amici di Erdoğan e forse fonte di tangenti per lui.
Ma operano pure altri fattori: l’attuale Piazza Taksim è un simbolo, e
all’interno di un popolo che ha forte il senso della patria i simboli sono
essenziali per ciò che esprimono. Piazza Taksim è un luogo-simbolo del kemalismo e dello Stato repubblicano,
vi sorgono il monumento alla Repubblica (inaugurato nel 1928 a commemorazione della
guerra d’Indipendenza guidata da Mustafá Kemal) e il Centro Culturale Atatürk
che si vorrebbe abbattere. La decisione di Erdoğan di installare un centro commerciale non può non
assumere il significato di uno sfregio all’eredità di Kemal da parte di
un governo islamico, con l’aggiunta che vi si vuole edificare una grande
moschea. Ma anche questo non basta: Erdoğan vuole realizzare una profonda
trasformazione urbanistica (per le sue manie di grandezza e per gli interessi
economici dei suoi amici imprenditori e suoi personali) in aree di Istanbul
popolate da classi sociali estranee alla visione politica e culturale del
premier.
Su internet circola una specie di eloquente “manifesto” della protesta,
specchio di quanto sopra detto e di altro ancora:
«Hai ficcato il naso nelle mie sigarette, hai ficcato il naso nelle
mie bevande, nella mia camera da letto, hai fatto rimuovere le immagini di Atatürk,
hai dato dell’”infedele” a Izmir, hai ostacolato il 10 novembre [anniversario della
morte di Kemal], hai ostacolato il 29 ottobre [festa della Repubblica], hai
ostacolato il 23 aprile [festa dei giovani], hai dato delle “malate di osteoporosi”
alle madri dei martiri, hai fatto combriccola con i terroristi delle montagne,
non hai detto una parola sulla morte di molte donne, hai proibito i voti, non
hai mai usato l’İnno nazionale in nessun meeting, ti sei seduto al tavolo con
quel bastardo di Apo [Abdullah Ocalan, capo del Pkk], non hai rispettato la
parola data ad Obama, hai ficcato il naso nei telefilm, hai dato diritti al
consiglio del Pkk, hai rimosso la scritta “T.C.” [Türkiye Cumhurieti /Repubblica Turca]… Secondo te, adesso la Turchia
si è levata solo per il parco?».
E per finire sicuramente
ha influito anche il malcontento per l’attuale politica verso la Siria, con il
coinvolgimento diretto della Turchia nella guerra civile. I sondaggi rivelano
che almeno il 50% dei Turchi è contrario all’attuale politica estera del
governo.
Indipendentemente
dall’esito della protesta a breve termine, due aspetti importanti vanno messi
in evidenza: la crescente consapevolezza del rischio che la svolta
autoritaria-confessionale si concretizzi in una sempre maggiore invasività nella vita delle persone e
altresì faccia parte di un progetto per la finale trasformazione della Turchia secondo
il “modello Dubai”, cioè uno Stato confessionale e fortemente autoritario in
cui grandi libertà economiche per pochi convivano con assai scarse libertà di pensiero,
dissenso e comportamento per i più.
Ne deriva l’importanza politica di una protesta plurale nella società e del
fatto che i valori laici si esprimano a livello di massa al di fuori di
qualsiasi tutela delle Forze Armate. Incrociando le dita.
Ma, come al
solito, c’entra anche l’economia
I governi di Erdoğan
obiettivamente sono stati caratterizzati da una rilevante crescita
macroeconomica (nella sfera microeconomica le cose vanno diversamente): prodotto interno lordo triplicato,
aumento degli investimenti esteri, crescita media annuale del 5%, reddito pro capite
passato da 3.500 dollari del 2003 ai 10 mila del 2012. Lo stesso Erdoğan aveva
annunciato il programma economico da realizzare addirittura entro il 2023 (cioè
per il centenario di fondazione della Repubblica turca): prevede il
posizionamento della Turchia fra le 10 più importanti economie del mondo, il
traguardo dei 25.000 dollari per il reddito pro-capite, esportazioni per 500
miliardi di dollari e la completa produzione industriale autarchica di automobili,
velivoli e mezzi militari. L’aspettativa e bella ma resta il famoso iato fra il
dire e il fare.
Oggi la crescita turca
pare trovarsi in una forte fase di calo, a cui non sono estranee le ultime
avventate scelte di politica estera del nostro personaggio. Si potrebbe
malignamente pensare all’esistenza, dietro la repressione da lui ordinata, di
un cinico giudizio di opportunità: meglio far capire subito a cosa si va
incontro protestando per fatti “minori”
prima che i motivi maggiori esplodano in tutta la loro consistenza. Chi vivrà
vedrà.
Circa gli esiti della
recente politica estera di Erdoğan ricordiamo che l’attivo appoggio alla
rivolta contro Gheddafi ha avuto come conseguenza la perdita del mercato libico
e che il sostegno dato alla rivolta siriana (un anno dopo la firma di un
trattato di libero commercio fra Ankara e Damasco) ha portato allo stesso
negativo risultato per la Siria. Se il tasso di crescita della Turchia nel
primo trimestre del 2012 è stato del solo 3,2%
(rispetto all’11,9 % del primo trimestre del 2011) – e il calo continua
- lo si deve anche a questi fatti; ma non solo.
Nell’ambito dell’emigrazione dalle campagne anatoliche verso Ankara, Izmir
e Istanbul si è creato un vasto ceto di commercianti e piccoli imprenditori
arricchitisi grazie alle politiche dell’Akp, e nel complesso livelli di
ricchezza e tenori di vita dell’alta borghesia hanno conosciuto un incremento
notevole, mentre lo stesso non può affatto dirsi per dipendenti pubblici, operai
e lavoratori non qualificati, con l’aggiunta che i leggeri aumenti salariali
sono stati divorati dall’aumento del costo della vita nelle grandi città e da un'inflazione
all'8,9%. Anche le condizioni di lavoro
non hanno avuto miglioramenti di rilievo, mancando una tutela legislativa dei diritti
sindacali. Se da un lato gli emendamenti costituzionali del 2010 hanno reso possibile
la contrattazione collettiva nel settore pubblico, da un altro lato tuttavia c’è
l’ostacolo costituito dall’elevato numero di lavoratori che devono essere
iscritti a un sindacato perché questo possa partecipare alle trattative; numero
elevato che in pratica esclude la
maggior parte dei sindacati esistenti. Poi va considerata la diffusione del
lavoro minorile e la mancanza di tutela delle condizioni lavorative, per la
quale la Turchia è ai primissimi posti nella classifica dei morti sul lavoro (è
la quarta nel mondo e la prima in Europa). Ma d’altro canto Erdoğan è un
liberista tra i più spinti.
Un grosso problema per l’economia turca sta nel disavanzo nella bilancia
commerciale pari all’8-8,5% del Pil. Questo vuol dire poca esportazione
rispetto a un’importazione eccessiva, e quindi indebitamento, soprattutto verso
l’Europa, che è il primo partner commerciale della Turchia oltre che la principale
fonte di investimenti. Oggi però i paesi dell’Unione europea sono quasi tutti
in crisi, con il conseguente aumento della vulnerabilità dell’economia turca in
termini reali e finanziari. La Turchia finora, per i tassi di interesse e per
le opportunità di investimento offerti, ha attirato forti flussi di denaro, a
tutto vantaggio della lira turca che ha acquistato valore. Un’inversione della
tendenza - cioè un’uscita di rilievo di capitali dal mercato turco - porterebbe
in primo luogo alla perdita di valore moneta locale e alla riduzione della
domanda interna.
E qui «l’amico
americano» ci va pesante. Il numero invernale 2012 del Middle East Quarterly ha dedicato
le pagine da 25 a
30 a un
articolo di David P. Goldman dove si prevede a tempi brevi il collasso del
«miracolo economico turco», addirittura paragonando la situazione di questo
paese a quella argentina del 2000, di cui tutti ricordiamo gli effetti
disastrosi di massa.
Vediamo un po’.
Fermo restando il citato squilibrio nella bilancia dei pagamenti, l’economia
turca si è avvantaggiata dei risultati delle esportazioni ma, come abbiamo
detto, c’è la crisi europea e volgersi al Vicino Oriente è privo di
prospettive. Si consideri pure che lo squilibrio commerciale – già aggravato
dalla caduta del tasso di cambio della lira turca rispetto alle più forti
valute degli scambi internazionali, cioè il dollaro e l’euro – deve fare i
conti con una caratteristica attuale di molti dei prodotti turchi destinati
all’esportazione: essi si avvalgono di molti componenti importati. In teoria la
soluzione del problema starebbe dietro l’angolo: basterebbe produrre in loco questi componenti, o la maggior parte
di essi. In concreto invece gli ostacoli non mancano. Innanzi tutto, il costo
finale di una produzione così organizzata dovrebbe essere inferiore a quello
oggi praticato dai fornitori esteri, altrimenti il costo di produzione del prodotto
finito non si abbasserebbero e sfumerebbe la loro appetibilità sul mercato
europeo. Né basta. Questa ipotetica produzione autarchica richiederebbe un
certo stadio delle ricerche funzionali e degli investimenti; stadio che in atto
manca e in relazione a cui la Turchia non sembra essere preparata.
Giustamente Goldman
sottolinea che una mancata inversione della tendenza alla decrescita avrebbe
serie ripercussioni elettorali sul partito di Erdoğan e sarebbe causa di
pericolose agitazioni sociali, ovviamente aggravate dall’irrisolto problema
curdo, mentre invece Erdoğan ha un assoluto bisogno della possibilità di
erogare incentivi economici per disinnescare la questione curda ed evitare
problemi interni ancora più gravi.
Le divisioni nel fronte
della borghesia
Il professore
Serguei Drujilovski, dell’Istituto di Studi Orientali dell’Università delle
Relazioni internazionali di Mosca (Mgimo) traccia il seguente quadro in merito
alla Turchia:
«Il 30% della
popolazione è kemalista. Un altro 30% è islamista duro, convinto che tutto
debba cambiare. E circa il 30% sono gli indecisi, soprattutto in ambito rurale.
Ma io non credo che gli islamisti scenderanno in piazza, perché questo
porterebbe alla guerra civile. Quindi il governo farà tutto il possibile per
raffreddare le passioni e per canalizzarle sulla via del negoziato. Finché
l’islamizzazione è stata dolce, tutto è andato bene. Ma poi, con le primavere
arabe e la situazione in Siria, il regime ha cominciato a radicalizzarsi, a
prendere misure più autoritarie e ad adottare leggi dal tenore chiaramente
islamico. Penso che sia stato questo a scatenare le proteste. Perché,
nonostante tutto quello che si dice, la società turca resta largamente laica».
Un’altra
interessante dichiarazione è stata rilasciata a The Voice of Russia da Stanislav Tarasov :
«Diverse forze
politiche reclamano le dimissioni di Erdoğan, e io penso che un rimpasto sia possibile.
Oggi il presidente Gül è l’uomo politico più popolare del paese, e al secondo
posto c’è il leader dell’opposizione Kemal Kiliçdaroğlu del Partito Repubblicano
del Popolo (Chp). Il destino di questo partito sembra giocarsi attorno a queste
due cifre».
Tutto questo non
implica però che necessariamente Erdoğan (se rimane in carica) e l’Akp vadano a perdere le prossime
elezioni, in quanto hanno dietro di sé una parte del consenso urbano e gran
parte di quello delle campagne anatoliche. Pur tuttavia fermarsi a questo dato,
o considerarlo fuori da ogni dinamica, potrebbe essere erroneo. Esistono
recentissimi sondaggi che danno in forte
calo l’Akp (al 38,5%) e in crescita il suo rivale Chp (passato al 26,1%).
Poiché gli umori degli elettorati sono notoriamente variabili, c’è da farne un
affidamento assai relativo e non va trascurata l’esistenza di altri sondaggi
che mostrano invece la sostanziale tenuta del partito islamico.
Il blocco sociale di appoggio a Erdoğan è poderoso. Si parte dal sostegno
di certi clan famigliari dell’alta borghesia, di grandi costruttori immobiliari,
di rampanti industriali d’assalto islamo-capitalisti con cui il governo ha
stretto rapporti d’amicizia e di parentela. Va considerata poi la creazione -
praticamente dal nulla di una piccola e
media borghesia islamica di estrazione provinciale che può avvantaggiarsi di un
alto tasso di sfruttamento (grazie alle condizioni offertele da una
legislazione certamente non considerabile «diritto del lavoro ma semmai diritto
per i datori di lavoro) ormai capillarmente presente e su cui si basa circa il
50% dell'economia turca. E naturalmente Erdoğan ha l’appoggio degli strati
popolari e contadini meno acculturati e legati alle tradizioni religiose,
grazie anche alla creazione di una rete di scuole religiose e centri di assistenza
e volontariato che portano consenso e voti.
Assai più debole è Erdoğan sul fronte borghese tradizionale, dove invece è
forte il Chp, che gode altresì di un certo seguito popolare tra quanti
condividono gli ideali laici e nazionalistici che furono di Atatürk. E difatti
la Turchia è politicamente e culturalmente spaccata in due parti: l’Akp
rappresenta quella maggioritaria, ma l’altra che le si contrappone è una
minoranza di tutto rispetto che - cambiando in peggio la situazione economica -
potrebbe diventare maggioranza o equivalere alla somma di consensi dell’Akp.
Assolutamente ostili (se non addirittura nemici) dell’Akp sono le grandi
famiglie della vecchia borghesia laica le quali
pur avendo perso posizioni negli ultimi 20 anni - costituiscono un
poderoso blocco di potere con forti legami internazionali e con l’esercito.
Ovviamente il Chp ne è il referente politico primario. Come si vede la partita
turca è tutta giocata da settori basati sui vari schieramenti interni al fronte
della borghesia; d’altro canto la sinistra radicale turca tra frammentazione
interna e feroci repressioni esterne è praticamente senza voce nell’agone
politico.
Il mondo dei lavoratori
Dal versante del mondo del lavoro non ci si può aspettare il sorgere di
realtà organizzate poi convogliabili in un blocco sociale e politico capace di
svolgere un suo ruolo, per quanto siano cresciuti in termini assoluti il
proletariato e i lavoratori dipendenti in genere. La stessa iscrizione a un
sindacato - che dovrebbe essere una cosa banale - è invece ardua per il
micidiale procedimento burocratico che la disciplina e che addirittura richiede
l’autentificazione da parte di notaio della richiesta in cinque copie, poi
inoltrate a vari uffici. Anche la proclamazione degli scioperi è tutt’altro che
agevole, essendo previsto un lungo iter di avviso alla controparte, fermo
restando che in ogni momento le autorità possono sospendere l’iniziativa e
precettare i lavoratori. Prima del Referendum costituzionale del 2010 si poteva
scioperare solo nel privato ad eccezione però delle industrie di valore strategico
(di produzione di carbone, centrali idroelettriche, elettriche, a gas e a
carbone, settore bancario e notai). Ora anche nell’impiego pubblico è possibile
lo sciopero ma osservando norme molto rigide. A ciò si aggiunga che la Costituzione
vieta nel settore privato gli scioperi politici e di solidarietà.
Naturalmente, tenuto conto delle prevalenti condizioni di lavoro in
Turchia, le proteste e le lotte non mancano, come pure i fenomeni di
autorganizzazione, per quanto se ne parli assai poco. A ogni modo va registrato
che questo tessuto di lotte sociali costituisce un retroterra di esperienze e
capacità operative poi trasferitesi nelle manifestazioni di Istanbul e altre
città con insediamenti industriali, quasi simultaneamente: le campagne, invece,
sono rimaste tranquille.
Non è che Erdoğan perderà
le prossime elezioni
L’anno prossimo ci saranno le elezioni presidenziali: un momento assai
atteso da Erdoğan il quale vorrebbe candidarsi (ha già tentato di fare
approvare una legge che avrebbe impedito ad Abdullah Gül - suo compagno di
partito e attuale Presidente della Repubblica - di ricandidarsi alla carica), e
in più far modificare la Costituzione così da potersi mantenere alla Presidenza
della Repubblica fino al Centenario repubblicano del 2023. Un sogno fino all’altro
ieri a portata di mano; oggi invece a forte rischio poiché i 330 voti necessari
alla riforma costituzionale potrebbero non essere raggiunti.
Un altro elemento potrebbe far precipitare la Turchia in una nuova, più
vasta e più pericolosa crisi politica: ci riferiamo all’attuale ammorbidito
atteggiamento di Erdoğan verso i Curdi e i tentativi di giungere a un accordo
con il Pkk di Ocalan che trovano in disaccordo la maggioranza della popolazione
turca, trasversalmente agli schieramenti partitici. Potrebbe essere l’intesa
col Pkk a innescare una reazione nelle Forze Armate. È significativo che
recentemente il Chp e il partito di destra Mhp (Partito del Movimento Nazionalista, o Milliyetçi
Hareket Partisi, legato ai Lupi Grigi, o Bozkurtlar) - ancora con strette relazioni con ambienti delle Forze
Armate - abbiano cercato di opporsi alla modifica dell’art. 60 della
Costituzione volta a riconoscere l'identità curda.
Il 12 giugno il
quotidiano Today’s Zaman (Tempo
d’oggi), per quanto moderatamente islamico, ha voluto evidenziare che le cose
in Turchia sono molto più serie di quanto voglia fare intendere la
semplicistica e vittimistica versione di Erdoğan, tutta incentrata
sull’additare i manifestanti come strumenti di un oscuro complotto straniero:
«Alcuni attori internazionali sono stati
contemporaneamente molto contenti e molto attivi su quanto sta accadendo, per
tutta una serie di ragioni. Ciononostante, cosa c'è di nuovo in tutto questo?
Se il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) si sta rendendo conto, per
la prima volta, che non ci sono amici permanenti nella politica internazionale,
ma solo interessi permanenti, è ora troppo tardi. Allo stesso tempo mi chiedo:
è utile dare la colpa alla “lobby degli interessi” che avrebbe beneficiato
degli incidenti? La domanda è questa: perché questa volta tutti questi attori
sarebbero stati in grado di inscenare proteste e scuotere allo stesso tempo Akp
e Turchia mentre in passato no? Non sono infatti emersi improvvisamente dopo le
proteste di Gezi Park, sono sempre stati lì».
L’Akp è un partito strettissimamente dominato da Erdoğan, tanto che voci
interne di dissidenza non se ne sentono. Tuttavia questa forte presa coesiste
(o forse ne è causa) con una fragilità interna che non va trascurata. Erdoğan è
un autocrate sia nel governo sia nel suo partito, con la tendenza - in entrambi
gli ambiti - a intendere come offese personali le critiche politiche. Il
naturale corollario di un tale temperamento è l’occuparsi anche di questioni
(nazionali e locali) di competenza di altre figure istituzionali. Questo vuole
dire ingerirsi e contraddire, e alle lunghe offendere e creare malumori. C’è da
chiedersi legittimamente che sarebbe accaduto se l’attuale crisi fosse stata
gestita da personalità diverse, come il presidente Gül o il sindaco di Istanbul
Kadir Topbaş. Un segnale si è avuto durante la visita di Erdoğan in Nordafrica:
la situazione in Turchia era più
tranquilla, e il Vice primo ministro Bülent Arınç (lo stesso che con Erdoğan
presente ha poi ventilato la minaccia di un intervento dell’esercito) svolgeva
un ruolo conciliante. Rientrato Erdoğan ecco la repressione selvaggia. Se la
sarà legata al dito Arınç? Tre deputati
dell’Akp - tra cui l'ex ministro della Cultura – hanno osato criticato
apertamente la posizione di Erdoğan, ma tutti gli altri sono restati in
silenzio, anche se si sa che la pensano allo stesso modo. Un altro strappo si è
avuto con l’editoriale del consulente capo di Erdoğan, Alçın Akdoğan, pubblicato
dal quotidiano Star, tutt’altro che
in linea con il Primo ministro.
Un eventuale appannamento del carisma politico di Erdoğan potrebbe avere
contraccolpi notevoli all’interno dell’Akp, che non è per niente omogeneo sotto
il profilo ideologico, in quanto la sua identità islamica è come un contenitore
dove convivono tendenze disparate. Si pensi che molti suoi membri sono contrari
all’ipotetica introduzione della sharía
e su varie questioni sono alquanto eterodossi rispetto ai settori turchi
rigidamente islamici. Il vero punto di unione è Erdoğan
quale leader vincente, decisionista, demagogo, abile nelle trattative, e la cui
immagine è stata abilmente costruita e aggiornata dai media vicini al suo
governo. Tuttavia oggi un sostituto di Erdoğan non si intravede, come pure non
si intravede un’alternativa politica all’Akp. Il maggior partito di opposizione, il Chp
(25% dei consensi), non sembra proprio essere tale, a meno che non effettui un
salto di qualità. Formalmente è un partito kemalista socialdemocratico e tanto
battagliero difensore del laicismo secolari da risultare anche nazionalista al
massimo e legato ad ambienti militari. Proprio per questo è del tutto
impensabile che faccia fronte unico contro Erdoğan insieme all’elettorato
curdo. Ragion per cui la sua principale chance
sta nel fare breccia in una parte dell’elettorato turco che finora aveva votato
Akp.
I recenti
avvenimenti hanno senza dubbio arrecato un duro colpo all’immagine politica
della Turchia di Erdoğan
L’assordante silenzio
delle Forze Armate turche
Gli attuali eventi si sono
svolti nel silenzio più assoluto delle Forze Armate. Tanto che ci sarebbe da
pensare che esse siano ancora - per così dire - tramortite dai colpi inferti da
Erdoğan col plauso di chi in Turchia era stanco dei golpe militari e della
speranzosa Europa. Addirittura il Vice primo ministro turco ha minacciato
l’intervento dell’esercito contro i manifestanti. Minaccia seria?
Inutile dire che quanto
provo a ipotizzare nei paragrafi seguenti si basa su dati alquanto labili e su
impressioni personali, che poi il futuro verificherà.
Parto dalla constatazione
che effettivamente Erdoğan è riuscito in quel che sembrava impossibile: ridurre
lo strapotere delle Forze Armate (per contro aumentando il potere della
polizia, più musulmana dei militari), e non solo.
Tra il 2009 e il 2012 ha
eliminato - mediante pensionamenti e condanne giudiziarie - centinaia di
generali con l’accusa di golpismo e addirittura tre di essi - Cetin Dogan (ex primo comandante
dell'esercito), Halil Ibrahim (ex comandante dell'aviazione) e Ozden Ornek (ex
generale della marina) - si faranno 20 anni di galera per aver organizzato i
preparativi di un golpe mai effettuato. E oltre trecento ex militari sono stati
condannati a pene tra i 15 e i 20 anni.
Il cavallo di battaglia di Erdoğan è stato il «caso Ergenekon», fantomatica organizzazione golpista
laica sulla cui esistenza sia l’opposizione sia la stampa non allineata non
mancano di manifestare dubbi e sospetti e di irridere sulle leggende metropolitane sorte riguardo a Ergenekon. I processi vanno per
le lunghe (volutamente per pressione psicologica?), e finora si è avuta una
sola pronuncia giudiziale, quando cioè
il tribunale che nel 2008 condannò il giornalista Zihni Çakır, autore di libri
su Ergenekon, per aver rivelato informazioni riservate riguardanti un’inchiesta
in corso, concluse però che Ergenekon è «un mito» senza alcun fondamento
(ovviamente i partigiani dell’Akp hanno tacciato l’autore della sentenza di
essere vicino a esponenti di Ergenekon).
Per quanto gli capi
delle Forze Amate siano stati scelti fra persone non sospette, poiché i golpe
non li fanno solo i generali, ma anche i colonnelli e i capitani, oggi far
scendere in piazza i militari potrebbe essere un’arma rischiosa e a doppio
taglio, non essendoci garanzia che - una volta fuori dalle caserme - essi, invece di fare il lavoro sporco affidato dal
governo, in realtà facciano il proprio, approfittando dell’occasione. Non
va taciuto che aleggia il sospetto della presenza di una lunga mano di ambienti
militari dietro i manifestanti meno «pacifisti». Comunque l’avvenuta epurazione
dei vertici delle Forze Armate ovviamente non è sinonimo di loro
islamizzazione. Non è pensabile che nella situazione attuale si realizzi un
golpe, ma se le cose dovessero precipitare, ovvero se i militari kemalisti
ritenessero in serio pericolo i valori laici, forse le cose cambierebbero. Per
il momento c’è solo da segnalare che a Istanbul circolano voci su incidenti fra
poliziotti e militari per il rifiuto di questi ultimi ad aiutare la polizia
contro i manifestanti. Leggenda metropolitana o no? Ci si limita a
registrare.
Il futuro non è roseo nemmeno per l’opposizione sociale
turca, ma…
Da quanto detto in precedenza dovrebbe essere chiaro che l’autocrazia di
Erdoğan continua a mantenere salda la sua presa sulla Turchia, e che l’elemento
di novità è dato da un’opposizione di massa (per quanto non maggioritaria)
contro di lui, più che contro l’Akp in quanto tale. Può darsi che egli
continuerà a usare il pugno di ferro, al che si vedrà se da questo deriverà o
no un’attenuarsi del malcontento di piazza. Finora non ha giocato una carta
obiettivamente a sua disposizione: l’uso di squadristi islamici contro gli
oppositori. Un altro suo elemento di forza è dato dall’appoggio del capitalismo estero (qualcuno ricorda ancora le
calorosissime attenzioni che Berlusconi dedicò al suo collega turco quando era
al governo in Italia?), che non lo mollerà fino a che non si trovi un suo sostituto
e soprattutto gli sviluppi della situazione non lo consiglino.
I segnali di scontento del capitale internazionale per Erdoğan già si
intravedono e sono collegati con le sue aperture al capitale russo, come è
accaduto con le recente privatizzazioni. Comunque
sotto il profilo degli interessi economici non ci sarà da stupirsi se i
problemi dell’economia turca (già in precedenza accennati) si coniugheranno - e
saranno aggravati - da sensibili perdite nel comparto turistico
Ma anche l’opposizione,
pur a prescindere dall’ipotetico intervento militare, dispone dei punti di
forza suoi propri (il complesso delle varie opposizioni comprende il 40% del
Parlamento) e di quelli creati dallo svolgimento delle proteste, durante le
quali comunque si è schierata con i manifestanti. Ebbene, nella manifestazioni
dei giorni scorsi settori della popolazione vuoi liberali vuoi kemalisti si
sono trovati a lottare insieme a settori della sinistra, che finora hanno
pagato la loro cronica frammentazione con l’impossibilità di superare lo
sbarramento elettorale del 10%. In più c’è stata la convergenza degli ultras
del Fenerbahce, del Beşikitaş e del Galatasaray: con questi ultimi il fronte
popolare dell’opposizione ha palesemente incluso (per lo meno a Istanbul)
settori di proletariato metropolitano che - insieme agli attivisti politici e
sindacali - hanno una certa pratica di scontri con la polizia. Il fatto che si
siano visti anarchici con bandiere su cui c’era l’effige di Atatürk è
sicuramente un fatto simbolico, ma a seconda di quel che farà Erdoğan potrebbe
sviluppare una valenza non solo virtuale.
Non è detto che essa significhi una rinascita della sinistra turca, giacché
potrebbe pure risolversi nell’agganciamento della protesta da parte del Chp e/o
della destra dell’Mhp, tanto più che tra questi due partiti e i giovani e i
lavoratori scesi in piazza esiste una convergenza che nella storia ha avuto dei
precedenti (magari non tutti positivi): Chp e Mhp hanno dietro le spalle
capitalisti che - non facendo parte della cerchia di Erdoğan e dell’Akp - da
anni e anni sono rimasti tagliati fuori da lucrosissimi negozi e appalti, e
quindi puntano a rientrare in scena; dal canto loro anche i giovani
contestatori aspirano ad avere spazi, sia di libertà sia materiali in quanto
tagliati fuori dai flussi di ricchezza che il governa orienta altrove.
Ancora una volta possiamo concludere con una constatazione banale ma
ricorrente negli avvenimenti che hanno segnato vari Paesi (dal Nordafrica e non
solo – si pensi al Brasile): e cioè che se la rivolta sociale in corso può
arrivare a capovolgere determinati equilibri politici, la rivoluzione appare
ancora molto lontana.
(da Lisbona, 19 giugno
2013)
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