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giovedì 20 giugno 2013

IN TURCHIA AVANZA LA REPRESSIONE, ARRETRA LA DEMOCRATIZZAZIONE, di Pier Francesco Zarcone

Considerazioni preliminari
Non è chiaro se Erdoğan ci tenga ancora a entrare nell’Unione europea, ma è ragionevole pensare che per un periodo non breve lui e il suo governo se la siano bellamente giocata. L’infelice frase uscita di Erdoğan sul suo non-riconoscimento del Parlamento europeo (che aveva condannato la repressione) e la pronta risposta con cui il presidente Schultz gli ha ricordato essere la Turchia a voler entrare nell’Ue, e non viceversa, sono estremamente eloquenti al riguardo. Certo, il problema dell’effettiva convenienza socio-economica dell’integrazione con l’Ue per questo paese è altra cosa, e qui non interessa. Semmai c’è da ricordare che la possibilità della sua realizzazione aveva (ed ha) per i turchi davvero europeisti e per gli amici della Turchia lo scopo di attenuare al massimo – possibilmente fino ad eliminarla del tutto - una caratteristica dei governi della Mezzaluna vecchia di secoli e durata fino a oggi: l’autoritarismo endemico e la forte tendenza all’arbitrarietà dei provvedimenti verso sudditi e cittadini. Con la selvaggia repressione poliziesca delle manifestazioni a Istanbul, Ankara, Izmir e in almeno una ventina di capoluoghi di provincia, Erdoğan ha mandato al macero (psicologicamente e politicamente) tutte le riforme liberali finora introdotte.

Giustamente sul laico Hürriyet (Libertà) Semih Idiz ha ricordato che finora i suoi sostenitori non erano solo islamici, ma «gruppi molto diversificati, mossi dalla democrazia genuina e dai diritti umani (…). Con il loro appoggio Erdoğan avrebbe potuto guadagnarsi un posto nei libri di Storia come uno dei maggiori leader che la Turchia abbia prodotto. (… invece) si è rinserrato nel passato e ha intrapreso una guerra che ha a che vedere più con questo passato che con il futuro della Turchia».
A fronte del suo comportamento è sembrata una tragica ironia l’osservazione del Presidente della Repubblica Abdullah Gül (dello stesso partito di Erdoğan) per cui democrazia non significa solo elezioni (e forse si tratta dell’inizio di una divaricazione fra i due). Certo, nonostante tutto, la Turchia appare più come una democrazia elettoralistica fortemente autoritaria che non come una più soft democrazia elettoralistica europea, con autoritarismo temperato. Questo ci consente una riflessione di carattere generale.
Il deficit democratico sottinteso da Gül non è certo una caratteristica turca, giacché tutte le democrazie occidentali si connotano per il maggiore o minore grado di avvicinamento o scostamento rispetto alla partecipazione dei cittadini al di là della periodica effettuazione di rituali elettorali, fermo restando che per nessuna di esse può parlarsi di piena realizzazione dell’aspetto partecipativo. In secondo luogo va detto che nemmeno la repressione poliziesca di piazza a cui si è assistito in Turchia in sé e per sé merita l’indignazione dell’opinione pubblica occidentale, sol se si pensa a quanto anni fa accadde a Genova durante l’ormai famigerato G8 o alle manganellate della polizia spagnola agli indignados. Semmai è altro a rendere anomala la repressione turca, e si tratta delle centinaia e centinaia di arresti di giornalisti, medici e avvocati voluti o permessi da Erdoğan e all’attuale implacabile repressione in sordina che porta all’arresto di un numero incalcolabile di manifestanti ex post. Che nel corso delle cariche dei gorilla in divisa costoro si prendano manganellate a calci al pari dei manifestanti fa ormai parte della routine di tutte le proteste in cui a un certo punto intervengano le cosiddette “forze dell’ordine”. Ma alla caccia di massa no: non ci si è abituati, indigna e getta una nera ombra su chi le dà il via. Soprattutto se l’autore è lo stesso che due anni fa biasimava Bashar al-Assad per il fatto di non ascoltare la voce del popolo. Ma per Erdoğan gli oppositori non fanno parte del popolo turco, bensì sono strumenti di un complotto internazionale, sono terroristi e traditori. Ulteriore dimostrazione della non-identità fra democrazia elettoralistica e spirito liberale.
Nello specifico i recenti avvenimenti fanno compiere notevoli passi indietro al lento e faticoso processo di democratizzazione iniziato negli anni ’80 da premier Turgut Özal e successivamente proseguito da Erdoğan, portando però ogni possibile smaliziato a pensare che quest’ultimo in realtà si sia mosso ad ampio raggio verso un solo e unico obiettivo: prima tagliare le gambe alla leadership kemalista (e quindi laica) delle Forze Armate e poi sostituirla con militari di maggiore fiducia. Cosa puntualmente realizzatasi.

Cercare di capire le cause
La cosa più semplice è vedere nei recenti avvenimenti turchi la contrapposizione fra Turchia laica e Turchia islamica (che i mass-media hanno sempre decantato come “moderata”), magari partendo dal fatto che i disordini sono avvenuti nelle grandi città. Interpretazione semplice ma sbagliata.  Intendiamoci: c’è anche questo; vale a dire c’è il fatto che in un paese abituato alla libertà negli stili di vita (condizionamenti famigliari a parte nella Turchia profonda) e dove i giovani sono tantissimi i provvedimenti del governo islamico volti a condizionarli (proibizione del fumo del narghilé nei locali pubblici, divieto di consumare alcolici in pubblico dopo le 22, divieto di scambiarsi effusioni in pubblico ecc.), l’aumento degli spazi per le scuole religiose e la crescita dell’influenza per quella specie di confraternita islamica ma protetta dagli Usa messa su da Fethullah Gülen, e altro, hanno diffuso un ampio malcontento, aggravato dall’essere ormai manifesto che Erdoğan e l’Akp considerano l’opposizione una iattura e non un elemento fisiologico per la dialettica democratica. Ma questo non spiega tutto.
La questione del Gezi Park è stata palesemente la classica goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo e quindi la rabbia di una parte della popolazione nei confronti di Erdoğan e del suo modo di governare, e manifesta lo scontento di strati della società turca ormai stanchi dell’abitudine assunta dall’Akp abusando della sua maggioranza parlamentare per forzare i limiti delle leggi e varare progetti di notevole impatto evitando di sentire tutte le parti coinvolte oltre alla società in senso più ampio del termine. L’ampiezza delle manifestazioni e il variegato carattere dei partecipanti rivelano l’esplosione di un diffuso malessere sociale e politico, aggravato dal fatto che in un paese dove la soglia di sbarramento elettorale è addirittura del 10%, una gran parte della società turca resta senza rappresentanza politica.   
Del pari non c’entra solo l’ecologismo nella difesa del parco; anzi, se solo di questo si fosse trattato, l’avremmo potuta considerare immotivata. A ben guardare, infatti, l’impatto ambientale del progetto di riconversione del parco Gezi è di gran lunga inferiore a quelli per la costruzione del terzo ponte sul Bosforo (per di più dedicato al sultano Yavuz Suleyman, ben noto alla storia ottomana per i massacri contro gli Aleviti anatolici nel XVI secolo; e gli Aleviti sono a tutt’oggi una consistente minoranza religiosa che difende la laicità e diffida di Erdoğan) e del terzo aeroporto nella parte settentrionale di Istanbul e non spiega come mai la protesta, iniziata a Istanbul e in aree di tradizionale radicamento del laico Partito repubblicano del popolo (Cumhuriyet Halk Partisi-Chp) si sia diffusa in città dove al contrario è forte il governativo Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi–Akp), come Ankara, Kayseri e addirittura Konya (centro islamico per eccellenza) con la partecipazione anche di musulmani ostili alla piega assunta dal governo di Erdoğan e di giovani che avevano votato Akp. Praticamente nelle strade turche si sono riversati elementi delle più varie provenienze, tra cui gente di sinistra, curdi, islamo-ecologisti, aleviti e perfino seguaci di Fethullah Gülen.
L’individuazione di quanti sono scesi a manifestare nonostante la consapevolezza delle conseguenze a cui sarebbero andati incontro è interessante, e lo ha fatto l’Università Bilgi: più del 60% dei manifestanti aderenti al movimento Occupy Gezi avevano un’età tra i 19 e i 30 anni e il  70% dei duemila intervistati ha dichiarato la sua estraneità a qualsiasi formazione politica; molti i liceali e universitari; c’erano militanti in gruppi della sinistra rivoluzionaria, ma anche di sindacati, di ong, attori e artisti, nazionalisti, gli ultras delle squadre di calcio, musulmani anticapitalisti, anarchici, l’Unione della gioventù turca, il movimento dei curdi e pure casalinghe. 
Con tutta probabilità tra i motivi della reazione occasionata dal progetto di riconversione del parco Gezi c’è un’esigenza identitaria in ordine alla preservazione di certi spazi caratterizzanti il modo di essere della città contro l’ennesimo centro commerciale, oltre tutto di amici di Erdoğan e forse fonte di tangenti per lui. Ma operano pure altri fattori: l’attuale Piazza Taksim è un simbolo, e all’interno di un popolo che ha forte il senso della patria i simboli sono essenziali per ciò che esprimono.  Piazza Taksim è un luogo-simbolo del kemalismo e dello Stato repubblicano, vi sorgono il monumento alla Repubblica (inaugurato nel 1928 a commemorazione della guerra d’Indipendenza guidata da Mustafá Kemal) e il Centro Culturale Atatürk che si vorrebbe abbattere. La decisione di Erdoğan di installare un centro commerciale non può non assumere il significato di uno sfregio all’eredità di Kemal da parte di un governo islamico, con l’aggiunta che vi si vuole edificare una grande moschea. Ma anche questo non basta: Erdoğan vuole realizzare una profonda trasformazione urbanistica (per le sue manie di grandezza e per gli interessi economici dei suoi amici imprenditori e suoi personali) in aree di Istanbul popolate da classi sociali estranee alla visione politica e culturale del premier.
Su internet circola una specie di eloquente “manifesto” della protesta, specchio di quanto sopra detto e di altro ancora:
«Hai ficcato il naso nelle mie sigarette, hai ficcato il naso nelle mie bevande, nella mia camera da letto, hai fatto rimuovere le immagini di Atatürk, hai dato dell’”infedele” a Izmir, hai ostacolato il 10 novembre [anniversario della morte di Kemal], hai ostacolato il 29 ottobre [festa della Repubblica], hai ostacolato il 23 aprile [festa dei giovani], hai dato delle “malate di osteoporosi” alle madri dei martiri, hai fatto combriccola con i terroristi delle montagne, non hai detto una parola sulla morte di molte donne, hai proibito i voti, non hai mai usato l’İnno nazionale in nessun meeting, ti sei seduto al tavolo con quel bastardo di Apo [Abdullah Ocalan, capo del Pkk], non hai rispettato la parola data ad Obama, hai ficcato il naso nei telefilm, hai dato diritti al consiglio del Pkk, hai rimosso la scritta “T.C.” [Türkiye Cumhurieti /Repubblica Turca]… Secondo te, adesso la Turchia si è levata solo per il parco?».
E per finire sicuramente ha influito anche il malcontento per l’attuale politica verso la Siria, con il coinvolgimento diretto della Turchia nella guerra civile. I sondaggi rivelano che almeno il 50% dei Turchi è contrario all’attuale politica estera del governo.
Indipendentemente dall’esito della protesta a breve termine, due aspetti importanti vanno messi in evidenza: la crescente consapevolezza del rischio che la svolta autoritaria-confessionale si concretizzi in una sempre maggiore invasività nella vita delle persone e altresì faccia parte di un progetto per la finale trasformazione della Turchia secondo il “modello Dubai”, cioè uno Stato confessionale e fortemente autoritario in cui grandi libertà economiche per pochi convivano con assai scarse libertà di pensiero, dissenso e comportamento per i più.
Ne deriva l’importanza politica di una protesta plurale nella società e del fatto che i valori laici si esprimano a livello di massa al di fuori di qualsiasi tutela delle Forze Armate. Incrociando le dita.

Ma, come al solito, c’entra anche l’economia
I governi di Erdoğan obiettivamente sono stati caratterizzati da una rilevante crescita macroeconomica (nella sfera microeconomica le cose vanno diversamente): prodotto interno lordo triplicato, aumento degli investimenti esteri, crescita media annuale del 5%, reddito pro capite passato da 3.500 dollari del 2003 ai 10 mila del 2012. Lo stesso Erdoğan aveva annunciato il programma economico da realizzare addirittura entro il 2023 (cioè per il centenario di fondazione della Repubblica turca): prevede il posizionamento della Turchia fra le 10 più importanti economie del mondo, il traguardo dei 25.000 dollari per il reddito pro-capite, esportazioni per 500 miliardi di dollari e la completa produzione industriale autarchica di automobili, velivoli e mezzi militari. L’aspettativa e bella ma resta il famoso iato fra il dire e il fare.
Oggi la crescita turca pare trovarsi in una forte fase di calo, a cui non sono estranee le ultime avventate scelte di politica estera del nostro personaggio. Si potrebbe malignamente pensare all’esistenza, dietro la repressione da lui ordinata, di un cinico giudizio di opportunità: meglio far capire subito a cosa si va incontro protestando  per fatti “minori” prima che i motivi maggiori esplodano in tutta la loro consistenza. Chi vivrà vedrà.
Circa gli esiti della recente politica estera di Erdoğan ricordiamo che l’attivo appoggio alla rivolta contro Gheddafi ha avuto come conseguenza la perdita del mercato libico e che il sostegno dato alla rivolta siriana (un anno dopo la firma di un trattato di libero commercio fra Ankara e Damasco) ha portato allo stesso negativo risultato per la Siria. Se il tasso di crescita della Turchia nel primo trimestre del 2012 è stato del solo 3,2%  (rispetto all’11,9 % del primo trimestre del 2011) – e il calo continua - lo si deve anche a questi fatti; ma non solo.
Nell’ambito dell’emigrazione dalle campagne anatoliche verso Ankara, Izmir e Istanbul si è creato un vasto ceto di commercianti e piccoli imprenditori arricchitisi grazie alle politiche dell’Akp, e nel complesso livelli di ricchezza e tenori di vita dell’alta borghesia hanno conosciuto un incremento notevole, mentre lo stesso non può affatto dirsi per dipendenti pubblici, operai e lavoratori non qualificati, con l’aggiunta che i leggeri aumenti salariali sono stati divorati dall’aumento del costo della vita nelle grandi città e da un'inflazione all'8,9%.  Anche le condizioni di lavoro non hanno avuto miglioramenti di rilievo, mancando una tutela legislativa dei diritti sindacali. Se da un lato gli emendamenti costituzionali del 2010 hanno reso possibile la contrattazione collettiva nel settore pubblico, da un altro lato tuttavia c’è l’ostacolo costituito dall’elevato numero di lavoratori che devono essere iscritti a un sindacato perché questo possa partecipare alle trattative; numero elevato che in  pratica esclude la maggior parte dei sindacati esistenti. Poi va considerata la diffusione del lavoro minorile e la mancanza di tutela delle condizioni lavorative, per la quale la Turchia è ai primissimi posti nella classifica dei morti sul lavoro (è la quarta nel mondo e la prima in Europa). Ma d’altro canto Erdoğan è un liberista tra i più spinti.
Un grosso problema per l’economia turca sta nel disavanzo nella bilancia commerciale pari all’8-8,5% del Pil. Questo vuol dire poca esportazione rispetto a un’importazione eccessiva, e quindi indebitamento, soprattutto verso l’Europa, che è il primo partner commerciale della Turchia oltre che la principale fonte di investimenti. Oggi però i paesi dell’Unione europea sono quasi tutti in crisi, con il conseguente aumento della vulnerabilità dell’economia turca in termini reali e finanziari. La Turchia finora, per i tassi di interesse e per le opportunità di investimento offerti, ha attirato forti flussi di denaro, a tutto vantaggio della lira turca che ha acquistato valore. Un’inversione della tendenza - cioè un’uscita di rilievo di capitali dal mercato turco - porterebbe in primo luogo alla perdita di valore moneta locale e alla riduzione della domanda interna.
E qui «l’amico americano» ci va pesante. Il numero invernale 2012 del Middle East Quarterly ha dedicato le pagine da 25 a 30 a un articolo di David P. Goldman dove si prevede a tempi brevi il collasso del «miracolo economico turco», addirittura paragonando la situazione di questo paese a quella argentina del 2000, di cui tutti ricordiamo gli effetti disastrosi di massa.
Vediamo un po’. Fermo restando il citato squilibrio nella bilancia dei pagamenti, l’economia turca si è avvantaggiata dei risultati delle esportazioni ma, come abbiamo detto, c’è la crisi europea e volgersi al Vicino Oriente è privo di prospettive. Si consideri pure che lo squilibrio commerciale – già aggravato dalla caduta del tasso di cambio della lira turca rispetto alle più forti valute degli scambi internazionali, cioè il dollaro e l’euro – deve fare i conti con una caratteristica attuale di molti dei prodotti turchi destinati all’esportazione: essi si avvalgono di molti componenti importati. In teoria la soluzione del problema starebbe dietro l’angolo: basterebbe produrre in loco questi componenti, o la maggior parte di essi. In concreto invece gli ostacoli non mancano. Innanzi tutto, il costo finale di una produzione così organizzata dovrebbe essere inferiore a quello oggi praticato dai fornitori esteri, altrimenti il costo di produzione del prodotto finito non si abbasserebbero e sfumerebbe la loro appetibilità sul mercato europeo. Né basta. Questa ipotetica produzione autarchica richiederebbe un certo stadio delle ricerche funzionali e degli investimenti; stadio che in atto manca e in relazione a cui la Turchia non sembra essere preparata. 
Giustamente Goldman sottolinea che una mancata inversione della tendenza alla decrescita avrebbe serie ripercussioni elettorali sul partito di Erdoğan e sarebbe causa di pericolose agitazioni sociali, ovviamente aggravate dall’irrisolto problema curdo, mentre invece Erdoğan ha un assoluto bisogno della possibilità di erogare incentivi economici per disinnescare la questione curda ed evitare problemi interni ancora più gravi.

Le divisioni nel fronte della borghesia
Il professore Serguei Drujilovski, dell’Istituto di Studi Orientali dell’Università delle Relazioni internazionali di Mosca (Mgimo) traccia il seguente quadro in merito alla Turchia:
«Il 30% della popolazione è kemalista. Un altro 30% è islamista duro, convinto che tutto debba cambiare. E circa il 30% sono gli indecisi, soprattutto in ambito rurale. Ma io non credo che gli islamisti scenderanno in piazza, perché questo porterebbe alla guerra civile. Quindi il governo farà tutto il possibile per raffreddare le passioni e per canalizzarle sulla via del negoziato. Finché l’islamizzazione è stata dolce, tutto è andato bene. Ma poi, con le primavere arabe e la situazione in Siria, il regime ha cominciato a radicalizzarsi, a prendere misure più autoritarie e ad adottare leggi dal tenore chiaramente islamico. Penso che sia stato questo a scatenare le proteste. Perché, nonostante tutto quello che si dice, la società turca resta largamente laica».
Un’altra interessante dichiarazione è stata rilasciata a The Voice of Russia da Stanislav Tarasov :
«Diverse forze politiche reclamano le dimissioni di Erdoğan, e io penso che un rimpasto sia possibile. Oggi il presidente Gül è l’uomo politico più popolare del paese, e al secondo posto c’è il leader dell’opposizione Kemal Kiliçdaroğlu del Partito Repubblicano del Popolo (Chp). Il destino di questo partito sembra giocarsi attorno a queste due cifre».
Tutto questo non implica però che necessariamente Erdoğan (se rimane in carica) e l’Akp vadano a perdere le prossime elezioni, in quanto hanno dietro di sé una parte del consenso urbano e gran parte di quello delle campagne anatoliche. Pur tuttavia fermarsi a questo dato, o considerarlo fuori da ogni dinamica, potrebbe essere erroneo. Esistono recentissimi  sondaggi che danno in forte calo l’Akp (al 38,5%) e in crescita il suo rivale Chp (passato al 26,1%). Poiché gli umori degli elettorati sono notoriamente variabili, c’è da farne un affidamento assai relativo e non va trascurata l’esistenza di altri sondaggi che mostrano invece la sostanziale tenuta del partito islamico.
Il blocco sociale di appoggio a Erdoğan è poderoso. Si parte dal sostegno di certi clan famigliari dell’alta borghesia, di grandi costruttori immobiliari, di rampanti industriali d’assalto islamo-capitalisti con cui il governo ha stretto rapporti d’amicizia e di parentela. Va considerata poi la creazione - praticamente dal nulla  di una piccola e media borghesia islamica di estrazione provinciale che può avvantaggiarsi di un alto tasso di sfruttamento (grazie alle condizioni offertele da una legislazione certamente non considerabile «diritto del lavoro ma semmai diritto per i datori di lavoro) ormai capillarmente presente e su cui si basa circa il 50% dell'economia turca. E naturalmente Erdoğan ha l’appoggio degli strati popolari e contadini meno acculturati e legati alle tradizioni religiose, grazie anche alla creazione di una rete di scuole religiose e centri di assistenza e volontariato che portano consenso e voti.
Assai più debole è Erdoğan sul fronte borghese tradizionale, dove invece è forte il Chp, che gode altresì di un certo seguito popolare tra quanti condividono gli ideali laici e nazionalistici che furono di Atatürk. E difatti la Turchia è politicamente e culturalmente spaccata in due parti: l’Akp rappresenta quella maggioritaria, ma l’altra che le si contrappone è una minoranza di tutto rispetto che  -  cambiando in peggio la situazione economica - potrebbe diventare maggioranza o equivalere alla somma di consensi dell’Akp. Assolutamente ostili (se non addirittura nemici) dell’Akp sono le grandi famiglie della vecchia borghesia laica le quali  pur avendo perso posizioni negli ultimi 20 anni - costituiscono un poderoso blocco di potere con forti legami internazionali e con l’esercito. Ovviamente il Chp ne è il referente politico primario. Come si vede la partita turca è tutta giocata da settori basati sui vari schieramenti interni al fronte della borghesia; d’altro canto la sinistra radicale turca tra frammentazione interna e feroci repressioni esterne è praticamente senza voce nell’agone politico.

Il mondo dei lavoratori
Dal versante del mondo del lavoro non ci si può aspettare il sorgere di realtà organizzate poi convogliabili in un blocco sociale e politico capace di svolgere un suo ruolo, per quanto siano cresciuti in termini assoluti il proletariato e i lavoratori dipendenti in genere. La stessa iscrizione a un sindacato - che dovrebbe essere una cosa banale - è invece ardua per il micidiale procedimento burocratico che la disciplina e che addirittura richiede l’autentificazione da parte di notaio della richiesta in cinque copie, poi inoltrate a vari uffici. Anche la proclamazione degli scioperi è tutt’altro che agevole, essendo previsto un lungo iter di avviso alla controparte, fermo restando che in ogni momento le autorità possono sospendere l’iniziativa e precettare i lavoratori. Prima del Referendum costituzionale del 2010 si poteva scioperare solo nel privato ad eccezione però delle industrie di valore strategico (di produzione di carbone, centrali idroelettriche, elettriche, a gas e a carbone, settore bancario e notai). Ora anche nell’impiego pubblico è possibile lo sciopero ma osservando norme molto rigide. A ciò si aggiunga che la Costituzione vieta nel settore privato gli scioperi politici e di solidarietà.
Naturalmente, tenuto conto delle prevalenti condizioni di lavoro in Turchia, le proteste e le lotte non mancano, come pure i fenomeni di autorganizzazione, per quanto se ne parli assai poco. A ogni modo va registrato che questo tessuto di lotte sociali costituisce un retroterra di esperienze e capacità operative poi trasferitesi nelle manifestazioni di Istanbul e altre città con insediamenti industriali, quasi simultaneamente: le campagne, invece, sono rimaste tranquille.

Non è che Erdoğan perderà le prossime elezioni
L’anno prossimo ci saranno le elezioni presidenziali: un momento assai atteso da Erdoğan il quale vorrebbe candidarsi (ha già tentato di fare approvare una legge che avrebbe impedito ad Abdullah Gül - suo compagno di partito e attuale Presidente della Repubblica - di ricandidarsi alla carica), e in più far modificare la Costituzione così da potersi mantenere alla Presidenza della Repubblica fino al Centenario repubblicano del 2023. Un sogno fino all’altro ieri a portata di mano; oggi invece a forte rischio poiché i 330 voti necessari alla riforma costituzionale potrebbero non essere raggiunti.
Un altro elemento potrebbe far precipitare la Turchia in una nuova, più vasta e più pericolosa crisi politica: ci riferiamo all’attuale ammorbidito atteggiamento di Erdoğan verso i Curdi e i tentativi di giungere a un accordo con il Pkk di Ocalan che trovano in disaccordo la maggioranza della popolazione turca, trasversalmente agli schieramenti partitici. Potrebbe essere l’intesa col Pkk a innescare una reazione nelle Forze Armate. È significativo che recentemente il Chp e il partito di destra Mhp (Partito del Movimento Nazionalista, o Milliyetçi Hareket Partisi, legato ai Lupi Grigi, o Bozkurtlar) - ancora con strette relazioni con ambienti delle Forze Armate - abbiano cercato di opporsi alla modifica dell’art. 60 della Costituzione volta a riconoscere l'identità curda.
Il 12 giugno il quotidiano Today’s Zaman (Tempo d’oggi), per quanto moderatamente islamico, ha voluto evidenziare che le cose in Turchia sono molto più serie di quanto voglia fare intendere la semplicistica e vittimistica versione di Erdoğan, tutta incentrata sull’additare i manifestanti come strumenti di un oscuro complotto straniero:
«Alcuni attori internazionali sono stati contemporaneamente molto contenti e molto attivi su quanto sta accadendo, per tutta una serie di ragioni. Ciononostante, cosa c'è di nuovo in tutto questo? Se il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) si sta rendendo conto, per la prima volta, che non ci sono amici permanenti nella politica internazionale, ma solo interessi permanenti, è ora troppo tardi. Allo stesso tempo mi chiedo: è utile dare la colpa alla “lobby degli interessi” che avrebbe beneficiato degli incidenti? La domanda è questa: perché questa volta tutti questi attori sarebbero stati in grado di inscenare proteste e scuotere allo stesso tempo Akp e Turchia mentre in passato no? Non sono infatti emersi improvvisamente dopo le proteste di Gezi Park, sono sempre stati lì».
L’Akp è un partito strettissimamente dominato da Erdoğan, tanto che voci interne di dissidenza non se ne sentono. Tuttavia questa forte presa coesiste (o forse ne è causa) con una fragilità interna che non va trascurata. Erdoğan è un autocrate sia nel governo sia nel suo partito, con la tendenza - in entrambi gli ambiti - a intendere come offese personali le critiche politiche. Il naturale corollario di un tale temperamento è l’occuparsi anche di questioni (nazionali e locali) di competenza di altre figure istituzionali. Questo vuole dire ingerirsi e contraddire, e alle lunghe offendere e creare malumori. C’è da chiedersi legittimamente che sarebbe accaduto se l’attuale crisi fosse stata gestita da personalità diverse, come il presidente Gül o il sindaco di Istanbul Kadir Topbaş. Un segnale si è avuto durante la visita di Erdoğan in Nordafrica:  la situazione in Turchia era più tranquilla, e il Vice primo ministro Bülent Arınç (lo stesso che con Erdoğan presente ha poi ventilato la minaccia di un intervento dell’esercito) svolgeva un ruolo conciliante. Rientrato Erdoğan ecco la repressione selvaggia. Se la sarà legata al dito Arınç?  Tre deputati dell’Akp - tra cui l'ex ministro della Cultura – hanno osato criticato apertamente la posizione di Erdoğan, ma tutti gli altri sono restati in silenzio, anche se si sa che la pensano allo stesso modo. Un altro strappo si è avuto con l’editoriale del consulente capo di Erdoğan, Alçın Akdoğan, pubblicato dal quotidiano Star, tutt’altro che in linea con il Primo ministro.  
Un eventuale appannamento del carisma politico di Erdoğan potrebbe avere contraccolpi notevoli all’interno dell’Akp, che non è per niente omogeneo sotto il profilo ideologico, in quanto la sua identità islamica è come un contenitore dove convivono tendenze disparate. Si pensi che molti suoi membri sono contrari all’ipotetica introduzione della sharía e su varie questioni sono alquanto eterodossi rispetto ai settori turchi rigidamente islamici. Il vero punto di unione è Erdoğan quale leader vincente, decisionista, demagogo, abile nelle trattative, e la cui immagine è stata abilmente costruita e aggiornata dai media vicini al suo governo. Tuttavia oggi un sostituto di Erdoğan non si intravede, come pure non si intravede un’alternativa politica all’Akp. Il maggior partito di opposizione, il Chp (25% dei consensi), non sembra proprio essere tale, a meno che non effettui un salto di qualità. Formalmente è un partito kemalista socialdemocratico e tanto battagliero difensore del laicismo secolari da risultare anche nazionalista al massimo e legato ad ambienti militari. Proprio per questo è del tutto impensabile che faccia fronte unico contro Erdoğan insieme all’elettorato curdo. Ragion per cui la sua principale chance sta nel fare breccia in una parte dell’elettorato turco che finora aveva votato Akp. 
I recenti avvenimenti hanno senza dubbio arrecato un duro colpo all’immagine politica della Turchia di Erdoğan

L’assordante silenzio delle Forze Armate turche     
Gli attuali eventi si sono svolti nel silenzio più assoluto delle Forze Armate. Tanto che ci sarebbe da pensare che esse siano ancora - per così dire - tramortite dai colpi inferti da Erdoğan col plauso di chi in Turchia era stanco dei golpe militari e della speranzosa Europa. Addirittura il Vice primo ministro turco ha minacciato l’intervento dell’esercito contro i manifestanti. Minaccia seria?
Inutile dire che quanto provo a ipotizzare nei paragrafi seguenti si basa su dati alquanto labili e su impressioni personali, che poi il futuro verificherà.
Parto dalla constatazione che effettivamente Erdoğan è riuscito in quel che sembrava impossibile: ridurre lo strapotere delle Forze Armate (per contro aumentando il potere della polizia, più musulmana dei militari), e non solo. Tra il 2009 e il 2012 ha eliminato - mediante pensionamenti e condanne giudiziarie - centinaia di generali con l’accusa di golpismo e addirittura tre di essi - Cetin Dogan (ex primo comandante dell'esercito), Halil Ibrahim (ex comandante dell'aviazione) e Ozden Ornek (ex generale della marina) - si faranno 20 anni di galera per aver organizzato i preparativi di un golpe mai effettuato. E oltre trecento ex militari sono stati condannati a pene tra i 15 e i 20 anni.
Il cavallo di battaglia di Erdoğan è stato il «caso Ergenekon», fantomatica organizzazione golpista laica sulla cui esistenza sia l’opposizione sia la stampa non allineata non mancano di manifestare dubbi e sospetti e di irridere sulle leggende metropolitane sorte riguardo a Ergenekon. I processi vanno per le lunghe (volutamente per pressione psicologica?), e finora si è avuta una sola pronuncia giudiziale,  quando cioè il tribunale che nel 2008 condannò il giornalista Zihni Çakır, autore di libri su Ergenekon, per aver rivelato informazioni riservate riguardanti un’inchiesta in corso, concluse però che Ergenekon è «un mito» senza alcun fondamento (ovviamente i partigiani dell’Akp hanno tacciato l’autore della sentenza di essere vicino a esponenti di Ergenekon).
Per quanto gli capi delle Forze Amate siano stati scelti fra persone non sospette, poiché i golpe non li fanno solo i generali, ma anche i colonnelli e i capitani, oggi far scendere in piazza i militari potrebbe essere un’arma rischiosa e a doppio taglio, non essendoci garanzia che - una volta fuori dalle caserme - essi, invece di fare il lavoro sporco affidato dal governo, in realtà facciano il proprio, approfittando dell’occasione. Non va taciuto che aleggia il sospetto della presenza di una lunga mano di ambienti militari dietro i manifestanti meno «pacifisti». Comunque l’avvenuta epurazione dei vertici delle Forze Armate ovviamente non è sinonimo di loro islamizzazione. Non è pensabile che nella situazione attuale si realizzi un golpe, ma se le cose dovessero precipitare, ovvero se i militari kemalisti ritenessero in serio pericolo i valori laici, forse le cose cambierebbero. Per il momento c’è solo da segnalare che a Istanbul circolano voci su incidenti fra poliziotti e militari per il rifiuto di questi ultimi ad aiutare la polizia contro i manifestanti. Leggenda metropolitana o no? Ci si limita a registrare.   

Il futuro non è roseo nemmeno per l’opposizione sociale turca, ma…
Da quanto detto in precedenza dovrebbe essere chiaro che l’autocrazia di Erdoğan continua a mantenere salda la sua presa sulla Turchia, e che l’elemento di novità è dato da un’opposizione di massa (per quanto non maggioritaria) contro di lui, più che contro l’Akp in quanto tale. Può darsi che egli continuerà a usare il pugno di ferro, al che si vedrà se da questo deriverà o no un’attenuarsi del malcontento di piazza. Finora non ha giocato una carta obiettivamente a sua disposizione: l’uso di squadristi islamici contro gli oppositori. Un altro suo elemento di forza è dato dall’appoggio del capitalismo estero (qualcuno ricorda ancora le calorosissime attenzioni che Berlusconi dedicò al suo collega turco quando era al governo in Italia?), che non lo mollerà fino a che non si trovi un suo sostituto e soprattutto gli sviluppi della situazione non lo consiglino.
I segnali di scontento del capitale internazionale per Erdoğan già si intravedono e sono collegati con le sue aperture al capitale russo, come è accaduto con le recente privatizzazioni. Comunque sotto il profilo degli interessi economici non ci sarà da stupirsi se i problemi dell’economia turca (già in precedenza accennati) si coniugheranno - e saranno aggravati - da sensibili perdite nel comparto turistico
Ma anche l’opposizione, pur a prescindere dall’ipotetico intervento militare, dispone dei punti di forza suoi propri (il complesso delle varie opposizioni comprende il 40% del Parlamento) e di quelli creati dallo svolgimento delle proteste, durante le quali comunque si è schierata con i manifestanti. Ebbene, nella manifestazioni dei giorni scorsi settori della popolazione vuoi liberali vuoi kemalisti si sono trovati a lottare insieme a settori della sinistra, che finora hanno pagato la loro cronica frammentazione con l’impossibilità di superare lo sbarramento elettorale del 10%. In più c’è stata la convergenza degli ultras del Fenerbahce, del Beşikitaş e del Galatasaray: con questi ultimi il fronte popolare dell’opposizione ha palesemente incluso (per lo meno a Istanbul) settori di proletariato metropolitano che - insieme agli attivisti politici e sindacali - hanno una certa pratica di scontri con la polizia. Il fatto che si siano visti anarchici con bandiere su cui c’era l’effige di Atatürk è sicuramente un fatto simbolico, ma a seconda di quel che farà Erdoğan potrebbe sviluppare una valenza non solo virtuale.
Non è detto che essa significhi una rinascita della sinistra turca, giacché potrebbe pure risolversi nell’agganciamento della protesta da parte del Chp e/o della destra dell’Mhp, tanto più che tra questi due partiti e i giovani e i lavoratori scesi in piazza esiste una convergenza che nella storia ha avuto dei precedenti (magari non tutti positivi): Chp e Mhp hanno dietro le spalle capitalisti che - non facendo parte della cerchia di Erdoğan e dell’Akp - da anni e anni sono rimasti tagliati fuori da lucrosissimi negozi e appalti, e quindi puntano a rientrare in scena; dal canto loro anche i giovani contestatori aspirano ad avere spazi, sia di libertà sia materiali in quanto tagliati fuori dai flussi di ricchezza che il governa orienta altrove.
Ancora una volta possiamo concludere con una constatazione banale ma ricorrente negli avvenimenti che hanno segnato vari Paesi (dal Nordafrica e non solo – si pensi al Brasile): e cioè che se la rivolta sociale in corso può arrivare a capovolgere determinati equilibri politici, la rivoluzione appare ancora molto lontana.

(da Lisbona, 19 giugno 2013)

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