L’attuale problema economico del Brasile
Nel 2012 la crescita del prodotto interno lordo brasiliano è stata dello 0,9%
per cento, per l’anno in corso i più ottimisti prevedono che non supererà il
4%, mentre la previsione della Banca Centrale è 3,1%. In tutti i paesi europei si
griderebbe al miracolo, ma in Brasile la cosa preoccupa per le conseguenze
della decrescita. La riduzione dei consumi – dopo un periodo di eccessi e di
accumuli di debiti privati - contribuisce a questo risultato, il mercato
azionario non va per nulla bene e si assiste a una riduzione degli
investimenti. Comunque la disoccupazione resta bassa e non è detto che per il
2014 altri 16 milioni di persone non escano dalla povertà vera e propria;
l’incremento demografico è rallentato; le estrazioni di petrolio proseguono a
pieno ritmo; il debito resta contenuto; tuttavia, oltre alla carenza di
infrastrutture, resta la non soddisfatta esigenza di una riforma tributaria ben
più equa socialmente e altresì idonea a favorire gli investimenti, a loro volta
necessari per invertire la decrescita. Intanto la Banca centrale per cinque
volte ha aumentato i tassi d’interesse, arrivati al 12,5%, cioè uno dei più alti al mondo. Per
contro alla produzione industriale non ha giovato l’alto livello dei tassi di
cambio, unitamente ai notevoli costi per il trasporto e la gestione delle merci.
Quel che non va in Brasile dietro la facciata di
modernizzazione e maggior benessere
Nel precedente
articolo sul Brasile, scritto a caldo dei primi avvenimenti, si è solo
accennato ai problemi strutturali del paese, ma ora va fatto un discorso più
approfondito. Si tratta del quinto paese del mondo per estensione (più di
8.500.000 km2), con un Pil superiore a 2.496 miliardi di dollari e una
popolazione che va al di là dei 170 milioni di persone. Cinquant´anni fa l’economia
si basava essenzialmente sull’agricoltura da esportazione, in cui operava il
70% degli abitanti rurali; oggi invece è un paese industriale (la cui
produzione copre il 35% del Pil) e ad alta urbanizzazione e ad alto tasso
demografico (negli ultimi 10 anni la popolazione è cresciuta cinque volte). La
prospettiva di vita è di 68,6 anni; il tasso di mortalità infantile, seppure
molto diminuito si attesta sul 34,6 ogni mille nati; il tasso di scolarizzazione
tra i 7 e i 14 anni è arrivato al 91,2% mentre quello di analfabetismo al di
sopra dei 15 anni è sceso al 14,7%; l’acqua potabile arriva al 74,2% delle
abitazioni, circa il 40,3% è collegato alla rete fognaria, il 23,3% possiede una
fossa biologica e il 92,9% dispone di luce elettrica; la raccolta dei rifiuti
riguarda l’87,4% delle abitazioni. Tuttavia esiste ancora una grande massa di
poveri, calcolata approssimativamente in ancora 54 milioni (33% della
popolazione), in maggioranza nel Nordest (58%) e nel Sudest (20%).
Questa potenza
macroeconomica nella graduatoria mondiale del 2013 basata sull’indice di
sviluppo umano si colloca addirittura all’85º posto: si pensi che il ben più
povero Portogallo sta al 43°! Le politiche di Lula e del Pt hanno
obiettivamente ridotto il divario fra il 10% più ricco della popolazione e il
10% più povero, facendolo passare da 52 punti a 40 nel periodo fra il 2003 e il
2009. In
questo quadro vari programmi sociali hanno aumentato i redditi dei più poveri,
il salario minimo è stato fissato in 678 reais,
pari a 229 euro, e la maggior parte degli impieghi creati da Lula e Rousseff
godono di un salario medio di 1.000 reais (338 euro); è stato incentivato il
credito alle famiglie e in definitiva la crescita deve molto alle possibilità
di aumento dei consumi. Dal 2003 Lula dette il via a una crescita economica
basata sull’espansione degli impieghi, su politiche sociali e su trasferimenti
di reddito, ha dinamizzato il mercato interno ed ha ridotto le esclusioni sociali
tirando fuori dalla povertà almeno 40 milioni di persone ed è riuscito a
ricreare una classe media, pilastro delle democrazie borghesi. Quindi, in sé il
bilancio non si presenterebbe affatto male. Allora cos’è che non va?
Gli accenni fatti
nel precedente articolo sulle infrastrutture del paese vanno confermati, e
magari aggravati. Possiamo sintetizzare il tutto specificando meglio cosa si
intende dicendo che le infrastrutture funzionano male e la gente non ne può
più. In termini sommari possiamo dividere la società brasiliana in tre parti:
in alto l’oligarchia (economica e politica) super-ricca, al centro la nuova
cosiddetta classe media, in basso i poveri. Per l’oligarchia funziona tutto
perché essa ha i soldi per pagarsi trasporti particolari, sanità e istruzione
privata, e chi più ne ha più ne metta. I problemi riguardano gli altri due
settori sociali. I poveri non hanno niente e quindi i loro veri problemi
riguardano la sopravvivenza quotidiana e l’ottenimento di sussidi pubblici.
Il malcontento
attuale e l’ebollizione sociale riguardano soprattutto quanti stanno in mezzo e
che dal punto di vista dei servizi si trovano nella stessa situazione dei
poveri (non potendo certo pagarsi i servizi dei ricchi). Per il caso
emblematico dei trasporti nei centri urbani prendiamo São Paulo, la maggiore
città del Brasile con 18 milioni di abitanti: un traffico infernale poiché
tutti i giorni vi circolano almeno 5 milioni di auto, la benzina (il Brasile è
produttore di petrolio) costa quanto in un paese che deve importarla, per il
10% della popolazione che abita nelle periferie andare al lavoro e poi tornare
a casa richiede in media 4 ore giornaliere, le linee della Metropolitana sono
solo 4, i mezzi pubblici sono scarsi e in quanto a comodità equivalgono ai
carri bestiame, le strade sono piene di buche, il tasso di criminalità è alto,
tutto l’apparato pubblico (la polizia in primo luogo) è corrotto fino al
midollo, i politici pensano al 99% ad arricchirsi. In più il cittadino – lì
come del resto in tutto il Brasile – deve fronteggiare l’aumento dei prezzi di
alimenti e altri beni essenziali a causa dell’inflazione, la facilità di
accesso al credito gli comporta indebitamento, deve assistere al fatto che le
migliori produzioni brasiliane vengono esportate mentre sul mercato interno
restano le merci autoctone non vendibili all’estero e per giunta è sottoposto a
un carico fiscale assai pesante (arrivato al 70%) a fronte del quale ha solo la
soddisfazione di pagare le imposte senza averne nulla. La consapevolezza che un
ipotetico azzeramento della corruzione equivarrebbe a disporre di cifre da
capogiro, utilizzabili per le politiche sociali e infrastrutturali, può solo
aumentare la rabbia. E un recentissimo sondaggio rivela che lo scontento e la
sfiducia verso la classe politica sono condivisi dal 75% dei cittadini.
Questa situazione
diffusa ha inciso sull’atteggiamento di buona parte della popolazione “che sta
in mezzo” verso le politiche sociali riguardo alla povertà praticate da Lula e
Rousseff: e sono le stesse persone che all’inizio le appoggiarono, ma ora
finiscono col vedere nelle masse ancora povere solo gente adagiatasi
passivamente sui sussidi e sui programmi di sostegno sociale. A São Paulo nel
25% della popolazione scesa in strada a manifestare, folta era la rappresentanza
delle cosiddette classi media e medio-piccola, di cui è tangibile il timore di
retrocedere dal livello di benessere conseguito negli ultimi anni per
l’incapacità operativa dei corrotti politici, espressosi nell’accusa rivolta
loro di sambar na cara do povo
(ballare il samba sulla faccia del popolo).
Un problema di classe … media
Il termine “classe
media” è ormai entrato universalmente in uso. In Brasile addirittura organi di
informazione e circoli filogovernativi hanno cominciato a proclamare trionfalmente
che – grazie alle politiche del governo – nel 2014 la classe media arriverà a
comprendere il 60% della popolazione. In totale sintonia è il Financial Times. Si tratta di una
mistificazione ideologica che falsa la realtà per indurre a ritenere ormai
innaturale la lotta di classe o si è davvero in presenza di una straordinaria
innovazione sociale, nel senso che in Brasile si sarebbe invertita la tendenza
all’accentuata proletarizzazione della classe media, o passaggio di settori
proletari e migliori condizioni di vita?
È necessario
soffermarsi un po’ sull’argomento per
cercare di capire meglio di cosa stiamo parlando. Nel corso dello sviluppo del
capitalismo tra la dominante classe proprietaria (semplifichiamo per
semplicità) e la dominata classe non proprietaria si è inserito un ceto – detto
“medio” – che per il tenore di vita, alcune proprietà di beni finali, un po’ di
risparmio (depositato e/o fatto investire da apposite entità finanziarie) e a
volte un certo livello di istruzione, può essere considerato un’appendice della
borghesia in senso stretto (da qui anche il nome di “nuova borghesia”) mentre,
per il fatto che se i suoi componenti adulti non trovano un lavoro autonomo o
subordinato, la famiglia né mangia né mantiene, il suo tenore di vita è collegabile
al proletariato.
In definitiva siamo
sempre all’interno della generica “classe lavoratrice”. In Brasile è detta “classe
C”, comprensiva di chi è titolare di un reddito tra 2.000 e 5.000 reais (1 real vale euro), ha un’auto
propria, una certa capacità di acquisto, spesso è proprietario della casa di
abitazione e via discorrendo. In sintesi, il più delle volte non è ricco, ma
benestante.
A ben guardare si
tratta anche in Brasile di un grosso contenitore dal variegato contenuto,
giacché ne fanno parte proletari di ieri che oggi hanno redditi più elevati,
operai rurali e urbani, lavoratori nei servizi, lavoratori autonomi tra cui
piccoli imprenditori nonché beneficiari di politiche assistenziali con un
attuale maggior potere di acquisto.
Resta il fatto che
nelle società capitalistiche – a motivo delle loro comuni strutture
fondamentali – a definire una “classe” è la relazione sociale che la distingue
produttivamente in base alla proprietà o meno dei mezzi di produzione. Ciò vuol
dire che – ancora una volta - la maggior parte di quanti si fregiano del nome
di “classe media” (e da esso pretendono di trarre una soggettiva e specifica identità
sociale) in realtà – compresi tecnici, impiegati e funzionari privati,
burocrati ecc. - restano pur sempre un settore privilegiato e
meglio remunerato di quello che marxisticamente si chiama proletariato. Una
contrapposizione con la borghesia vera e propria diventa possibile solo quando
questa “classe media” si senta pregiudicata dalle scelte di essa.
Qualora, invece, si propugnasse l’identità proletariato=classe operaia in
senso stretto, allora tutto quanto detto verrebbe meno. Naturalmente non
possiamo qui affrontare il tema della fondatezza o meno di tale identità: va
detto solo che chi scrive non l’ha mai condivisa, al contrario di quella fra
proletario e salariato.
Attribuire i fatti brasiliani alla recente formazione di un classe media –
come fanno i media nazionali e stranieri – vuole dire sottintendere che se
fosse dipeso dal proletariato in senso stretto non sarebbe successo nulla,
essendo alla fin fine più prossimo al sottoproletariato delle favelas, avido di sussidi, che non alla
decantata classe media, assurta a vero soggetto della sensibilità
democratico-sociale e delle inerenti istanze di cambiamento.
Cosa comporta l’attuale rallentamento della crescita
brasiliana
Rallentata la crescita economica, il tasso di inflazione è
prossimo al 6,5%, cioè a quello che il Banco
do Brasil considera il punto massimo. Di fronte a questa situazione se il
governo optasse per una politica monetaria restrittiva oppure per la riduzione
della spesa pubblica produrrebbe in entrambi i casi ulteriori effetti negativi
sulla crescita. Già il Banco do Brasil
ha aumentato i tassi di interesse per tentare di limitare il deprezzamento
della moneta nazionale (il real) sui
mercati, cosa che ha causato l’aumento delle merci importate e quindi ha
contribuito all’aumento dell’inflazione. Non va certo a favore dell’economia
brasiliana il recente annuncio della Federal
Reserve statunitense sulla cessazione per la fine dell’anno della politica
di stimoli economici finora perseguita, giacché in una fase di inflazione e
insieme di riduzione del ritmo di crescita l’economia brasiliana potrebbe
entrare in stagflazione, cioè in una fase di elevato tasso di inflazione e
basse variazioni del Pil. Se così fosse, uscirne non sarebbe né facile né
breve.
D’altro canto,
lasciare che deprezzamento del real
aumenti comporterebbe ulteriori impennate dell’inflazione e per conseguenza
riduzione del potere di acquisto nel mercato interno che è dipendente dalle
importazioni. La salita dei prezzi va evitata anche perché - oltre a comportare
ripercussioni sociali – farebbe entrare il paese in recessione.
Come si vede, è un
bel pasticcio, aggravato dagli scarsi margini a diposizione di Dilma Rousseff
in materia di bilancio dopo le folli spese sostenute e da sostenere per i
grandi eventi sportivi, a meno che non si voglia aggravare l’inflazione. E secondo
gli economisti un avanzo primario (cioè al netto dei pagamenti di interessi) inferiore
all’1,5% porterebbe a un aumento del debito pubblico (oggi pari al 35,2% del
Pil).
Un altro fattore
può rendere meno agevoli le manovre economico-finanziarie di Dilma Rousseff: si
tratta dell’eterogeneità politica e dalla rappresentanza di interessi
differenti, della variegata coalizione che le consente di governare. La
denominazione corrente la dà come coalizione di centro-sinistra, ma questo dice
poco. Oltre al Partido dos Trabalhadores
(Pt) di Lula, abbiamo: il Partido do Movimento Democrático Brasileiro
(Pmdb), il maggiore partito
del paese, di prevalente orientamento centrista, ma alquanto variegato al suo
interno (difatti è chiamato pega-tudo,
prendi tutto) avendo esponenti conservatori, liberali, populisti, nazionalisti
e anche ex membri del vecchio movimento guerrigliero Mr-18; il Partido
Comunista do Brasil (Pcdob), ufficialmente
marxista-leninista; il Partido Democrático Trabalhista (Pdt), di orientamento ufficiale
laburista (vi militava Dilma Rousseff fino al 2000, anno del suo ingresso nel
Pt); il Partido Republicano Brasileiro (Prb), braccio politico della settaria “chiesa” Igreja Universal do Reino de Deus;
il Partido da República (Pr),
sostanzialmente liberale di centro-destra; il Partido Socialista Brasileiro (Psb), socialdemocratico; il Partido
Social Cristão (Psc),
sostanzialmente di destra, fautore del liberalismo e dell’economia di mercato;
il Partido Trabalhista Nacional (Ptn),
centrista vagamente socialdemocratico.
Finché la situazione economica ha “tirato”, una certa conciliazione fra i
diversi interessi è stata possibile: oggi molto meno, e questo potrebbe avere
nella coalizione effetti dirompenti.
Società in crisi politica e
ruolo del Pt
Ai
problemi economici si accompagna una profonda crisi politica della cosiddetta
democrazia rappresentativa, e non solo per i bassi livelli di partecipazione
alle urne. Dal punto di vista sostanziale gli eletti – ai vali livelli –
rappresentano solo specifici interessi personali e di gruppo; non certo quelli
popolari in senso ampio. Se si aggiungono a ciò gli elevati tassi di corruzione
e di incompetenza, integriamo un po’ il quadro ma vanno anche considerati la
diffusa deresponsabilizzazione politica esistente nell’elettorato e la
corruzione sparsasi al suo interno, di modo che ancora esistono settori della popolazione
che vanno a votare e votano Tizio o Caio solo se certi di ottenere poi
qualcosa. Gli onesti e i competenti sono alquanto spiazzati in questo sistema.
Oggi uno dei profili della complessità politica della società brasiliana
consiste nel fatto che una parte di essa ha come referenti partiti,
corporazioni, sindacati e beneficia di programmi sociali, mentre un’altra parte
non ha questi referenti e questi benefici
Nel lontano 1914 il sociologo Roberto Michels, nel suo celebre libro Sociologia del partito politico, dette
un nome al noto fatto che la crescita elettorale di un partito ne promuove la burocratizzazione
e la formazione al suo interno di nuove piccole borghesie le quali, una volta
sorte, curano interessi propri e gestiscono i partiti in funzione di essi:
parlò di “legge ferrea dell’oligarchia”. A questa situazione non è affatto sfuggito
il Pt.
Nel
corso della sua storia, in parallelo con la sua conquista del potere locale e
federale, il nucleo dirigente e molti militanti hanno potuto effettuare
un’ascesa sociale ed economica di tutto rispetto e prima inimmaginabile,
unitamente alla frequentazione di un oligarchico e affaristico “bel mondo” (e
relativi lussi) che in altri tempi nemmeno li avrebbe degnati di un’occhiata.
Il
Pt ha conosciuto una parabola evolutiva, ma sempre nel quadro della
socialdemocrazia in quanto socialdemocratico fin dai suoi esordi; solo che da
socialdemocratico di sinistra è diventato negli anni ’90 socialdemocratico di
destra. E di socialismo non si parla più. In Europa si è data molta
considerazione alle componenti di sinistra radicale che in effetti sono sempre
esistite al suo interno; ma si trattava di settori che mai hanno egemonizzato
il partito e oltre tutto sono stati progressivamente oggetto di emarginazione e
anche di espulsioni. Le correnti più radicali hanno costituito un’altra
formazione politica, il Partido Socialista Unificado dos Trabalhadores (Psut) dominato da trotskisti o presunti tali;
altre invece il Partido do Socialismo e
Liberdade (Psol). Il processo di istituzionalizzazione e moderatismo del Pt
ha poi portato nel 2002 all’alleanza addirittura con formazioni di destra,
tanto che oggi definirlo nemico del neoliberalismo sarebbe del tutto fuori
luogo.
I
meriti precedentemente conseguiti col miglioramento della posizione sociale di
milioni di brasiliani sono innegabili, ma fanno parte di un passato sia pure
recente. Oggi al Pt si imputano una corruzione inaspettata ed enorme, insieme
all’arresto delle capacità di proseguire con politiche sociali innovative,
particolarmente nell’importante settore delle infrastrutture. Nei settori che
hanno beneficiato delle precedenti politiche sociali i miglioramenti conseguiti
non hanno precluso la possibilità di guardare criticamente a una situazione
generale del paese che le tocca in modo diretto. Quando in Brasile si dice che
esso “é um dos poucos países do mundo que
tira dos pobres para dar aos ricos” ci si riferisce alla perpetuazione di
un andazzo tradizionale a fronte dal quale resta il fatto della carenza di
strutture educative adeguate, di inferno quotidiano dei trasporti, di mala
sanità, di corruzione e delinquenza. I soldi ci sono, ma sono deviati verso i
“soliti noti”.
Il
Pt non è un partito proletario (ammesso che l’espressione significhi ancora
qualcosa): in realtà è legato a una frazione della borghesia interna che non ha
condiviso in toto le politiche
neoliberali avviate alla fine degli anni ’80 da Collor de Mello ed epigoni. Non
che questa parte della borghesia non apprezzasse il neoliberalismo in materia di
riduzione dei benefici sociali o di privatizzazioni, ma per i propri interessi
era contraria alle aperture commerciali verso l’estero. Va tenuto presente che
in Brasile sotto un determinato punto di vista esistono due settori della
borghesia: la neoliberale legata al capitale finanziario internazionale,
fautrice di cambi sostenuti, regolare pagamento del debito, alti tassi di
interessi ed equilibrio nei conti pubblici; l’altro settore invece ha interesse
al deprezzamento dei cambi, ai bassi tassi di investimento e a una politica di
investimenti pubblici nelle infrastrutture. Ambedue questi settori hanno potere
nella società e a livello federale, ma solo il secondo fa parte del blocco
sociale che ha nel Pt il referente politico.
Il
Pt si è ben presto collegato con questa fazione della borghesia, e fin
dall’elezione di Lula ne ha favorito gli interessi, cominciando col
neutralizzare il capitale internazionale nel paese. Politica proseguita da
Dilma Rousseff con la protezione commerciale, la priorità alla produzione
nazionale e la svalorizzazione dei cambi.
Sul
piano strettamente sociale il Pt ha dovuto affrontare il problema della grande
massa di lavoratori marginalizzati, anche perché fanno parte dell’elettorato,
sottoproletari compresi. Si tratta di un bacino sociale per nulla
rivoluzionario, e le sue componenti che possono essere state attratte dai
discorsi sul socialismo l’hanno fatto in base a quello che Vladimir Solovëv
chiamò “socialismo dell’invidia”. Lo scontento non era contro il sistema, ma
per il mero fatto dell’esclusione con l’obiettivo dell’integrazione nel sistema
stesso. Le politiche di Lula e Rousseff hanno realizzato questa integrazione
per una consistente parte della popolazione emarginata, trasformandola beneficiaria
di parte della redistribuzione dei redditi, tuttavia inglobandola in un
progetto politico di cui è parte primaria la borghesia di cui il Pt è
referente, e che più specificamente comprende la borghesia mineraria, navale,
agropecuaria e delle costruzioni civili. La borghesia bancaria invece non ha
interessi omogenei, giacché una parte sta con la borghesia che in Brasile
chiamano “lulista”, e un’altra parte invece condivide gli interessi del
capitale finanziario internazionale. I commentatori brasiliani non allineati
evidenziano come la redistribuzione in favore dei più poveri abbia portato a
grandi guadagni per la borghesia lulista: un caso tipico è quello del settore
del credito.
Ovviamente
Lula e Rousseff hanno abbandonato le precedenti pratiche di criminalizzazione
dei movimenti sociali e di ostilità ai sindacati, ed hanno riposizionato il
ruolo dei sindacati riconoscendo la legittimità della loro azione e delle loro
rivendicazioni, di modo che molti salari sono aumentati più dell’inflazione
grazie anche alla pratica degli accordi collettivi. Il Pt ha anche legato a sé
una parte del mondo contadino – quello che in Brasile chiamano “campesinato remediado”, cioè che ha i
mezzi per vivere. Diverso il discorso per i contadini poveri, tanto più che la
politica di espropriazioni terriere è stata ormai fermata e per essi prosegue
lo stato di marginalità.
La lettera aperta dei
movimenti sociali a Dilma Rousseff
Di
recente una trentina di movimenti sociali hanno rivolto alla Presidentessa una
lettera aperta che vale la pena di riprodurre nei suoi contenuti fondamentali:
«(...)
È questa resistenza popolare che ha reso possibili i risultati elettorali del
2002, 2006 e 2010. Il nostro popolo, insoddisfatto delle misure neoliberali, ha
votato a favore di un progetto diverso. La sua realizzazione si è dovuta
confrontare con la grande resistenza principalmente del capitale e dei settori
neoliberali che continuano ad avere forza nella società. Ma ha dovuto
affrontare anche i limiti imposti dagli alleati dell’ultima ora, una borghesia
interna che nella disputa sulle politiche di governo impedisce la realizzazione
di riforme strutturali, come è il caso della riforma urbana e del trasporto
pubblico. La crisi internazionale ha bloccato la crescita e con essa la
continuità del progetto che ha permesso questo grande fronte che, finora, ha
sostenuto il governo. Le recenti mobilitazioni hanno come protagonisti ampi
settori della gioventù che per la prima volta partecipa a delle mobilitazioni.
Questo processo educa i partecipanti permettendo loro di percepire la necessità
di affrontare coloro che impediscono che il Brasile avanzi nel processo di
democratizzazione della ricchezza, dell’accesso alla sanità, all’istruzione,
alla terra, alla cultura, alla partecipazione politica, ai mezzi di
comunicazione. Settori conservatori
della società cercano di appropriarsi del senso di queste manifestazioni. I
mezzi di comunicazione cercano di caratterizzare il movimento come anti-Dilma,
contro la corruzione dei politici, contro gli sperperi pubblici e altre
questioni che impongano il ritorno del neoliberalismo. Crediamo che le
questioni siano molte, come pure le opinioni e le visioni del mondo presenti
nella società. Ma si tratta di un grido di indignazione di un popolo
storicamente escluso dalla vita politica nazionale e abituato a vedere la
politica come qualcosa di dannoso per la società. (...) Il momento è propizio
affinché il governo faccia avanzare le questioni democratiche e popolari e
stimoli la partecipazione e la politicizzazione della società. (...) Speriamo
che l’attuale governo scelga di governare col popolo e non contro esso».
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