“Guerra
ai castelli, pace alle capanne... [occorre fare] la rivoluzione delle cose, poiché
[è già] compiuta nelle idee... Ogni volta che una rivoluzione produce
uno spostamento di ricchezze, non dovrebbe farlo in favore di individui, ma
sempre in favore della comunità”. Pëtr
Alekseevič Kropotkin
I.
DEGLI ONESTI CRIMINALI
Il cinema italiano, non di
rado, ha espresso una genealogia del fanatismo o una decomposizione della
realtà da fare invidia anche alle baracconate dell’impero hollywoodiano...
tutta una serie di piccoli abatini di questo fare-cinema da deficienti e per
deficienti si è accatastato nei percorsi spettacolari del giovanilismo
d’accatto o addossato alla stupideria
di comici provenienti dalla televisione che poco o niente hanno a che fare con
i tempi e i modi della comicità espressa anche nei peggiori film di Totò o di
Alberto Sordi (e sono tanti). Qui la critica del costume si trasformava spesso
in critica delle certezze (per nulla sociologiche) della vita quotidiana e
della politica che le tiene a guinzaglio... i dogma venivano sfatati o derisi e
qualche volta anche i gemiti degli esclusi emergevano dal fondo di vessazioni
infinite. Nella commedia italiana attuale, come nei film più “seri”, carichi di
idee rimasticate (male) e disperse sullo schermo a favore del botteghino
soltanto... si respira quel tanfo da festival che predica banalità indecenti,
promuove profeti di basso profilo e quando usciamo dal cinema ci accorgiamo che
c’è un po’ più male nel mondo.
Il fatto è che il cinema
italiano, nel fascio della sua ipocrisia formale, è un formulario di frivolezze
sconcertanti ma, come sappiamo, sotto ogni assassinio dell’immaginazione, giace
un cadavere resuscitato. Quello del vuoto dei sentimenti autentici che si
mescola al vuoto creativo come immagine di nullità che non comprende (né vuole)
l’emersione di eccessi e dismisure che si disfano della storia. Questo cinema
di castrati della fantasia rivela non il superamento del reale del quale si fa
portatore di infime sciocchezze, e nemmeno della sua evidente rovina, bensì
dell’acqua benedetta (del consumo) dell’impostura che parla solo in nome di se
stessa (dei propri miti cinetelevisivi) e la differenza tra furbizia e
stupidità è sempre più flebile. Un cinema che non pratica gli affanni di
un’umanità dolente né la liberazione dei nostri allarmi è un casellario di buffoni,
santi, eroi che sguazzano nell’apoteosi del vago e si crogiolano
nell’ossessione di piacere ad ogni costo... senza sapere mai che solo nello
sdegno, nel disprezzo, nel dissidio, ogni forma d’arte ha trovato gli elementi
estetici/etici che hanno disvelato primavere di carogne. Il cinema può mentire
su tutto e pontificare su ciò che resta della vita piena, tuttavia non avrà mai
il potere di impedire la ricchezza della dignità come atto di insubordinazione.
Lo spettatore, quando prende coscienza della propria intelligenza, rivendica il
diritto di incrinare tutti i fasti della menzogna culturale/politica e mostrare
— nell’abbattimento di ogni mito — che l’ingiustizia governa l’universo.
Vedere il cinema oltre il
cinema significa costruire situazioni di dissenso che si allargano a dissensi
più ampi... i furori dell’immaginario liberato nobilitano gli animi libertari e
interrompono il tanfo spettacolare della ragione... a un certo grado di libertà
ogni franchezza diventa insolenza contro l’ordine istituito ed eccetto i “quasi
adatti”, i folli o i ragazzi che occupano le strade e tirano i sassi ai carri
armati, tutti affondano nell’insignificanza e nel servaggio. Si tratta di
liquidare i mandarini della politica, della fede, della finanza, dei saperi...
per farla finita con tutto l’armamentario dell’autorità del ridicolo e fare
dell’utopia il detonatore di ogni ribellione del cuore. “La vita sarebbe intollerabile
senza le forze che la negano” (E.M. Cioran). Tutto vero. Nel letamaio del
cinema, come nelle cloache della farsa istituzionale e delle chiese monoteiste,
l’umanità sopravvive amorosamente tra lebbrosari di glorie e ossari della
punizione... i malati di speranza continuano ad aspettare un “buon governo” o
un papa non colluso con le dittature di ogni tempo... le forche dell’illusione
hanno fatto più genocidi dei campi di sterminio nazisti e comunisti. Ogni
santità ha i suoi teatri... i servi hanno la medesima anima dei padroni che
eleggono ad ogni tornata elettorale e si rassegnano all’ergastolo o alla
ghigliottina della società consumerista.
Qualche volta il cinema
riserva piacevoli sorprese. Educazione
siberiana di Gabriele Savatores, per quanto non un sia un lavoro di
sobillazione dell’ingiustizia statuale, contiene almeno quella salutare,
genuina volgarità che restituisce alla realtà l’elementare vivezza
dell’esistente. Va detto. Il cinema di Salvatores non ci è mai piaciuto.
L’abbiamo sempre trovato abbastanza innocuo, vagamente leggero, saltuariamente
brutto... quasi sempre troppo ragionato per non sbadigliare dopo pochi minuti
di proiezione... un cinema adatto a tutti i partiti e sposato verso tutte le
opinioni... un cinema che ha cercato di rispettare, con abbastanza lucidità, i
tragitti sistematici (semantici) del variegato miscuglio tra espressione del
comunicare e calcolo economico.
Salvatores sa bene che per
avere un posto onorevole nel cinema (come nella vita) bisogna essere
commedianti, rispettare il gioco delle parti ed edulcorare i vagiti di bile che
fuoriescono alla visione di una qualsiasi dogmatica che tratta della giustizia,
della bellezza, del bene collettivo... ha così evitato con cura i formulari
della purezza (pietà, carità, comprensione) che hanno eretto i propri
comandamenti su secoli di sangue innocente. Del resto, le immagini, le parole,
perfino le speranze dei professionisti delle rivoluzioni sono sempre stati
legati ai sermoni dell’obbedienza... e chiunque abbia voluto entrare nel regno
dei cieli svaligiati dall’edifico/sistema del potere si è piegato alla logica
politica/ecclesiale/mercantile della sottomissione. L’impostura degli idolatri
della felicità non sta solo nella forca ma anche e soprattutto nell’epoca
dell’apparenza, nelle aurore di disastri e nelle violenze che i saprofiti
dell’ordine costituito approntano contro l’insieme dell’umanità.
Con Educazione siberiana Salvatores ha operato uno strappo, una
deviazione, un’abrasione del cinema domestico... qui non si rilasciano
certificati di inesistenza né ipotesi divine estremizzate... gli onesti criminali di Salvatores sono
marchiati tanto dalla sete omicida del comunismo sovietico, quanto dalla
liturgia dello spettacolo come merce che costruisce i propri consensi nel
Pantheon (tempio di tutti gli dèi) del consumo... i buffoni della sinistra o della falsa
comunicazione, insieme agli organizzatori della violenza, hanno inventato
l’ideologia della felicità (della passività) in eccessi controllati e solo i
fuori gioco del disordine, della disperazione o i cavalieri erranti
dell’anarchia hanno spezzato i guinzagli della sottomissione e non hanno finito
ancora di giocare al grande gioco della libertà. “I comunardi si sono fatti
uccidere fino all’ultimo perché anche tu possa acquistare un’apparecchiatura
stereofonica Philips ad alta fedeltà” (Raoul Vaneigem) o un iPod bianco-latte.
Nel regno del consumo permesso ogni cittadino si crede un re... ma come tutti i
paradisi è un regno artificiale che fonda il proprio successo sulla somma delle
mediazioni alienate... è sull’accumulazione delle merci, come dei linguaggi
prostituiti alla decomposizione della verità, che si fonda l’obbedienza ai
padroni dell’immaginario... la società dei ruoli non è che la spartizione del
potere dei partiti ed è per questo che i partiti vanno soppressi, per dare vita
a uomini e donne che insorgono contro l’origine dell’inumano e nell’antica
liberazione delle passioni danno vita a una società di liberi e uguali.
II. DI
EDUCAZIONE
SIBERIANA
I quattro moschettieri senza
patria né re di Educazione siberiana
sono ragazzi che vivono oltre il fiume Nistro’, un’oscura regione siberiana
(oggi è la Moldavia) dove Stalin aveva fatto confinare bande di criminali... i
dissidenti politici il comunismo sovietico — uno dei regimi più feroci mai
apparsi sulla terra — li destinava ai gulag. La barbarie del comunismo è pari
al genocidio nazista... entrambi hanno costruito le loro ideologie sulla merda
e nelle forche della libertà. Stalin e Hitler sono stati dittatori d’occasione,
pazzi che hanno convertito popoli interi all’assassinio generalizzato. È vero anche che
l’umanità ha adorato soltanto coloro che l’ha umiliata e offesa. E non sarà mai
troppo tardi impedire ai profittatori dell’economia/politica di mortificare la
dignità degli uomini con la violenza pianificata della finanza nera (celata) e della politica mafiosa. I mostri del totalitarismo
non sono mai morti... continuano ad infestare le fogne del parlamento... in attesa
che venga data loro la sorte che si meritano.
Il film di Salvatores
racconta la vita marginale di una comunità dove gli onesti criminali sono educati contro lo stato, la polizia, i
padroni... la filosofia non è proprio quella libertaria che insegna a lottare
ogni sorta di autoritarismo e insorgere a fianco degli indifesi, degli
oppressi, degli sfruttati... qui i ragazzi obbediscono a ordini, vaneggiamenti,
violenze gratuite... impugnano le armi con disinvoltura, rubano, saccheggiano,
rispettano rituali e codici d’onore a dire poco singolari, quanto mai inerenti
alla seduzione ribellistica che tutto vuole e niente costruisce. L’uomo in
rivolta è un’altra cosa. “La rivolta garantisce l’essere (a differenza della
rivoluzione)... È il movimento stesso della vita... non è possibile negare la
rivolta senza rinunciare a vivere: il suo grido più puro fa sì che ogni volta
sorga un nuovo essere” (Albert Camus, diceva). L’uomo in rivolta sa che il bene
nasce dal dissidio e il male che affronta è solo un passaggio intermedio verso
la felicità comune.
Quando cade il muro di
Berlino (1989) l’odore mercantile dell’Ovest ammorba la fantasia dei ragazzi e
nel passaggio epocale si alterano anche i loro equilibri precari. In questa terra di nessuno Koljma e Gagarin (più
dei loro amici) crescono selvatici come lupi e cementano la loro amicizia in
atti delinquenziali. Seguono l’educazione di nonno Kuzja che dà loro i coltelli
dell’iniziazione, li istruisce sul valore alchemico di appartenenza a un gruppo
e si fanno marchiare con tatuaggi che li promuovono a criminali onesti. Apprendono anche che il bottino delle rapine deve
essere spartito tra i membri della comunità. I siberiani — dice nonno Kuzja —
non rubano per arricchirsi ma per aiutare le famiglie, i vecchi, i bisognosi o
i “voluti da Dio” (i disagiati mentali) della loro microsocietà, come la figlia
del dottore del paese, Xenja (protetta ed amata da Koljma). I ragazzi crescono,
Koljma finisce in carcere e Gagarin si aggrega a una banda di spacciatori...
Koljma sopravvive alla detenzione per l’abilità di fare tatuaggi ai galeotti...
Xenja viene violentata e nonno Kuzja trova i soldi per pagare la scarcerazione
di Koljma. Si arruola nell’esercito e inizia a dare la caccia al violentatore
della ragazza, che è Gagarin. Lo uccide e il film si chiude sulla strada dove
Koljma chiede un passaggio per andare in quell’Occidente che aveva sempre
sognato.
Educazione
siberiana
non è certamente un capolavoro... questa parola non si addice al cinema
italiano contemporaneo... qui non ci sono autori come Lars von Trier (Melancholia, 2011), Aleksandr Sokurov (Faust, 2011) o Michael Haneke (Amour, 2012)... autentici maestri della
non obbedienza al mercato, gente che ha saputo fare del loro cinema il
fondamento di una visione estetica/etica della vita. Salvatores saltella da
altre parti della creatività filmica e tuttalpiù può aspirare a una decenza del
comunicare che non produce né sonni profondi né irrimediabili uscite dalla
sala, come nel caso di quasi tutto il cinema italiano.
Il soggetto di
Educazione siberiana, come è noto, è
tratto dal libro omonimo di Nicolai Lilin, scritto, ci pare, con tutti gli
ingredienti giusti per il consenso che ne consegue a un romanzo adolescenziale.
Le ospitate di Lilin nei talk show lo hanno fatto conoscere al “grande
pubblico” televisivo e qualcuno (Roberto Saviano o Maurizio Costanzo) è andato
anche in deliquio... la scrittura “geniale” è un’altra cosa. La sceneggiatura è
stata stesa da Stefano Rulli, Sandro Petraglia e Salvatores, e c’è da dire che
il tessuto del film è migliore di quello del libro, meno ascetico, più
inficcato nella realtà. I giovani attori, Arnas Federavicius (Kolyma), Vilius
Tumalavicius (Gagarin), Eleanor Tomlinson (Xenja), Jonas Trukanas (Mel)
specialmente, sono accattivanti... ma quando entra in scena John Malkovich
(nonno Kuzja), lo schermo s’illumina di autorevolezza attoriale. La fotografia
di Italo Petriccione alterna sequenze di notevole fattura ad altre molto lavorate,
oscure, quasi da cinema horror (che c’entrano poco con la storia del film). Buono
il montaggio altalenante di Massimo Fiocchi, quasi una catenaria d’incastri,
anche sorprendenti, che insieme alla musica di Mauro Pagani danno al film una
sorta di nobiltà affabulativa. Le inquadrature di Salvatores sono forti,
risolute, asciutte (tutte le apparizioni di nonno Kuzja, Gagarin, Xenja), si
richiamano al miglior cinema europeo (l’uso intelligente degli ambienti), anche
se, qualche volta, sono viziate da un certa ricerca formale non proprio
riuscita (la giostra “colorata”). La morte/resurrezione del ragazzo-mite nel
fiume è una fine citazione di Moby
Dick-La balena bianca (1956) di John Huston, ed è perfino più bella, meno
spettacolare, ricercata. Coglie la drammaticità di un tempo, quello della società consumerista, che non va difeso
ma aiutato a crollare.
Educazione siberiana è un buon film dove la forza della vita
e la trasfigurazione della morale istituita, non solo quella comunista (ci
viene da ridere!), riscatta il disagio a vivere di ragazzi cresciuti nella
violenza, lasciati alla deriva delle proprie emozioni... c’è dentro una verità
esistenziale, una tensione tormentata, inquieta che anela la fine di un
malessere ricevuto in sorte dalla nomenclatura sovietica, un regime sprezzante
dei diritti umani più elementari... tuttavia Salvatores — dopo la vendetta o la
giustizia — di Koljma (la parte meno riuscita del film), che ammazza Gagarin
(si fa uccidere con orgoglio, forse), non trova di meglio assegnare al ragazzo
l’uscita di scena verso l’Occidente, quasi fosse la terra promessa. La miseria
della società dello spettacolo alla
quale va incontro è certo meno aberrante di quella che lascia ma non meno
violenta, almeno per gli esclusi dal banchetto degli empi. A un certo grado di
infelicità ogni sorta di sopravvivenza diventa indecente. L’autoritarismo dei
“ricchi” è intollerabile senza le insorgenze che lo negano e destinano ai
cannibali delle banche, ai militari, ai capi di stato e ai papi, una corona di sputi.
In ogni uomo niente è più importante e genuino della sua rivolta contro i
letamai dell’oppressione, fonte di tutto ciò che è radicalmente vivo.
Piombino,
dal vicolo dei gatti in amore, 9 volte aprile, 2013
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