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martedì 12 marzo 2013

PUTIN E IL FASCINO DELL'IDEA IMPERIALE, di Pier Francesco Zarcone

In genere si parla dei progetti imperialistici degli Stati Uniti, mentre di varie contromisure russe si mette in rilievo lo scopo difensivo (che obiettivamente esiste), ma poco si parla dei progetti imperiali (e imperialistici) della Russia postsovietica di Vladimir Putin. Eppure esistono, eccome. Affrontare questo argomento vuole dire trattare anche del pensiero politico - o meglio, geopolitico - di un influente personaggio dell’establishment di Putin, cioè Aleksandr Dugin, ascoltato consigliere suo e della Duma, il quale è assurto a ideologo sistematizzatore di un progetto euroasiatico.

La Russia e la prospettiva dell’impero. L’ultimo Putin
Lo storico Geoffrey Hosking, nel libro Sovrani e vittime. I Russi nell’Unione Sovietica ha formalmente posto un problema che a ridosso dell’implosione dell’Urss sarebbe sembrato assurdo: cioè se ancor oggi la Russia si orienti alla costruzione di un nuovo impero. La risposta data dal Pentagono è “sì”, e ovviamente la concorrenza di Mosca preoccupa i dirigenti di Washington. Accantonando la questione se costoro siano i più legittimati a tirare le metaforiche “prime pietre” contro la Russia, non c’è dubbio che la prospettiva della contrapposizione fra i progetti imperiali (e imperialistici) di Russia e Usa dovrebbe preoccupare tutti. E questo perché se già l’esistenza di un solo progetto del genere mette a serio rischio la pace mondiale, quando poi ne esistono ben due contrapposti si sa con una certa sicurezza come poi vanno a finire le cose. Anche ammettendo che in una prima fase le due parti potrebbero mettersi d’accordo per una spartizione “transitoria” delle aree di influenza, il problema resterebbe comunque per il dopo.
A ben guardare, con l’avvento di Putin al potere la politica estera russa ha compiuto una radicale inversione rispetto alla precedente epoca di Eltsin, che fu presidente di una Federazione Russa in piena crisi economica e sociale, impegnata a ricostruire il capitalismo, orientata a una qualche democratizzazione di facciata e tutto sommato suscettibile di entrare a far parte del consesso degli Stati “normali” in quanto ormai innocua, cioè non più “impero del male”-
Con Putin tutto è cambiato, a 360º e si è passati a una contrapposizione netta con gli Usa e l’Occidente. Putin ha al suo attivo un certo risanamento economico grazie al ruolo di fondamentale fornitore di gas all’Europa, nonché il riarmo, la ripresa d’influenza nell’Asia ex sovietica, l’instaurazione di rapporti militari con la Cina, una politica estera orgogliosamente autonoma, le dure “lezioni” date agli islamisti ceceni e alla proterva Georgia filoccidentale. Tutti fattori che hanno rianimato il mai sopito nazionalismo russo. Inoltre, il poderoso riemergere dell’Ortodossia russa - forte elemento distintivo e identitario rispetto al Protestantesimo e al Cattolicesimo dell’Europa occidentale, con i quali i rapporti sono solo formalmente “civili” - costituisce un ulteriore lievito a tale rianimazione.
La Storia in genere, e in particolare quella degli ultimi due secoli, dimostra la forza di sedimentazione del cosiddetto “passato”, tant’è che dopo la caduta dei regimi del “socialismo reale” si è avuta l’impressione del dissolversi di una sovrapposta maschera d’argilla e del riproporsi dei volti preesistenti, pur in un contesto mutato. Già durante il regime staliniano pulsioni e tendenze che avremmo detto tipiche della Russia zarista erano state riassunte nella cornice sovietica, a volte delineando una sorta di nazionalcomunismo grande-russo. Durante la guerra fredda la politica di Mosca fu in genere e tendenzialmente difensiva, anche perché l’espansione bellica dell’Armata Rossa aveva ricompreso sotto l’egemonia di Mosca tutta l’area europea in precedenza oggetto delle mire degli Zar, eccezion fatta per il Bosforo e i Dardanelli.
Nulla di strano, quindi, che Putin si sia mosso nella stessa direzione, sia pure con lo svantaggio di una Russia privata dell’Asia ex sovietica (Siberia a parte), dell’Ucraina, della Bielorussia e dei Paesi baltici, nonché dei “satelliti” firmatari del Patto di Varsavia. Comunque nel ridotto ambito a disposizione una rimonta russa c’è stata, almeno nei limiti del possibile attuale, con alcune conseguenze non secondarie: in Asia, il piano statunitense di mettere le mani sugli Stati nati dalla fine dell’Urss è sostanzialmente fallita e l’influenza di Mosca è ormai una realtà; l’Ucraina ha un governo filorusso e comunque è sotto il ricatto delle forniture di gas; la Bielorussia non ha mai tagliato gli stretti legami con Mosca.
La Russia di Putin non si presenta come portatrice di un nazionalismo chiuso: questo è un punto di partenza, la base di un progetto fondamentalmente euro-asiatico. Un elemento di concretizzazione è stato l’avvio - dal gennaio 2012 - dell’unione doganale fra Russia, Bielorussia e Kazakistan (un’aera di circa 163 milioni di persone - e auspicabili consumatori); iniziativa che non è fine a se stessa, bensì il primo passo verso un’integrazione delle politiche economiche e monetarie di questi tre paesi; ulteriore punto di partenza, giacché non si esclude affatto che nel prossimo futuro vi aderiscano anche Tagikistan e Kirghizistan. È ormai chiaro che il progetto di Putin ha due fasi di sviluppo. Nella prima fase, si tratta di mantenere lo status quo, di contenere i tentativi occidentali di penetrazione nella ex area sovietica (tranne quella del vecchio Patto di Varsavia, ormai tutta perduta; al momento per lo meno) e di recuperare gradualmente vari Stati dell’ex Urss ricorrendo a strutture militari ed economiche guidate dalla Russia. A gennaio del 2015, poi, dovrebbe entrare in vigore l’Unione Euroasiatica che Mosca vorrebbe in seguito estesa ad Armenia e Ucraina. Inoltre, giocando con i conflitti (detti “congelati”) in Ossezia del Sud, Abkhazia, e Transnistria è possibile “raffreddare” le tentazioni filoatlantiche di Moldova e Georgia. Sintomatica è quindi la pretesa di Putin, manifestata alla fine dello scorso anno, di essere riconosciuto all’estero come Presidente della Federazione Russa e leader dell'Unione Eurasiatica.
Sempre in questa prima fase va collocata la politica energetica di Mosca, che si accrescerà con lo sviluppo della costruzione dei gasdotti South Stream (la russa Gazprom ha come partners di minoranza l’italiana Eni, la francese Edf e la tedesca Wintershall), in palese concorrenza con il progetto del gasdotto Nabucco, che interessa invece Stati Uniti e Unione Europea. Solo che il Nabucco probabilmente non sarà mai realizzato. A ciò si aggiunga che la costruzione del South Stream passerà per la Turchia (di questi temi abbiamo già trattato ampiamente in precedenti articoli).
Quando Putin era ancora candidato a succedere a Medvedev, il giornale Moskovskie Novosti pubblicò un suo interessante scritto sulla necessità di attuare gradualmente un «nuovo ordine mondiale, basato sulla realtà geopolitiche contemporanee».
Egli metteva altresì in rilievo l’effetto destabilizzatore sulle relazioni internazionali di certe scelte degli Stati Uniti tra cui, in primis, l’espansione della Nato, «che si riflette in particolare nello schieramento di nuove infrastrutture militari e di progetti dell’Alleanza (su iniziativa degli statunitensi) per l’attuazione in Europa dello scudo antimissile (Abm) (…) [e] una serie di conflitti armati, condotta sotto il pretesto di obiettivi umanitari [che] mina il principio secolare della sovranità nazionale. (…)  A quanto pare, la Nato, e soprattutto gli Stati Uniti, hanno la loro percezione della sicurezza, che è fondamentalmente diversa dalla nostra. Gli statunitensi sono ossessionati dall’idea di avere l’invulnerabilità assoluta, cosa irrealistica e impraticabile, sia tecnicamente che geopoliticamente. Questo è esattamente l’essenza del problema. L’invulnerabilità assoluta di uno, implica la vulnerabilità assoluta di tutti gli altri. È impossibile accettare una simile prospettiva».
In ordine alla “primavera araba” il discorso di Putin univa l’interesse russo alla consapevolezza dei pericoli innescati dalla non certo astuta politica finora perseguita dagli Usa, ed evidenziava che: « Si scopre che nei paesi colpiti dalla primavera araba, proprio come in Iraq, al momento, le aziende russe cedono le loro posizioni acquisite nel corso di decenni nei mercati locali, e perdono contratti commerciali importanti. E i vuoti vengono colmati dagli attori economici dei paesi che hanno contribuito al rovesciamento dei regimi. Si potrebbe pensare che in una certa misura, questi tragici eventi non sono motivati dalla preoccupazione per il rispetto dei diritti umani, ma dal desiderio di ridistribuire i mercati. In ogni caso, non possiamo certo stare a guardare. E abbiamo intenzione di lavorare attivamente con i nuovi governi dei paesi arabi, per ripristinare velocemente la nostra posizione economica. Nel complesso, gli eventi nel mondo arabo sono molto istruttivi. Mostrano che il desiderio di portare la democrazia con la forza spesso può far sì che il risultato sia l’opposto. Stiamo assistendo all’emergere di forze, compresi gli estremisti religiosi, che cercano di cambiare la direzione dello sviluppo dei paesi e la natura secolare della loro gestione». 
Già in tale fase del progetto russo è palese l’intenzione di superare l’attuale unipolarità nel mondo puntando a una multipolarità in cui la Russia sia protagonista. Questo mondo multipolare, tuttavia, non sarebbe “orizzontale”, bensì avrebbe una sua gerarchia. La concezione di Putin non sembra essere sgradita a Cina, Giappone e India, forse nemmeno a qualcuno in Europa e - stante la sua obiettiva contrapposizione con gli Usa - potrebbe avere un certo seguito anche nel cosiddetto Terzo Mondo (America latina e Africa). Sul piano storico niente di nuovo, il che ci riporta al nostro iniziale accenno di “filosofia della Storia” (per usare un termine pomposo). Infatti già dal secolo XVII l’impero zarista mirava a inglobare le aree strategiche dell’Europa orientale, del Caucaso, della Siberia e dell’Asia Centrale, facendo di Russia, Bielorussia e Ucraina l’asse portante di questa costruzione. 
Per la seconda fase del progetto di Putin - cioè la costruzione della multipolarità - dobbiamo chiamare in causa il pensiero del suo consigliere Alexandr Dugin. 

Chi è Alexander Dugin, maitre à penser di Putin
Aleksandr Dugin è figlio di un ufficiale del servizi segreti, laureato in filosofia, giornalista, scrittore e professore di filosofia all’Università di Stato di Mosca. Il suo percorso politico ha toccato varie tappe, disomogenee ma collegate da un certo filo conduttore: è stato traduttore clandestino di opere di Julius Evola e René Guénon, nel 1988 ha fatto parte del nazionalista e anti-occidentale Pamjat; oppositore di Gorbaciov e Eltsin, dopo il crollo dell'Unione Sovietica ha collaborato con Gennadij Zjuganov per la stesura del programma politico del Partito Comunista della Federazione Russa; nel 1993 è stato tra i fondatori del Partito Nazional-Bolscevico. Nei suoi scritti ha elogiato ideologi neofascisti europei, ma anche lo zarismo e Stalin. In un articolo del 1997 si è fatto banditore dell’avvento in Russia di un “genuino” (!?) fascismo rivoluzionario, senza omettere di considerare le Waffen SS un'oasi intellettuale”! Uscito dal suo partito del ’93 per spostarsi - se possibile - ancora più a destra ha fondato varie organizzazioni estremiste fra cui il Fronte Nazionale Bolscevico, per poi finire col far parte della cerchia di Putin. Infine nel 2000 ha fondato un altro gruppo politico, il Movimento Internazionale Eurasiatista.
Alla sua fusione tra “fascismo sociale” (!) e “comunismo patriottico” Dugin ha voluto dare una dignità metafisica, presentandola come esaltazione dell’Uno rispetto al Molteplice di fronte a un nemico comune. La concezione eurasiatica di Dugin - che dichiara di avere l’appoggio di prelati della Chiesa ortodossa e di esponenti delle comunità musulmane, buddhiste ed ebraiche - punta alla realizzazione di un’alleanza turco-iraniana-slava, suscettibile di successiva estensione all’area araba. Intanto vorrebbe che la Russia lavorasse per impadronirsi di nuovo dell’Ucraina.
In un’intervista il nostro si è così autodefinito:
«Mi considero un Rivoluzionario Conservatore ed un Nazional-Bolscevico. Non è esattamente fascismo, o per dirlo più chiaramente, esattamente non fascismo. Ci furono varie fasi nella storia dei movimenti fascisti, e queste fasi furono alquanto diverse l’una dall’altra non solo politicamente, ma anche filosoficamente e ideologicamente. Nel primo fascismo italiano (che si dà il caso io gradisca, e non esito a dichiararlo forte e chiaro) c’erano molti fronti avanguardisti - nella sfera sociale ed economica (sindacalismo, unioni sindacali), nell’arte (D’Annunzio, Marinetti, Papini, ecc), nell’Hegelismo di destra che creò l’ideologia dello Stato Assoluto (Gentile), nella ricerca esoterica e nel Tradizionalismo (Evola, Reghini), e, infine, nella vera concezione fascista, in cui nichilismo e anarchismo (“azione diretta, romanticismo, esotismo”) coesisterono con gli ideali conservatori di nazione, etica, gerarchia, e valori militari. (…) Ci fu anche un periodo che trovo interessante nel Nazional-Socialismo tedesco: Quello della prima ora, ancora chiaramente socialista, avanguardista, ricco di misticismo ariosofico e profondamente immerso nelle problematiche filosofiche sviluppate dagli autori della Rivoluzione Conservatrice - Ernst Jünger, Arthur  Müller van den Bruck, Carl Schmitt, Werner Sombart, Martin Heidegger, Hermann Wirth, Otmar Spann, Leo Frobenius, Friedrich Hilscher, Oswald Spengler, e altri. Vedo in questa pleiade dei Rivoluzionari Conservatori il fenomeno più interessante dell’Europa del ventesimo secolo. Comunque, praticamente tutti questi autori furono marginalizzati dal regime di Hitler». 
L’euroasiatismo di Dugin (e quindi di Putin)
Se si cercano i precedenti teorici della concezione di Dugin viene alla mente il generale conservatore tedesco della prima metà del secolo scorso, Karl Hausohfer (1869-1946), sul cui pensiero vale la pena spendere qualche parola, con la premessa che egli fu un conservatore alla tedesca, e non un nazista in senso proprio, anche se i nazisti trassero dalla sua geopolitica le ispirazioni e gli elementi che servivano loro. 
Haushofer elaborò la sua geopolitica delle “pan-regioni” per dare un fondamento più “oggettivo” all’esigenza di contrastare l’egemonia della Gran Bretagna, e naturalmente per fare ascendere l’impero tedesco alla posizione egemonica che invece ai suoi tempi era detenuta da Londra. Stabilendo un nesso fra fattori geografici e fattori storici (di guisa che per la loro posizione geografica certi paesi saranno sempre avversari di altri specifici paesi) Haushofer sostenne che l’annientamento della potenza britannica poteva avvenire solo dominando l’Europa orientale e l’Eurasia. La Germania avrebbe dovuto poi controllare le rotte commerciali fra Oriente (Russia compresa) e o Occidente per strangolare la Gran Bretagna facendole mancare i rifornimenti. A tale fine era considerato elemento fondamentale l’alleanza col Giappone per ripartire il dominio del Pacifico. L’Africa, insieme al Mediterraneo, avrebbe dovuto essere egemonizzata per un allineamento delle sue entità politiche con il blocco euroasiatico, e lo stesso dicasi per il Vicino Oriente. In questo modo la Germania avrebbe potuto anche circondare gli emergenti e pericolosi Stati Uniti.  
La geopolitica euroasiatica di Dugin si basa sui seguenti princìpi, patrimonio di tutta l’estrema destra europea: 1) pluralismo dei sistemi di valori contro l’appiattimento del pensiero unico della globalizzazione; 2) difesa della cosiddetta “Tradizione” (con la T maiuscola, si badi); 3) lotta all’egemonia occidentale basata sul denaro in nome dei “diritti delle nazioni”; 4) riconoscimento e difesa delle etnie come valori e soggetti della Storia; 5) giustizia sociale e solidarietà umana.

Le varie “zone” ipotizzate dal progetto di Dugin - grosso modo corrispondenti ad aree di civiltà - dovrebbero essere strutturate in non meglio specificati “imperi democratici”, dotati di libertà relativa, in quanto soggetti ai limiti derivanti dal loro inserimento strategico nelle pan-regioni di “naturale” appartenenza. La lotta al potere degli Stati Uniti non può che essere promossa e animata dalla Russia, vuoi per la sua posizione strategica centrale, vuoi per le connessioni poste in essere nel corso della sua storia. Ma essa non può agire da sola: lo “spazio russo” deve trovare i collegamenti con altri “spazi” unibili nel progetto antioccidentale, fra cui ovviamente il mondo islamico.
Poiché Dugin è valorizzato nell’estrema destra europea, da appartenenti a quest’area mondo è venuta l’obiezione che il suo ragionamento dissolve l’obiettivo della difesa della “razza bianca”. A questo Dugin in una recente intervista ha replicato che
«Per quanto riguarda il mito della “solidarietà della razza bianca”, è una completa utopia che porta non solo all’Olocausto degli ebrei, ma anche al genocidio degli slavi. I resti del Terzo Reich sono la base di questa  concezione miserabile, contraddittoria e completamente falsa. Il mondo Anglo-Sassone è una realtà sociopolitica e culturale. Gli abitanti dell’Europa Centrale sono qualcosa di diverso. Il mondo Orientale della Cristianità Ortodossa e degli Slavi è una terza realtà. Sono certo che molti popoli non-bianchi dell’Eurasia sono mille volte più vicini a noi nello spirito e nella cultura che non gli americani».  
Giacché la Russia deve essere il motore (non immobile) della zona di “sua pertinenza” per una vasta irradiazione lungo assi ben determinati e per l’Europa occidentale Dugin privilegia gli assi Mosca-Berlino e Mosca-Parigi. Per l’Europa orientale (in senso lato), dato per scontato l’inserimento di Bielorussia e Ucraina nell’area russa, gli assi di Dugin sono due: l’asse Mosca-Ankara e quello Mosca-Caucaso. Dalla Turchia non si può prescindere, anzi va valorizzata la sua alterità rispetto ai paesi dell’Unione Europea, Gli interessi turchi e gli obiettivi regionali di Ankara implicano che la Turchia entri in una dimensione multipolare, ed essi sarebbero meglio tutelati attraverso una partnership con la Russia (appianando i contrasti storici) e con l’Iran. L’asse caucasico riguarda un’area oggettivamente difficile, per la pluralità di popoli con diverse religioni e culture, in virtù delle quali il Caucaso è un mosaico di elementi di civiltà diverse. Qui la soluzione prospettata da Dugin consiste nell’abbandono dell’opzione per Stati mono-etnici, e nel favorire invece la creazione di organismi federativi che lui definisce “flessibili”; un elemento a suo dire idoneo a favorire le coesistenze etico/culturali al loro interno sarebbe l’integrazione di questi organismi nel progetto strategico euroasiatico della Russia, la quale a tal fine realizzerebbe un sistema di semi-assi portanti:  Mosca-Tbilisi, Mosca-Baku, Mosca-Erevan, e così via, e poi ulteriori semi-assi che si diramino non più da Mosca ma dai singoli centri del Caucaso, come Baku-Ankara, Erevan-Teheran eccetera.
Per l’Asia Centrale Dugin prevede la vera e propria integrazione strategica ed economica con la Russia onde farne un ponte verso paesi islamici come il Pakistan e l’Afghanistan. L’asse Mosca-Teheran nell’ottica progettuale in questione è di importanza primaria, in sé e come punto di partenza per un’irradiazione ulteriore. Con Teheran va quindi realizzata una partnership di lunga durata e un’integrazione economica e militare da cui muovere in direzione di Islamabad e Kabul. L’obiettivo sarebbe puntare a una vera e propria confederazione pakistano/afghana legata sia a Mosca sia a Teheran. E per finire l’asse Mosca-Nuova Delhi, per stimolare un più organico assetto federale coinvolgente tutti i gruppi religiosi ed etnici indiani.

Che dire?
Di fronte a questa concezione e a questa progettualità, la prima cosa che viene da pensare è l’intento di Mosca di restaurare il suo controllo su aree ex sovietiche e la seconda è il nesso di continuità con tradizionali impostazioni russe che partono dal presupposto che la Russia innanzi tutto sia qualcosa di specifico rispetto all’Europa e all’Asia, ma che tutto sommato sia più vicina a quest’ultima in termini di civiltà e spiritualità. Prima di Dugin se ne fecero portatori ambienti aristocratici dell’emigrazione russa dopo la Rivoluzione d’Ottobre. Nell’ultima fase dell’Urss il discorso euroasiatico (evrazijstvo) (in precedenza osteggiato) era stato ripreso dallo storico Lev Gumiliëv; successivamente è entrato a far parte dell’ideologia del Partito comunista di Zjuganov, e il concetto della Russia che si sente euroasiatica Putin lo enunciò a novembre del 2000. 
Nessun dubbio che la concezione di Dugin appartenga alla categoria delle “insalate russe”  ideologiche, periodicamente (ri)prodotte dagli ambienti dell’estrema destra. Nella specie mescola senza amalgama elementi contraddittori, come il nazionalismo, il comunismo, il fascismo, la religione cristiana ortodossa, lo slavo/asiatismo, e così via. In questo quadro la positiva valutazione di Lenin dipende dal fatto che - a dire di Dugin -  egli dette alla sua gestione politica un substrato eurasiatico in quanto, contrariamente alla dottrina marxista, mantenne l’unità di quello che era stato lo spazio euroasiatico dell’impero zarista; mentre le tesi di Trotsky sulla rivoluzione mondiale - che se vittoriose avrebbero sommerso l’Urss nel mare magnum del comunismo planetario - erano invece di marca atlantista (sic). Tuttavia le idee di Dugin -  fumose, esaltate, incoerenti, lievito per pericolose contrapposizioni mondiali, prive di un serio programma economico/sociale - proprio per questo devono preoccupare essendo in grado di diffondersi dentro e fuori dalla Russia, offrendosi sul panorama internazionale come possibile soddisfacimento del diffuso bisogno di svincolarsi dalla presa statunitense.
Ci sono osservatori della politica internazionale che di fronte all’estensione del progetto euroasiatico hanno un sorriso di sufficienza rapportandole all’effettività delle risorse russe (soprattutto economiche, non equivalenti a quelle statunitensi). Questo è vero, ma prima di sorridere con convinzione si deve riflettere su un particolare: l’euroasiatismo russo non è il progetto per l’attuale generazione di politici moscoviti, bensì un piano di lunga durata che dovrebbe rafforzarsi attraverso la sua stessa implementazione. A fronte di ciò vi è la non brillante situazione degli Stati Uniti logorati dai cattivi esiti delle due presidenze di George Bush jr., tanto più che un miglioramento immediato non appare essere sicuramente immediato. Ad avviso di chi scrive per Putin (e Dugin) dietro l’angolo ci sono due test importanti e condizionanti nel breve periodo: gli esiti della crisi siriana e del nucleare iraniano. Però attenzione: non è detto che se le cose andassero male per Assad e per Teheran andrebbero male anche per la Russia. Comunque vadano le cose la Russia ne trarrà profitto. Purtroppo nelle valutazioni politiche si deve usare un certo cinismo. E allora possiamo dire che se già le imprese statunitensi in Afghanistan e Iraq sono state per i progetti del Cremlino una specie di manna caduta dal cielo, lo stesso (e forse ancora di più) si potrà dire quand’anche Assad fosse sconfitto e l’Iran attaccato.   
Non vi è dubbio che il progetto euroasiatico contenga tappe di estrema ambizione, ma se talune di esse trovassero realizzazione verrebbero realizzati passi consistenti. Per esempio, giacché una delle differenze fra i musulmani non laici e i jihadisti sta nella differente maniera di intendere e vivere un antiamericanismo che li accomuna, c’è da chiedersi quali sarebbero - in termini strategici globali - i risultati di un eventuale successo delle manovre russe verso il mondo islamico non jihadista.   
Si deve notare infine che il progetto di Dugin e Putin non contempla un settore del problema che invece è di estrema rilevanza: le contromosse statunitensi. Si ha l’impressione che il possibile contrasto russo alle iniziative Usa oggi come oggi si incentri ancora essenzialmente sulla deterrenza militare, in modo da dissipare il convincimento statunitense dell’impossibilità russa di rispondere a un attacco nucleare con un second strike. Praticamente uno scenario degno del Dottor Stranamore. In prospettiva, però, non si può escludere che la Russia riesca a estendere la sua influenza in modo da sostenere adeguatamente governi suscettibili di dare seri fastidi agli Stati Uniti.
Una sola cosa è certa: la fase non difensiva della politica russa, cioè quella espansiva, complicherà ulteriormente lo scenario mondiale e, per quel che serve, sarà il caso di incrociare le dita.

Intanto Putin si muove
Nel frattempo Putin si sta muovendo in due direzioni ben determinate: Usa e Turchia. Si tratta di percorsi per niente facili, ma - se ci si basa sul concreto - suscettibili di produrre risultati per Mosca. Vediamoli alla luce di quel che si sa.

Gli Stati Uniti
La stampa russa dà spazio a “voci” secondo cui il rinnovamento di alti quadri dell’amministrazione statunitense attuato da Obama dopo la sua rielezione ha creato una nuova situazione, corrispondente a una radicale svolta di politica internazionale derivante da un riposizionamento strategico degli Usa nello scenario mondiale. In ciò la Russia potrebbe inserirsi per arrivare al suo reingresso “alla grande” nel Vicino Oriente.     
Il riposizionamento strategico dipenderebbe dal fatto che in questa fase per gli Stati Uniti - in quanto ormai più che prossimi all’autosufficienza energetica, grazie allo sfruttamento del gas di scisto e delle sabbie bituminose - passerebbe in secondo piano il controllo delle risorse energetiche dei Paesi arabi; con la conseguenza di potersi orientare massicciamente verso il contenimento della Cina in Estremo Oriente, concentrandovi le proprie forze avendo perso l’area araba la rilevanza strategica in precedenza attribuitagli. La prospettiva del confronto cinese implica la necessità allentare gli attuali vincoli di cooperazione anche militare fra Russia e Cina, e il modo migliore consisterebbe nell’offrire alla Russia un appetibile “bocconcino” nel Vicino Oriente in modo da concentrarne interessi e attenzione in quest’area, a scapito dell’Estremo Oriente.
Secondo le “voci” in questione addirittura esisterebbe una proposta sotterranea dell’amministrazione Obama a Putin per il reingresso russo nel Vicino Oriente quale contropartita e per una spartizione della regione così come fecero Francia e Gran Bretagna durante la Grande Guerra con l’accordo Sykes-Picot. Al riguardo le “voci” sottolineano caratteristiche e orientamenti di taluni nuovi vertici voluti da Obama, come John Kerry, messo a capo del Dipartimento di Stato, Chuck Hagel, responsabile della Difesa, e John Brennan, direttore della Cia. Il perché è semplice: Kerry, amico personale di al-Assad, potrebbe essere un utile strumento per correggere l’errore statunitense nell’appoggiare la rivolta siriana, operando per una soluzione della crisi consistente nel lasciare al-Assad alla presidenza, patteggiare con la Russia un accordo fra il governo di Damasco e l’opposizione pacifica, facendo sancire il tutto da un bel referendum ; Hagel, che già nel 2008 aveva cercato (invano) di fare riconsegnare da Israele le alture del Golan alla Siria, sicuramente non è vicino agli interessi dei sionisti; Brennan, infine, avrebbe una specie di ossessione per eliminare il jihadismo e dare una lezione definitiva all’Arabia Saudita.   
Secondo l’interpretazione suddetta, nel quadro di un riassetto dell’area riguardante anche Giordania, Cisgiordania e Iraq, Israele avrebbe le sua garanzie di sussistenza, magari minimale, ma con il triplice vantaggio di tenerla buona per forza di cose, di restituire a Netaniahu la “cortesia” di aver appoggiato l’avversario di Obama alle presidenziali e di ridurre l’attuale onere economico che per Washignton è Israele.
Delle osservazioni di fondo si impongono, giacché tutti i piani sono belli a tavolino, ma poi si scontrano con la realtà. La prima osservazione riguarda il far digerire il rospo a Israele e quindi la possibilità o meno che la lobby sionista interna riesca a far fallire il progetto già in ambito statunitense. Chi vivrà, vedrà. E poi per gli Stati Uniti c’è la Russia. Sull’appetibilità dell’asserita offerta Usa per Mosca non esistono dubbi: se la proposta fosse seria e proseguisse il suo cammino la Russia l’accetterebbe. Ma davvero poi Mosca allenterebbe i collegamenti economico/militari con Pechino? Alla luce del progetto di Dugin si dovrebbe rispondere con rotondo “no”, giacché il reingresso russo nel Vicino Oriente fa parte integrante dell’eurasiatismo di Dugin (e Putin), ma lo stesso dicasi per il legame con Pechino. Niente di strano, quindi, se si realizzasse il classico accordo con riserva mentale, così come lo fu per la Germania il Patto di Monaco sulla spartizione della Cecoslovacchia. I nodi verrebbero al pettine dopo. 

La Turchia
Turchia e Russia storicamente sarebbero nemici tradizionali di lunga data, fin da quando gli Zar conquistarono i khanati tartari della Russia meridionale, nominalmente egemonizzati dall’impero ottomano, e sostanzialmente dettero un colpo mortale dall’islamismo in quelle regioni; poi ci furono le mire moscovite su Costantinopoli (Zarigrad, per i Russi), gli appoggi alle rivolte dei cristiani ortodossi nei Balcani ottomani, la I Guerra mondiale e infine la guerra fredda. Tuttavia, mai dire mai in politica, essendo attualmente quasi idilliaci i rapporti fra Putin ed Erdoğan. Lo stesso Erdoğan a fine luglio 2012 ha accennato alla possibilità di un’adesione della Turchia alla Sco (Shanghai Cooperation Organization, come è noto incentrata sull’intesa fra Russia, Cina e alcuni Stati dell’Asia Centrale, con vari Paesi invitati quali osservatori - Pakistan, India, Afghanistan - sperando che in seguito vi aderiscano) e dell’abbandono del progetto di entrata nell’Unione Europea.
Si è trattato di uno scherzo? È presto per dirlo. Commentatori turchi hanno ironizzato sulla base dell’autoritarismo di Erdogan, giacché per lui la soluzione della Sco avrebbe vari profili vantaggiosi, come quelli del non doversi confrontare con istanze democratiche, violazioni dei diritti umani, stampa indipendente e così via.  Comunque, è un dato storicamente costante che Russia e Turchia - per i loro interessi geostrategici - abbiano bisogno di appoggio reciproco nei limiti in cui il ricorso alla forza non sia né proficuo né possibile. Infatti, per la Russia  resta vitale l’accesso alle acque territoriali turche nel Mar Nero e nel Mediterraneo, parimenti lo è per la Turchia il passaggio attraverso il Caucaso e l’accesso all’Asia Centrale. Mettersi d’accordo diventa fondamentale, al di là di un’eventuale adesione della Turchia (membro della Nato) alla Sco; cosa che potrebbe benissimo ridursi a una provocazione.  Ad ogni buon conto la partnership commerciale fra Russia e Turchia sta andando a gonfie vele: di recente sono stati conclusi ben 11 accordi economici e commerciali, che arricchiscono un quadro di collaborazione in crescita assoluta da quando Putin ed Erdoğan sono saliti entrambi al potere, tanto che oggi Turchia e Russia sono ciascuna il secondo partner commerciale dell’altra, il volume degli scambi è aumentato di circa 35 miliardi di dollari e gli analisti prevedono quanto prima il raggiungimento dei 100 miliardi di dollari.
Tutto questo non vuol dire certo assenza di attriti futuri fra Turchia e Russia in relazione all’Asia Centrale, particolarmente, stante l’attuale non coincidenza di obiettivi in quell’area; tuttavia in politica internazionale (e non solo) il problema non sta nell’evitare in assoluto gli inconvenienti, ma nel sapere più o meno cosa fare. E sta di fatto che sia Mosca sia Ankara hanno bisogno di ampliare i propri mercati; oggi Ankara in particolare, giacché deve fare in conti con un rallentamento della crescita economica per la congiuntura internazionale. Infatti secondo talune stime l’insieme della produzione turca sarà inferiore al 3%, non raggiungendo quindi l’obiettivo previsto del 3,2%.
Volendo azzardare una proiezione al di là del presente, si potrebbe dire che l’eventuale soluzione della crisi siriana nei termini ipotizzati in precedenza potrebbe favorire ulteriori avvicinamenti russo-turchi giacché in uno scenario di quel genere la Turchia avrebbe bisogno di una certa copertura per svolgere nell’area l’ambito ruolo di potenza regionale. Infatti c’è da dire che la recente politica estera perseguita da Erdoğan e dal suo ministro Davutoğlu ha del tutto ignorato l’esigenza, a suo tempo sottolineata da Atatürk, di non avere e non farsi nemici alle frontiere. E la situazione oggi è che la Turchia è quasi circondata da nemici o Stati ostili: la Grecia (per quello che vale oggi), Cipro, la Siria, l’Iran, l’Iraq, l’Armenia; con in più la guerriglia curda nelle regioni orientali. È chiaro che un appoggio russo non le farebbe per nulla male.

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