In genere si parla dei progetti imperialistici degli Stati Uniti, mentre di varie contromisure russe si mette in rilievo lo scopo difensivo (che obiettivamente esiste), ma poco si parla dei progetti imperiali (e imperialistici) della Russia postsovietica di Vladimir Putin. Eppure esistono, eccome. Affrontare questo argomento vuole dire trattare anche del pensiero politico - o meglio, geopolitico - di un influente personaggio dell’establishment di Putin, cioè Aleksandr Dugin, ascoltato consigliere suo e della Duma, il quale è assurto a ideologo sistematizzatore di un progetto euroasiatico.
La
Russia e la prospettiva dell’impero. L’ultimo Putin
Lo storico Geoffrey Hosking, nel libro Sovrani e vittime. I Russi nell’Unione
Sovietica ha formalmente
posto un problema che a ridosso dell’implosione dell’Urss sarebbe sembrato
assurdo: cioè se ancor oggi la Russia si orienti alla costruzione di un nuovo
impero. La risposta data dal Pentagono è “sì”, e ovviamente la concorrenza di
Mosca preoccupa i dirigenti di Washington. Accantonando la questione se costoro
siano i più legittimati a tirare le metaforiche “prime pietre” contro la
Russia, non c’è dubbio che la prospettiva della contrapposizione fra i progetti
imperiali (e imperialistici) di Russia e Usa dovrebbe preoccupare tutti. E
questo perché se già l’esistenza di un solo progetto del genere mette a serio
rischio la pace mondiale, quando poi ne esistono ben due contrapposti si sa con
una certa sicurezza come poi vanno a finire le cose. Anche ammettendo che in
una prima fase le due parti potrebbero mettersi d’accordo per una spartizione
“transitoria” delle aree di influenza, il problema resterebbe comunque per il
dopo.
A ben guardare, con l’avvento di Putin al potere la politica estera
russa ha compiuto una radicale inversione rispetto alla precedente epoca di Eltsin,
che fu presidente di una Federazione Russa in piena crisi economica e sociale,
impegnata a ricostruire il capitalismo, orientata a una qualche
democratizzazione di facciata e tutto sommato suscettibile di entrare a far
parte del consesso degli Stati “normali” in quanto ormai innocua, cioè non più
“impero del male”-
Con Putin tutto è cambiato, a 360º e si è passati a una contrapposizione
netta con gli Usa e l’Occidente. Putin ha al suo attivo un certo risanamento
economico grazie al ruolo di fondamentale fornitore di gas all’Europa, nonché
il riarmo, la ripresa d’influenza nell’Asia ex sovietica, l’instaurazione di
rapporti militari con la Cina, una politica estera orgogliosamente autonoma, le
dure “lezioni” date agli islamisti ceceni e alla proterva Georgia
filoccidentale. Tutti fattori che hanno rianimato il mai sopito nazionalismo
russo. Inoltre, il poderoso riemergere dell’Ortodossia russa - forte elemento
distintivo e identitario rispetto al Protestantesimo e al Cattolicesimo
dell’Europa occidentale, con i quali i rapporti sono solo formalmente “civili”
- costituisce un ulteriore lievito a tale rianimazione.
La Storia in genere, e in particolare quella degli ultimi due secoli,
dimostra la forza di sedimentazione del cosiddetto “passato”, tant’è che dopo
la caduta dei regimi del “socialismo reale” si è avuta l’impressione del
dissolversi di una sovrapposta maschera d’argilla e del riproporsi dei volti
preesistenti, pur in un contesto mutato. Già durante il regime staliniano
pulsioni e tendenze che avremmo detto tipiche della Russia zarista erano state
riassunte nella cornice sovietica, a volte delineando una sorta di nazionalcomunismo
grande-russo. Durante la guerra fredda la politica di Mosca fu in genere e
tendenzialmente difensiva, anche perché l’espansione bellica dell’Armata Rossa
aveva ricompreso sotto l’egemonia di Mosca tutta l’area europea in precedenza
oggetto delle mire degli Zar, eccezion fatta per il Bosforo e i Dardanelli.
Nulla di strano, quindi, che Putin si sia mosso nella stessa direzione,
sia pure con lo svantaggio di una Russia privata dell’Asia ex sovietica
(Siberia a parte), dell’Ucraina, della Bielorussia e dei Paesi baltici, nonché
dei “satelliti” firmatari del Patto di Varsavia. Comunque nel ridotto ambito a
disposizione una rimonta russa c’è stata, almeno nei limiti del possibile
attuale, con alcune conseguenze non secondarie: in Asia, il piano statunitense
di mettere le mani sugli Stati nati dalla fine dell’Urss è sostanzialmente
fallita e l’influenza di Mosca è ormai una realtà; l’Ucraina ha un governo
filorusso e comunque è sotto il ricatto delle forniture di gas; la Bielorussia
non ha mai tagliato gli stretti legami con Mosca.
La Russia di Putin non si presenta come portatrice di un nazionalismo
chiuso: questo è un punto di partenza, la base di un progetto fondamentalmente
euro-asiatico. Un elemento di concretizzazione è stato l’avvio - dal gennaio
2012 - dell’unione doganale fra Russia, Bielorussia e Kazakistan (un’aera di
circa 163 milioni di persone - e auspicabili consumatori); iniziativa che non è
fine a se stessa, bensì il primo passo verso un’integrazione delle politiche
economiche e monetarie di questi tre paesi; ulteriore punto di partenza,
giacché non si esclude affatto che nel prossimo futuro vi aderiscano anche Tagikistan
e Kirghizistan. È ormai chiaro che il progetto di Putin ha due fasi di
sviluppo. Nella prima fase, si tratta di mantenere lo status quo, di contenere
i tentativi occidentali di penetrazione nella ex area sovietica (tranne quella
del vecchio Patto di Varsavia, ormai tutta perduta; al momento per lo meno) e
di recuperare gradualmente vari Stati dell’ex Urss ricorrendo a strutture
militari ed economiche guidate dalla Russia. A gennaio del 2015, poi, dovrebbe
entrare in vigore l’Unione Euroasiatica che Mosca vorrebbe in seguito estesa ad
Armenia e Ucraina. Inoltre, giocando con i conflitti (detti
“congelati”) in Ossezia del Sud, Abkhazia, e Transnistria è possibile
“raffreddare” le tentazioni filoatlantiche di Moldova e Georgia. Sintomatica è
quindi la pretesa di Putin, manifestata alla fine dello scorso anno, di essere
riconosciuto all’estero come Presidente della Federazione Russa e leader
dell'Unione Eurasiatica.
Sempre in questa prima fase va collocata la politica energetica di
Mosca, che si accrescerà con lo sviluppo della costruzione dei gasdotti South Stream (la russa Gazprom ha come
partners di minoranza l’italiana Eni, la francese Edf e la tedesca Wintershall),
in palese concorrenza con il progetto del gasdotto Nabucco, che interessa invece Stati Uniti e Unione Europea. Solo
che il Nabucco probabilmente non sarà mai realizzato. A ciò si aggiunga che la
costruzione del South Stream passerà per la Turchia (di questi temi abbiamo già
trattato ampiamente in precedenti articoli).
Quando Putin era ancora candidato a succedere a Medvedev, il giornale Moskovskie Novosti pubblicò un suo
interessante scritto sulla necessità di attuare gradualmente un «nuovo ordine mondiale, basato sulla realtà
geopolitiche contemporanee».
Egli metteva altresì in rilievo l’effetto destabilizzatore sulle relazioni
internazionali di certe scelte degli Stati Uniti tra cui, in primis, l’espansione
della Nato, «che si riflette in particolare nello schieramento di nuove
infrastrutture militari e di progetti dell’Alleanza (su iniziativa degli
statunitensi) per l’attuazione in Europa dello scudo antimissile (Abm) (…) [e] una
serie di conflitti armati, condotta sotto il pretesto di obiettivi umanitari
[che] mina il principio secolare della sovranità nazionale. (…) A quanto pare, la Nato, e soprattutto gli
Stati Uniti, hanno la loro percezione della sicurezza, che è fondamentalmente
diversa dalla nostra. Gli statunitensi sono ossessionati dall’idea di avere
l’invulnerabilità assoluta, cosa irrealistica e impraticabile, sia tecnicamente
che geopoliticamente. Questo è esattamente l’essenza del problema. L’invulnerabilità
assoluta di uno, implica la vulnerabilità assoluta di tutti gli altri. È
impossibile accettare una simile prospettiva».
In ordine alla
“primavera araba” il discorso di Putin univa l’interesse russo alla
consapevolezza dei pericoli innescati dalla non certo astuta politica finora
perseguita dagli Usa, ed evidenziava che: « Si scopre che nei paesi colpiti
dalla primavera araba, proprio come in Iraq, al momento, le aziende russe
cedono le loro posizioni acquisite nel corso di decenni nei mercati locali, e
perdono contratti commerciali importanti. E i vuoti vengono colmati dagli
attori economici dei paesi che hanno contribuito al rovesciamento dei regimi. Si
potrebbe pensare che in una certa misura, questi tragici eventi non sono
motivati dalla preoccupazione per il rispetto dei diritti umani, ma dal
desiderio di ridistribuire i mercati. In ogni caso, non possiamo certo stare a
guardare. E abbiamo intenzione di lavorare attivamente con i nuovi governi dei
paesi arabi, per ripristinare velocemente la nostra posizione economica. Nel
complesso, gli eventi nel mondo arabo sono molto istruttivi. Mostrano che il
desiderio di portare la democrazia con la forza spesso può far sì che il
risultato sia l’opposto. Stiamo assistendo all’emergere di forze, compresi gli
estremisti religiosi, che cercano di cambiare la direzione dello sviluppo dei
paesi e la natura secolare della loro gestione».
Già in tale fase del progetto russo è palese l’intenzione di superare
l’attuale unipolarità nel mondo puntando a una multipolarità in cui la Russia
sia protagonista. Questo mondo multipolare, tuttavia, non sarebbe
“orizzontale”, bensì avrebbe una sua gerarchia. La concezione di Putin non
sembra essere sgradita a Cina, Giappone e India, forse nemmeno a qualcuno in
Europa e - stante la sua obiettiva contrapposizione con gli Usa - potrebbe
avere un certo seguito anche nel cosiddetto Terzo Mondo (America latina e
Africa). Sul piano storico niente di nuovo, il che ci riporta al nostro
iniziale accenno di “filosofia della Storia” (per usare un termine pomposo).
Infatti già dal secolo XVII l’impero zarista mirava a inglobare le aree
strategiche dell’Europa orientale, del Caucaso, della Siberia e dell’Asia
Centrale, facendo di Russia, Bielorussia e Ucraina l’asse portante di questa
costruzione.
Per la seconda fase del progetto di Putin - cioè la costruzione della
multipolarità - dobbiamo chiamare in causa il pensiero del suo consigliere
Alexandr Dugin.
Chi è Alexander Dugin, maitre à penser di Putin
Aleksandr Dugin è figlio di un ufficiale del servizi segreti, laureato
in filosofia, giornalista, scrittore e professore di filosofia all’Università
di Stato di Mosca. Il suo percorso politico ha toccato varie tappe, disomogenee
ma collegate da un certo filo conduttore: è stato traduttore clandestino di
opere di Julius Evola e René Guénon, nel 1988 ha fatto parte del
nazionalista e anti-occidentale Pamjat;
oppositore di Gorbaciov e Eltsin, dopo il crollo dell'Unione Sovietica ha
collaborato con Gennadij Zjuganov per la stesura del programma
politico del Partito Comunista della Federazione
Russa; nel 1993 è stato tra i fondatori del Partito Nazional-Bolscevico. Nei suoi
scritti ha elogiato ideologi neofascisti europei, ma anche lo zarismo e Stalin.
In un articolo del 1997 si è fatto banditore dell’avvento in Russia di un “genuino”
(!?) fascismo rivoluzionario, senza omettere di considerare le Waffen SS un'oasi
intellettuale”! Uscito dal suo partito del ’93 per spostarsi - se possibile - ancora
più a destra ha fondato varie organizzazioni estremiste fra cui il Fronte Nazionale Bolscevico, per poi
finire col far parte della cerchia di Putin. Infine nel 2000 ha fondato un altro gruppo
politico, il Movimento Internazionale Eurasiatista.
Alla sua fusione tra “fascismo sociale” (!) e “comunismo patriottico”
Dugin ha voluto dare una dignità metafisica, presentandola come esaltazione
dell’Uno rispetto al Molteplice di fronte a un nemico comune. La concezione
eurasiatica di Dugin - che dichiara di avere l’appoggio di prelati della Chiesa
ortodossa e di esponenti delle comunità musulmane, buddhiste ed ebraiche -
punta alla realizzazione di un’alleanza turco-iraniana-slava, suscettibile di successiva
estensione all’area araba. Intanto vorrebbe che la Russia lavorasse per impadronirsi
di nuovo dell’Ucraina.
In un’intervista il nostro si è così autodefinito:
«Mi considero un Rivoluzionario Conservatore ed un Nazional-Bolscevico. Non è esattamente fascismo, o per dirlo più chiaramente, esattamente non fascismo. Ci furono varie fasi nella storia dei movimenti fascisti, e queste fasi furono alquanto diverse l’una dall’altra non solo politicamente, ma anche filosoficamente e ideologicamente. Nel primo fascismo italiano (che si dà il caso io gradisca, e non esito a dichiararlo forte e chiaro) c’erano molti fronti avanguardisti - nella sfera sociale ed economica (sindacalismo, unioni sindacali), nell’arte (D’Annunzio, Marinetti, Papini, ecc), nell’Hegelismo di destra che creò l’ideologia dello Stato Assoluto (Gentile), nella ricerca esoterica e nel Tradizionalismo (Evola, Reghini), e, infine, nella vera concezione fascista, in cui nichilismo e anarchismo (“azione diretta, romanticismo, esotismo”) coesisterono con gli ideali conservatori di nazione, etica, gerarchia, e valori militari. (…) Ci fu anche un periodo che trovo interessante nel Nazional-Socialismo tedesco: Quello della prima ora, ancora chiaramente socialista, avanguardista, ricco di misticismo ariosofico e profondamente immerso nelle problematiche filosofiche sviluppate dagli autori della Rivoluzione Conservatrice - Ernst Jünger, Arthur Müller van den Bruck, Carl Schmitt, Werner Sombart, Martin Heidegger, Hermann Wirth, Otmar Spann, Leo Frobenius, Friedrich Hilscher, Oswald Spengler, e altri. Vedo in questa pleiade dei Rivoluzionari Conservatori il fenomeno più interessante dell’Europa del ventesimo secolo. Comunque, praticamente tutti questi autori furono marginalizzati dal regime di Hitler».
L’euroasiatismo
di Dugin (e quindi di Putin)
Se si cercano i precedenti teorici della concezione di Dugin viene alla
mente il generale conservatore tedesco della prima metà del secolo scorso, Karl
Hausohfer (1869-1946), sul cui pensiero vale la pena spendere qualche parola,
con la premessa che egli fu un conservatore alla tedesca, e non un nazista in
senso proprio, anche se i nazisti trassero dalla sua geopolitica le ispirazioni
e gli elementi che servivano loro.
Haushofer elaborò la sua geopolitica delle “pan-regioni” per dare un
fondamento più “oggettivo” all’esigenza di contrastare l’egemonia della Gran
Bretagna, e naturalmente per fare ascendere l’impero tedesco alla posizione
egemonica che invece ai suoi tempi era detenuta da Londra. Stabilendo un nesso
fra fattori geografici e fattori storici (di guisa che per la loro posizione
geografica certi paesi saranno sempre avversari di altri specifici paesi)
Haushofer sostenne che l’annientamento della potenza britannica poteva avvenire
solo dominando l’Europa orientale e l’Eurasia. La Germania avrebbe dovuto poi
controllare le rotte commerciali fra Oriente (Russia compresa) e o Occidente
per strangolare la Gran Bretagna facendole mancare i rifornimenti. A tale fine
era considerato elemento fondamentale l’alleanza col Giappone per ripartire il dominio
del Pacifico. L’Africa, insieme al Mediterraneo, avrebbe dovuto essere
egemonizzata per un allineamento delle sue entità politiche con il blocco
euroasiatico, e lo stesso dicasi per il Vicino Oriente. In questo modo la
Germania avrebbe potuto anche circondare gli emergenti e pericolosi Stati
Uniti.
La geopolitica euroasiatica di Dugin si basa sui seguenti princìpi,
patrimonio di tutta l’estrema destra europea: 1) pluralismo dei sistemi di
valori contro l’appiattimento del pensiero unico della globalizzazione; 2)
difesa della cosiddetta “Tradizione” (con la T maiuscola, si badi); 3) lotta
all’egemonia occidentale basata sul denaro in nome dei “diritti delle nazioni”;
4) riconoscimento e difesa delle etnie come valori e soggetti della Storia; 5)
giustizia sociale e solidarietà umana.
Le varie “zone” ipotizzate dal progetto di Dugin - grosso modo
corrispondenti ad aree di civiltà - dovrebbero essere strutturate in non meglio
specificati “imperi democratici”, dotati di libertà relativa, in quanto soggetti
ai limiti derivanti dal loro inserimento strategico nelle pan-regioni di
“naturale” appartenenza. La lotta al potere degli Stati Uniti non può che
essere promossa e animata dalla Russia, vuoi per la sua posizione strategica
centrale, vuoi per le connessioni poste in essere nel corso della sua storia.
Ma essa non può agire da sola: lo “spazio russo” deve trovare i collegamenti
con altri “spazi” unibili nel progetto antioccidentale, fra cui ovviamente il
mondo islamico.
Poiché Dugin è valorizzato nell’estrema destra europea, da appartenenti
a quest’area mondo è venuta l’obiezione che il suo ragionamento dissolve
l’obiettivo della difesa della “razza bianca”. A questo Dugin in una recente
intervista ha replicato che
«Per quanto riguarda il mito della “solidarietà della razza bianca”, è una completa utopia che porta non solo all’Olocausto degli ebrei, ma anche al genocidio degli slavi. I resti del Terzo Reich sono la base di questa concezione miserabile, contraddittoria e completamente falsa. Il mondo Anglo-Sassone è una realtà sociopolitica e culturale. Gli abitanti dell’Europa Centrale sono qualcosa di diverso. Il mondo Orientale della Cristianità Ortodossa e degli Slavi è una terza realtà. Sono certo che molti popoli non-bianchi dell’Eurasia sono mille volte più vicini a noi nello spirito e nella cultura che non gli americani».
Giacché la Russia deve essere il motore (non immobile) della zona di
“sua pertinenza” per una vasta irradiazione lungo assi ben determinati e per
l’Europa occidentale Dugin privilegia gli assi Mosca-Berlino e Mosca-Parigi.
Per l’Europa orientale (in senso lato), dato per scontato l’inserimento di
Bielorussia e Ucraina nell’area russa, gli assi di Dugin sono due: l’asse Mosca-Ankara e quello Mosca-Caucaso.
Dalla Turchia non si può prescindere, anzi va valorizzata la sua alterità
rispetto ai paesi dell’Unione Europea, Gli interessi turchi e gli obiettivi
regionali di Ankara implicano che la Turchia entri in una dimensione
multipolare, ed essi sarebbero meglio tutelati attraverso una partnership con
la Russia (appianando i contrasti storici) e con l’Iran. L’asse caucasico riguarda un’area oggettivamente difficile, per la
pluralità di popoli con diverse religioni e culture, in virtù delle quali il Caucaso
è un mosaico di elementi di civiltà diverse. Qui la soluzione prospettata da
Dugin consiste nell’abbandono dell’opzione per Stati mono-etnici, e nel
favorire invece la creazione di organismi federativi che lui definisce
“flessibili”; un elemento a suo dire idoneo a favorire le coesistenze
etico/culturali al loro interno sarebbe l’integrazione di questi organismi nel
progetto strategico euroasiatico della Russia, la quale a tal fine
realizzerebbe un sistema di semi-assi portanti:
Mosca-Tbilisi, Mosca-Baku, Mosca-Erevan, e così via, e poi ulteriori
semi-assi che si diramino non più da Mosca ma dai singoli centri del Caucaso,
come Baku-Ankara, Erevan-Teheran eccetera.
Per l’Asia Centrale Dugin
prevede la vera e propria integrazione strategica ed economica con la Russia
onde farne un ponte verso paesi islamici come il Pakistan e l’Afghanistan. L’asse
Mosca-Teheran nell’ottica progettuale
in questione è di importanza primaria, in sé e come punto di partenza per
un’irradiazione ulteriore. Con Teheran va quindi realizzata una partnership di
lunga durata e un’integrazione economica e militare da cui muovere in direzione
di Islamabad e Kabul. L’obiettivo sarebbe puntare a una vera e propria
confederazione pakistano/afghana legata sia a Mosca sia a Teheran. E per finire
l’asse Mosca-Nuova Delhi, per
stimolare un più organico assetto federale coinvolgente tutti i gruppi
religiosi ed etnici indiani.
Che dire?
Di fronte a questa
concezione e a questa progettualità, la prima cosa che viene da pensare è
l’intento di Mosca di restaurare il suo controllo su aree ex sovietiche e la
seconda è il nesso di continuità con tradizionali impostazioni russe che
partono dal presupposto che la Russia innanzi tutto sia qualcosa di specifico
rispetto all’Europa e all’Asia, ma che tutto sommato sia più vicina a quest’ultima
in termini di civiltà e spiritualità. Prima di Dugin se ne fecero portatori
ambienti aristocratici dell’emigrazione russa dopo la Rivoluzione d’Ottobre.
Nell’ultima fase dell’Urss il discorso euroasiatico (evrazijstvo) (in
precedenza osteggiato) era stato ripreso dallo storico Lev Gumiliëv;
successivamente è entrato a far parte dell’ideologia del Partito comunista di
Zjuganov, e il concetto della Russia che si sente euroasiatica Putin lo enunciò
a novembre del 2000.
Nessun dubbio che la concezione di Dugin appartenga alla categoria delle
“insalate russe” ideologiche,
periodicamente (ri)prodotte dagli ambienti dell’estrema destra. Nella specie
mescola senza amalgama elementi contraddittori, come il nazionalismo, il
comunismo, il fascismo, la religione cristiana ortodossa, lo slavo/asiatismo, e
così via. In questo quadro la positiva valutazione di Lenin dipende dal fatto
che - a dire di Dugin - egli dette alla
sua gestione politica un substrato eurasiatico in quanto, contrariamente alla
dottrina marxista, mantenne l’unità di quello che era stato lo spazio
euroasiatico dell’impero zarista; mentre le tesi di Trotsky sulla rivoluzione
mondiale - che se vittoriose avrebbero sommerso l’Urss nel mare magnum del comunismo planetario - erano invece di marca atlantista
(sic). Tuttavia le idee di Dugin -
fumose, esaltate, incoerenti, lievito per pericolose contrapposizioni
mondiali, prive di un serio programma economico/sociale - proprio per questo
devono preoccupare essendo in grado di diffondersi dentro e fuori dalla Russia,
offrendosi sul panorama internazionale come possibile soddisfacimento del
diffuso bisogno di svincolarsi dalla presa statunitense.
Ci sono osservatori della politica internazionale che di fronte
all’estensione del progetto euroasiatico hanno un sorriso di sufficienza
rapportandole all’effettività delle risorse russe (soprattutto economiche, non
equivalenti a quelle statunitensi). Questo è vero, ma prima di sorridere con
convinzione si deve riflettere su un particolare: l’euroasiatismo russo non è
il progetto per l’attuale generazione di politici moscoviti, bensì un piano di
lunga durata che dovrebbe rafforzarsi attraverso la sua stessa implementazione.
A fronte di ciò vi è la non brillante situazione degli Stati Uniti logorati dai
cattivi esiti delle due presidenze di George Bush jr., tanto più che un
miglioramento immediato non appare essere sicuramente immediato. Ad avviso di
chi scrive per Putin (e Dugin) dietro l’angolo ci sono due test importanti e
condizionanti nel breve periodo: gli esiti della crisi siriana e del nucleare
iraniano. Però attenzione: non è detto che se le cose andassero male per Assad
e per Teheran andrebbero male anche per la Russia. Comunque vadano le cose la
Russia ne trarrà profitto. Purtroppo nelle valutazioni politiche si deve usare
un certo cinismo. E allora possiamo dire che se già le imprese statunitensi in
Afghanistan e Iraq sono state per i progetti del Cremlino una specie di manna
caduta dal cielo, lo stesso (e forse ancora di più) si potrà dire quand’anche
Assad fosse sconfitto e l’Iran attaccato.
Non vi è dubbio che il progetto euroasiatico contenga tappe di estrema
ambizione, ma se talune di esse trovassero realizzazione verrebbero realizzati
passi consistenti. Per esempio, giacché una delle differenze fra i musulmani
non laici e i jihadisti sta nella differente maniera di intendere e vivere un
antiamericanismo che li accomuna, c’è da chiedersi quali sarebbero - in termini
strategici globali - i risultati di un eventuale successo delle manovre russe
verso il mondo islamico non jihadista.
Si deve notare infine che il progetto di Dugin e Putin non contempla un
settore del problema che invece è di estrema rilevanza: le contromosse
statunitensi. Si ha l’impressione che il possibile contrasto russo alle iniziative
Usa oggi come oggi si incentri ancora essenzialmente sulla deterrenza militare,
in modo da dissipare il convincimento statunitense dell’impossibilità russa di
rispondere a un attacco nucleare con un second
strike. Praticamente uno scenario degno del Dottor Stranamore. In prospettiva, però, non si può escludere che
la Russia riesca a estendere la sua influenza in modo da sostenere
adeguatamente governi suscettibili di dare seri fastidi agli Stati Uniti.
Una sola cosa è certa: la fase non difensiva della politica russa, cioè
quella espansiva, complicherà ulteriormente lo scenario mondiale e, per quel
che serve, sarà il caso di incrociare le dita.
Intanto Putin si muove
Nel frattempo Putin si sta muovendo in due direzioni ben determinate:
Usa e Turchia. Si tratta di percorsi per niente facili, ma - se ci si basa sul
concreto - suscettibili di produrre risultati per Mosca. Vediamoli alla luce di
quel che si sa.
Gli Stati Uniti
La stampa russa dà spazio a “voci” secondo cui il rinnovamento di alti
quadri dell’amministrazione statunitense attuato da Obama dopo la sua
rielezione ha creato una nuova situazione, corrispondente a una radicale svolta
di politica internazionale derivante da un riposizionamento strategico degli
Usa nello scenario mondiale. In ciò la Russia potrebbe inserirsi per arrivare
al suo reingresso “alla grande” nel Vicino Oriente.
Il riposizionamento strategico dipenderebbe dal fatto che in questa fase
per gli Stati Uniti - in quanto ormai più che prossimi all’autosufficienza
energetica, grazie allo sfruttamento del gas di scisto e delle sabbie
bituminose - passerebbe in secondo piano il controllo delle risorse energetiche
dei Paesi arabi; con la conseguenza di potersi orientare massicciamente verso
il contenimento della Cina in Estremo Oriente, concentrandovi le proprie forze
avendo perso l’area araba la rilevanza strategica in precedenza attribuitagli.
La prospettiva del confronto cinese implica la necessità allentare gli attuali
vincoli di cooperazione anche militare fra Russia e Cina, e il modo migliore
consisterebbe nell’offrire alla Russia un appetibile “bocconcino” nel Vicino
Oriente in modo da concentrarne interessi e attenzione in quest’area, a scapito
dell’Estremo Oriente.
Secondo le “voci” in questione addirittura esisterebbe una proposta
sotterranea dell’amministrazione Obama a Putin per il reingresso russo nel
Vicino Oriente quale contropartita e per una spartizione della regione così
come fecero Francia e Gran Bretagna durante la Grande Guerra con l’accordo
Sykes-Picot. Al riguardo le “voci” sottolineano caratteristiche e orientamenti
di taluni nuovi vertici voluti da Obama, come John Kerry, messo a capo del
Dipartimento di Stato, Chuck Hagel, responsabile della Difesa, e John Brennan,
direttore della Cia. Il perché è semplice: Kerry, amico personale di al-Assad,
potrebbe essere un utile strumento per correggere l’errore statunitense
nell’appoggiare la rivolta siriana, operando per una soluzione della crisi
consistente nel lasciare al-Assad alla presidenza, patteggiare con la Russia un
accordo fra il governo di Damasco e l’opposizione pacifica, facendo sancire il
tutto da un bel referendum ; Hagel, che già nel 2008 aveva cercato (invano) di
fare riconsegnare da Israele le alture del Golan alla Siria, sicuramente non è
vicino agli interessi dei sionisti; Brennan, infine, avrebbe una specie di
ossessione per eliminare il jihadismo e dare una lezione definitiva all’Arabia
Saudita.
Secondo l’interpretazione suddetta, nel quadro di un riassetto dell’area
riguardante anche Giordania, Cisgiordania e Iraq, Israele avrebbe le sua
garanzie di sussistenza, magari minimale, ma con il triplice vantaggio di
tenerla buona per forza di cose, di restituire a Netaniahu la “cortesia” di
aver appoggiato l’avversario di Obama alle presidenziali e di ridurre l’attuale
onere economico che per Washignton è Israele.
Delle osservazioni di fondo si impongono, giacché tutti i piani sono
belli a tavolino, ma poi si scontrano con la realtà. La prima osservazione
riguarda il far digerire il rospo a Israele e quindi la possibilità o meno che
la lobby sionista interna riesca a far fallire il progetto già in ambito
statunitense. Chi vivrà, vedrà. E poi per gli Stati Uniti c’è la Russia.
Sull’appetibilità dell’asserita offerta Usa per Mosca non esistono dubbi: se la
proposta fosse seria e proseguisse il suo cammino la Russia l’accetterebbe. Ma
davvero poi Mosca allenterebbe i collegamenti economico/militari con Pechino?
Alla luce del progetto di Dugin si dovrebbe rispondere con rotondo “no”,
giacché il reingresso russo nel Vicino Oriente fa parte integrante
dell’eurasiatismo di Dugin (e Putin), ma lo stesso dicasi per il legame con
Pechino. Niente di strano, quindi, se si realizzasse il classico accordo con
riserva mentale, così come lo fu per la Germania il Patto di Monaco sulla
spartizione della Cecoslovacchia. I nodi verrebbero al pettine dopo.
La Turchia
Turchia e Russia storicamente sarebbero nemici tradizionali di lunga
data, fin da quando gli Zar conquistarono i khanati tartari della Russia
meridionale, nominalmente egemonizzati dall’impero ottomano, e sostanzialmente
dettero un colpo mortale dall’islamismo in quelle regioni; poi ci furono le
mire moscovite su Costantinopoli (Zarigrad, per i Russi), gli appoggi alle
rivolte dei cristiani ortodossi nei Balcani ottomani, la I Guerra mondiale e
infine la guerra fredda. Tuttavia, mai dire mai in politica, essendo
attualmente quasi idilliaci i rapporti fra Putin ed Erdoğan. Lo stesso Erdoğan
a fine luglio 2012 ha
accennato alla possibilità di un’adesione della Turchia alla Sco (Shanghai Cooperation Organization, come
è noto incentrata sull’intesa fra Russia, Cina e alcuni Stati dell’Asia Centrale,
con vari Paesi invitati quali osservatori - Pakistan, India, Afghanistan -
sperando che in seguito vi aderiscano) e dell’abbandono del progetto di entrata
nell’Unione Europea.
Si è trattato di uno scherzo? È presto per dirlo. Commentatori turchi
hanno ironizzato sulla base dell’autoritarismo di Erdogan, giacché per lui la
soluzione della Sco avrebbe vari profili vantaggiosi, come quelli del non
doversi confrontare con istanze democratiche, violazioni dei diritti umani, stampa indipendente e così via. Comunque, è un dato storicamente costante che
Russia e Turchia - per i loro interessi geostrategici - abbiano bisogno di
appoggio reciproco nei limiti in cui il ricorso alla forza non sia né proficuo
né possibile. Infatti, per la Russia resta
vitale l’accesso alle acque territoriali turche nel Mar Nero e nel
Mediterraneo, parimenti lo è per la Turchia il passaggio attraverso il Caucaso
e l’accesso all’Asia Centrale. Mettersi d’accordo diventa fondamentale, al di
là di un’eventuale adesione della Turchia (membro della Nato) alla Sco; cosa
che potrebbe benissimo ridursi a una provocazione. Ad ogni buon conto la partnership commerciale
fra Russia e Turchia sta andando a gonfie vele: di recente sono stati conclusi
ben 11 accordi economici e commerciali, che arricchiscono un quadro di
collaborazione in crescita assoluta da quando Putin ed Erdoğan sono saliti
entrambi al potere, tanto che oggi Turchia e Russia sono ciascuna il secondo
partner commerciale dell’altra, il volume degli scambi è aumentato di circa 35
miliardi di dollari e gli analisti prevedono quanto prima il raggiungimento dei
100 miliardi di dollari.
Tutto questo non vuol dire certo assenza di attriti futuri fra Turchia e
Russia in relazione all’Asia Centrale, particolarmente, stante l’attuale non
coincidenza di obiettivi in quell’area; tuttavia in politica internazionale (e
non solo) il problema non sta nell’evitare in assoluto gli inconvenienti, ma
nel sapere più o meno cosa fare. E sta di fatto che sia Mosca sia Ankara hanno
bisogno di ampliare i propri mercati; oggi Ankara in particolare, giacché deve
fare in conti con un rallentamento della crescita economica per la congiuntura
internazionale. Infatti secondo talune stime l’insieme della produzione turca
sarà inferiore al 3%, non raggiungendo quindi l’obiettivo previsto del 3,2%.
Volendo azzardare una proiezione al di là del presente, si potrebbe dire
che l’eventuale soluzione della crisi siriana nei termini ipotizzati in
precedenza potrebbe favorire ulteriori avvicinamenti russo-turchi giacché in
uno scenario di quel genere la Turchia avrebbe bisogno di una certa copertura
per svolgere nell’area l’ambito ruolo di potenza regionale. Infatti c’è da dire
che la recente politica estera perseguita da Erdoğan e dal suo ministro
Davutoğlu ha del tutto ignorato l’esigenza, a suo tempo sottolineata da
Atatürk, di non avere e non farsi nemici alle frontiere. E la situazione oggi è
che la Turchia è quasi circondata da nemici o Stati ostili: la Grecia (per
quello che vale oggi), Cipro, la Siria, l’Iran, l’Iraq, l’Armenia; con in più
la guerriglia curda nelle regioni orientali. È chiaro che un appoggio russo non
le farebbe per nulla male.
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