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venerdì 22 marzo 2013

CRISTIANESIMI IX, di Pier Francesco Zarcone


I PRIMI CONCILI ECUMENICI: UNA STORIA BEN POCO FRATERNA

Parte I

Introduzione

Nel mondo cristiano si è sempre fatto uso e abuso di concetti come “fraternità”, “amore fraterno”, “perdono” ecc., e la distinzione filantropica fra “errore” ed “errante” non è stata certo inventata da Giovanni XXIII. Pur tuttavia nella storia del Cristianesimo di gran lunga prevalgono i comportamenti di segno opposto, da cui sono stati e sono tutt’altro che immuni proprio membri del clero. Un certo spirito “da Caino” si è manifestato fin dalle origini con tanti saluti a reiterati messaggi e raccomandazioni, di grande chiarezza, proprio di Gesù il Cristo. Non ne sono stati immuni nemmeno i primi Concili ecumenici. In questa sede parleremo di tre fra i più importanti di questi Concili che – indipendentemente dalle ragioni teologiche in campo – sono paradigmatici per il loro essere stati poco edificanti sul piano dei rapporti interni alla stessa “grande Chiesa” uscita dal periodo delle persecuzioni. A seguito delle controversie di quel tempo il corpo formalmente unitario della Chiesa si è diviso in varie confessioni religiose organizzate in altrettante Chiese.

Per i cristiani credenti dovrebbero essere pacifici due presupposti teologici: la sinergia divino-umana nei processi della vita ecclesiale e la biunivocità attiva nella Rivelazione, giacché l’essere umano non la riceve passivamente. Di modo che la recezione del messaggio e lo sforzo per la sua comprensione creano un ineliminabile intreccio fra l’elemento originario – che per il Cristiano è divino – e l’elemento umano. In quest’ultimo entra in gioco un dato fondamentale, ineliminabile e di carattere superiore del soggetto che riceve il messaggio: la sua libertà creatrice. Quest’ultima, tuttavia, non è assoluta, ma riceve tutta una serie e gradi di determinazioni (cioè di caratterizzazioni) da parte della cultura di appartenenza.
È un non occultabile dato di fatto che la formazione teologica del Cristianesimo storico è avvenuta in un vasto ambiente di cultura ellenistica, vale a dire greco-romana con commistioni orientali. Di trattava però di un ambiente culturale assai variegato al suo interno, e quindi non omogeneo: infatti nel suo Occidente erano più radicati Aristotele e gli Stoici, mentre nel suo Oriente l’influenza preponderante era data da Platone, dal neo-platonismo e da elementi orientali siriaci e mesopotamici.
Nello svolgimento dei Concili ecumenici praticamente nessuno effettuò la fondamentale tara espressa da Nikolaj Berdjaev nella prima metà del secolo scorso:
«È necessario distinguere la rivelazione cristiana dai modelli di civiltà e dai modelli di pensiero nel quale tale rivelazione è andata a incarnarsi. (…) ogni confessione è una individualizzazione storica dell’unica rivelazione cristiana (…). Perciò nessuna confessione può essere la pienezza della verità universale, nessuna confessione può essere la verità in sé. (…) Una confessione è una professione di fede in Dio da parte dell’uomo, ma non è la verità piena rivelata da Dio»1.
Da qui la sua ulteriore considerazione sul fatto che se le formulazioni dogmatiche fossero state elaborate in ambiente cinese avrebbero avuto un carattere formale diverso.
Le formulazioni finali dei primi Concili furono effettuate essenzialmente da Vescovi orientali (a parte il caso del Concilio di Calcedonia il contributo teorico della Chiesa latina fu praticamente nullo), ed essi ben sapevano che non esiste proposizione dogmatica capace di esplicitare razionalmente al credente il contenuto della sua fede, bensì solo di approssimarlo a esso perché lo viva “apofaticamente”, cioè al di là delle parole e dei concetti. Quindi, in definitiva, si tratta di cifre simboliche dal valore di mappe basilari: e certo chi guarda una mappa non può dire aver visto il paesaggio.
Ciò nonostante un’ampia serie di componenti umane - poco spirituali e sovente ultranegative – ha fatto sì che i padri conciliari si sforzassero a spaccare il classico capello in quattro, a disquisire su singole parole e parolette dando a esse (cioè gli elementi della mappa) un valore capitale per le sorti del Cristianesimo. Eppure alla fine troviamo un corpus dogmatico redatto con la consapevolezza dei limiti sia delle parole sia della logica razionale, e quindi di tipo ben diverso dalla dogmatizzazione che in seguito caratterizzerà la Chiesa di Roma. A vincere fu una delle tentazioni subite da Cristo nel deserto: quella del potere.

Contrasti e lotte iniziarono pressoché subito dopo la vittoria
Nei primi secoli il Cristianesimo si era diffuso in assenza di uniformità di credenze, di riti, di Vangeli; in realtà esisteva un pluralismo estremo. Può sembrare paradossale, ma oggettivamente i tantissimi cristiani che andarono al martirio2 non erano affatto portatori della stessa fede religiosa; e molti di essi, se vissuti in temi successivi e con le stesse idee, sarebbero finiti implacabilmente condannati per eresia e – a partire da un certo momento - al rogo. Comunque almeno a partire dal II secolo cominciarono le controversie teologiche, e quindi la storia delle eresie. 
La parola "eresia" deriva dal greco éresis, dal verbo eréo, afferro, prendo, oppure scelgo; di modo che indica una scelta di credo e di appartenenza tra fazioni religiose contrapposte. Un'altra interpretazione riferisce il concetto di scelta all’accettazione solo di una parte di una dottrina che si pone come ufficiale (ovvero “ortodossa”) e al rifiuto di altre sue parti. Ponendosi come giusta, o corretta, la dottrina ufficiale, va da sé che quella “eretica” è erronea. In base a quest’ultima interpretazione l’eretico non è tanto chi la pensa in modo diverso, bensì chi lo fa in contrasto con un’impostazione precedente che – per la sua autorevolezza/ufficialità – deve essere accettata e condivisa se si vuole fare parte dello stesso gruppo religioso. Ne consegue che per definire correttamente “eresie” le concezioni cristologiche e trinitarie poi risultate soccombenti, non si può fare ricorso alla seconda interpretazione dell’eresia, giacché dovremmo necessariamente disporre di una preesistente, formale e ufficiale concezione ortodossa, in seguito rifiutata dagli eretici. Ma così non è stato. All’inizio fra i Cristiani esisteva una certa varietà di modi di intendere il Cristo e Dio, e a prevalere è stata poi la concezione di una parte del mondo cristiano, maggioritario, ma non preesistente in termini di compiutezza teorica e quindi terminologica, atteso che lo stesso vocabolario teologico dei vincitori per la corretta espressione della ortodossia si è formato proprio nel corso delle controversie dottrinali, seppure seguendo una coerente linea di sviluppo.
L’elenco delle controversie che hanno agitato il Cristianesimo delle origini è alquanto nutrito. Oltre alla lotta contro lo Gnosticismo (cristiano e non), abbiamo

a) il Docetismo= così denominata dal verbo greco dokéo (sembro), manifestatosi in varie forme dal I al IV secolo d. C.; negava che in Gesù esistesse un’effettiva natura umana; quindi altresì la sua sofferenza nella passione e sulla croce;

b) il Modalismo= del II-III secolo per il quale le tre Persone divine sarebbero aspetti (o modi) dell'unica divinità; può essere considerata una forma del monarchismo, che voleva difendere monarchia (ovvero l’unicità personale) di Dio e vedeva nella persona di Gesù un essere umano che ospitava una forza divina.

c) l’Adozionismo= accentuava l’umanità di Gesù subordinata alla potenza di Dio ed era affine al subordinazionismo, per il il Figlio era subordinato al Padre.

d) il Marcionismo= da Marcione (85-160 d.C.) fondatore di una propria Chiesa; esasperava la contrapposizione paolina fra Antico Testamento e Nuovo Testamento.

e) il Montanismo= movimento nato in Frigia per opera di Montano (ex sacerdote di Cibele) nella seconda metà del II secolo d.C.; era fortemente antiromano, dava grande importanza al profetismo, credeva nell’imminenza della parusia, e predicava l’ascetismo e il rigorismo soprattutto in materia sessuale; nella chiesa montanista, fortemente carismatica, importante era il ruolo dei profeti e delle donne.

f) il Novazianismo= dal nome dal presbitero (prete) romano Novaziano (?-258, scomunicato 251) che assunse una posizione intransigente verso i cosiddetti lapsi - cioè i cristiani che nel corso delle persecuzioni per salvarsi avevano sacrificato all’imperatore e poi volevano essere riammessi nella chiesa – in contrapposizione con la linea ufficiale delle gerarchie ecclesiastiche; il rigorismo di Novaziano si estese alla concezione della Chiesa, che per lui doveva essere costituita solo un sincero gruppo di spirituali, inevitabilmente in conflitto con la città terrena;
g) il Donatismo= dell’inizio del IV secolo, movimento originato da Donato Vescovo di Cartagine e sviluppatosi nell’Africa settentrionale traendo le mosse dalla critica nei confronti dei vescovi che si erano piegati alla persecuzione di Diocleziano. Secondo i Donatisti i sacramenti amministrati da costoro non erano validi, quindi se ne negava l’efficacia automatica dei sacramenti, facendola dipendere dal merito di chi li amministra. Il Donatismo fu anche veicolo rivoluzionario per forti rivendicazioni sociali, e i suoi seguaci si dettero alla lotta armata contro i proprietari terrieri. I Donatisti costituirono una Chiesa scismatica africana che si fece propagandista del martirio, organizzarono suicidi di massa buttandosi dai burroni o facendosi bruciare vivi. Furono dichiarati fuorilegge dall’imperatore Onorio, ma in concreto furono eliminati dall’invasione dei Vandali (nel 429) e poi da quella araba. Il loro grande e implacabile nemico ideologico fu Agostino d’Ippona;
h) il Priscillianesimo= dal nome dal Vescovo spagnolo Priscilliano (345 ca.- 385). Priscilliano fu messo a morte dalle autorità imperiali su denuncia degli altri Vescovi iberici, ma il suo movimento, diffusosi in Spagna e in Aquitania, a sopravvisse fino al VI secolo particolarmente Galizia3. Il Priscillianesimo predicava l’ascetismo estremo, condivideva un dualismo di tipo manicheo, era modalista in materia trinitaria e docetista in cristologia, e infine era portatore di rivendicazioni sociali.
i) il Pelagianesimo= diffusosi dopo il 410, a opera del monaco bretone Pelagio (354 ca.-427 ca.) in Africa ed in Palestina; fortemente ascetico nel quadro di una concezione eroica dell'uomo considerato libero dagli effetti del peccato originale e quindi capace di conseguire la salvezza con le sue sole forze. Pelagio esaltava la potenza del libero arbitrio e considerava la redenzione opetrata da Gesù come mero appello a compiere il bene. Anche lui ebbe in  Agostino d’Ippona il maggior nemico ideologico.
I fallimenti delle persecuzioni imperiali costituirono una sorta di momento della verità per tutte le parti in causa: l’Impero e la Chiesa cristiana: in buona sostanza, il regno di Dio non era arrivato né l’Impero romano era stato travolto dall’apocalisse finale; i Cristiani erano in numero considerevole e diffusi in ogni settore, esercito compreso; a questo punto – poiché per i rispettivi difensori dovevano continuare a esistere sia l’impero sia la chiesa – la ricerca di una stabile conciliazione fra le due istituzioni appariva meno paradossale rispetto al passato, e la stessa possibilità di un impero cristianizzato non era da escludere. Si tenga presente che proprio le persecuzioni imperiali avevano facilitato all’episcopato il compito di epurare dalle loro comunità le persistenti posizioni radicali e sovversive. Infatti, ancora nel III secolo – in una Chiesa tutt’altro che monolitica e in cui residuava una relativa libertà per esprimere le proprie opinioni – esistevano correnti che vagheggiavano la creazione di un’effettiva militia Christi dal carattere sovversivo e vedevano nei barbari germanici i futuri distruttori dell’impero. Ma alla fine l’originaria carica eversiva era stata per lo più dimenticata e c’era stato un completo ribaltamento di visuale: ora l’impero era considerato fondamentale supporto per lo sviluppo della predicazione, e la maggior parte dei teologi e dei vescovi ammettevano che i soldati al servizio dell’impero aderissero al Cristianesimo pur restando tali. La Chiesa cristianizzò anche la sempre più egemonica ideologia del potere imperiale orientata verso la teocrazia. 

Dopo la “pace di Costantino”
E alla fine vinse il Cristianesimo, con la cosiddetta pax constantiniana, cioè con l’editto di Milano del 313, che dette all’Impero la libertà religiosa ma che, per tragica ironia delle cose, dette l’avvio alle persecuzioni di segno contrario. Così, come spesso accade, le vittime precedenti diventarono zelanti carnefici. Per ragioni di opportunismo politico (giacchè assumere l’unità religiosa fra gli elementi idonei a cementare un impero che ne avesse efettivo bisogno, ha sempre fatto comodo ai potenti), Costantino privilegiò la Chiesa cristiana e quest’ultima potè dare corso alla persecuzione dei dissidenti (che erano davvero tanti) con il sostegno delle autorità imperiali. Con l’editto di Teodosio (356-395) del 380 – che attribuì al Cristianesimo il rango di religione ufficiale dell’Impero romano – le cose peggiorarono di molto per i dissenzienti. In siffatto contesto furono perseguitati anche gli scritti considerati apocrifi o eretici, e così andò perduto per quasi duemila anni un patrimonio spirituale e culturale di estremo interesse per gli storici, tra Vangeli apocrifi, gnostici e giudeo-cristiani. 
La cristologia si è collocata decisamente al centro delle riflessioni teologiche tra il IV e il VII secolo. Anteriormente dominava il profilo soteriologico della vita cristiana e le speculazioni teologiche erano scarse, o quanto meno non suscitavano adesioni di massa.
Tuttavia le oppressive condizioni sociali, economiche e politiche, rimaste inalterate dopo la vittoria del cristianesimo, erano tali da alimentare – sia pure nel solo ambito religioso rimasto attivo – le speranze di riscatto dei fedeli. Talché le eresie cristiane dei primi secoli sono state in vario modo la conseguenza di irrisolte contraddizioni tra le aspettative teoriche mantenutesi in vita e le realizzazioni pratiche. I contrasti teologici si intrecciarono certamente con esigenze delle masse popolari (esigenze di liberazione), ma anche con gli interessi di forti gruppi politici ed economici i quali o erano rivali dei poteri dominanti e dell’impero centralista, oppure puntavano a mantenervi o insediarvi il proprio potere. Da questo intreccio derivò che sul piano politico/sociale le eresie cristologiche non riuscirono a esprimere appieno le esigenze che volevano la liberazione dallo sfruttamento sociale, egemonizzate come furono dai gruppi sopra citati che, rispetto al potere centralistico dell’impero, puntavano a conseguire maggiore autonomia decisionale, ma non certo maggiore democrazia, soprattutto sociale ed economica. Di modo che, alla fine dei conti, le cosiddette eresie presentarono un carattere eversivo solo verso i poteri costituiti in mani altrui, ma non furono davvero rivoluzionarie, come lo era stato il movimento di Gesù in Palestina. Per qualcosa di analogo bisognerà attendere i movimenti “pauperistici” del Medio Evo occidentale.
Non è quindi casuale che nemmeno le più combattute e virulente eresie cristologiche abbiano mai messo seriamente in discussione, o in pericolo, gli assetti dominanti. Finite sullo sfondo le aspirazioni sociali, poi occultate da un dibattito collocatosi sul solo piano strettamente religioso, a prescindere dalle soggiacenti rivendicazioni di classe, avvenne che le posizioni cristologiche considerate eterodosse conseguirono un seguito di massa (notevolissimo in Mesopotamia, Siria ed Egitto) sulla cui genuinità religiosa è lecito dubitare a posteriori, tant’è che l’effettivo grado di tenuta religiosa e spirituale di queste genti si dimostrò non già all’epoca dei conflitti con l’Impero bizantino, bensì quando in quei territori irruppero gli Arabi islamici. Infatti, a parte il caso degli Armeni, in Egitto e nella Mezzaluna Fertile i Cristiani monofisiti e nestoriani sono da tempo solo piccole minoranze (per la verità i copti egiziani stanno fra il 10 e il 20% della popolazione) mentre una volta erano la stragrande maggioranza. 
La barbarie da cui era stata travolta la parte occidentale dell’Impero romano aveva coinvolto anche le Chiese locali, e per conseguenza esse non solo dettero uno scarso contributo all’elaborazione teorica nel corso delle controversie cristologiche, ma altresì in seguito solo parzialmente “metabolizzarono” i risultati dei Concili cristologici, quand’anche la Chiesa occidentale abbia fatto formaolmente parte dello schieramento vincitore, denominato poi ortodossa ed egemonizzato dalla Chiesa di cultura greca. La corrente vincitrice e fondamentalmente orientale – a cui si deve la formulazione dei dogmi cristologici e trinitari, mercè il ricorso spesso audace  e innovativo a categorie filosofiche greche - si caratterizzava per lo sviluppo di una linea volta a difendere esigenze tra di loro collegate: a) un equilibrio non subordinazionista tra Dio Padre, Figlio e Spirito Santo; b) un equilibrio tra divino e umano nella figura di Gesù il Cristo; c) definirlo, per quanto possibile, in termini tali da eliminare ogni impostazione considerata suscettibile di poter fare sviare la vita della chiesa e dei fedeli dall’obiettivo finale della vita cristiana: la divinizzazione totale dell’essere umano e del cosmo per Grazia, e non già una vaga salvazione ottenuta per meriti morali. Come ha rilevato Carl Gustav Jung, nell’attività dei primi sette Concili ecumenici
«le allusioni alla Trinità divina degli scritti neotestamentari (...) furono portate in modo del tutto conseguente fino all’omousia»4.
Contro gli gnostici questa corrente ha riaffermato l’incontro tra umano e divino nella chiesa senza intellettualismi sincretici; contro Ario ha difeso la consustanzialità delle tre persone della Trinità, e in particolare del Lógos, in quanto incontro tra umano e divino mediante la sua incarnazione; contro Nestorio ha respinto il pericolo dell’eventuale separazione fra divino e umano nel Cristo; contro il Monofisismo l’opposto pericolo della scomparsa dell’umano nel divino; contro il compromesso monotelita ha dato valore alla volontà umana del Cristo; e infine contro gli Iconoclasti ha difeso la possibilità di raffigurare simbolicamente l’umanità trasfigurata del Cristo riaffermando la raggiungibilità della trasfigurazione totale per ogni essere umano.  
Tale linea è stata argomentata e difesa da una folta serie di Padri della Chiesa: da Clemente di Alessandria (150-215) a Origene (185-255), da S. Atanasio (293-373) a S. Basilio (330-379), da S. Gregorio di Nazianzo (328-390) a S. Gregorio di Nissa (325-399), da S. Cirillo di Gerusalemme (315-386) a S. Giovanni Crisostomo (344-407), da S. Cirillo di Alessandria (370-444) a Evagrio Pontico (345-399), da S. Macario d’Egitto (sec. V) a S. Giovanni Climaco (525-605), da Dionigi lo pseudoareopagita (sec. VI) a S. Massimo il Confessore (580-662).
Il problema delle relazioni fra il Padre, il Figlio e lo Spirito, non è certo nato a ridosso del I Concilio ecumenico. La dimenticata Didaché – forse il primo testo cristiano, di poco anteriore o coevo alla prima redazione dei Vangeli – già conteneva una formula battesimale trinitaria. La questione ha cominciato a essere affrontato fin dal II secolo, e l’elaborazione teorica si è svolta con le limitazioni date innanzi tutto dall’esigenza di mantenersi nel quadro del monoteismo e – per quanto riguarda la componente ecclesiale che risulterà vincitrice - di rappresentare tali relazioni in termini di equilibrio accettabile. Si trattava di definizioni trinitarie prive però del supporto di una meditata e coerente terminologia, sovente col rischio (tutt’altro che teorico) di sostenere un vero e proprio triteismo.
Per cercare di mettere un po’ d’ordine nel guazzabuglio teologico che si avviava a diventare sempre più inestricabile furono necessari ben sette Concili ecumenici (da ikuméne, participio del verbo iko, abitare; indicava la parte abitata e conosciuta della Terra): I Concilio di Nicea ((325)= portò alla condanna di Ario e alla definizione del Figlio di Dio incarnato come “consustanziale al Padre”; I Concilio di Costantinopoli (381)= definì le questioni della controversia ariana lasciate irrisolte dal primo Concilio e promulgò il simbolo della fede, detto Credo niceno-costantinopolitano; Concilio di Efeso (431)= condannò le tesi cristologiche di Nestorio negando la coesistenza in Cristo di due persone (il Logos e Gesù) e affermando che nell’unica persona (ipóstasis) del Lógos sono unite natura divina e natura umana; con questo conferendo legittimità al titolo di “Madre di Dio” dato a Maria; Concilio di Calcedonia (451)= proseguendo nella chiarificazione cristologica e respingendo le tesi dette “monofisite” (che non distinguevano in modo appropriato fra natura e persona) secondo cui l’unica persona di Cristo avrebbe una sola natura, quella divina; il concilio affermò che nell’ipostasi del Logos le due nature – la divina e l’umana – sono unite senza confusione e senza distinzione; II Concilio di Costantinopoli (553)= detto anche “dei Tre Capitoli”, condannò gli scritti di Teodoro di Mopsuesta (maestro di Nestorio), di Teodoreto di Cirro e di Iba di Edessa, sospetti di tendenze nestoriane, nonché di Evagrio Pontico; ciò nel tentativo di dimostrare meglio ai monofisiti che la formula di Calcedonia non era affine al nestorianesimo; III Concilio di Costantinopoli (680)= condannò il “monotelismo”, secondo cui unica era la volontà del Cristo: quella divina; affermò quindi l’esistenza di una volontà umana nel Cristo oltre a quella divina; II Concilio di Nicea (787)= muovendo dalla realtà dell’Incarnazione, definì la dottrina sulle sacre immagini, le icone, come oggetto di venerazione, opponendosi alle dottrine iconoclaste, che erano una specie di sintesi fra il residuo di un certo monofisismo e influssi ebraici e islamici.
Come meglio si dirà in seguito, queste controversie cristologiche si intrecciarono di frequente, e con una certa incisività, con questioni politiche. Questo portò sia all’esasperazione dello scontro teologico, sia all’aggravarsi della debolezza interna ed esterna dell’impero, con ricadute in oriente come in occidente.
Uno dei primi simboli della fede, redatto tra il II e il IV secolo, fu il c.d. Simbolo degli Apostoli (così detto ritenendosi per tradizione che risalisse proprio ai Dodici) in cui si esprimeva la credenza
«in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra. E in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore, il quale fu concepito da Spirito Santo, nacque da Maria Vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò da morte; salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente; di là verrà a giudicare i vivi e i morti. Credo nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei Santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne, la vita eterna».
In teoria ci si poteva fermare qui, con una formula in linea con la generica impostazione neotestamentaria e tutto sommato priva di problemi di comatibilità con il monoteismo. Qui, come ha notato Jung, la Trinità era solo latente, e non esplicita5. Ma l’esigenza di esplicitazione si fece sempre più forte e un minimo comune denominatore accettabile pressoché da tutti non bastava; con ciò sancendosi la fine dell’unità del mondo cristiano, e il sorgere di lotte implacabili e di persecuzioni, anche sanguinose, contro i dissidenti. Con l’aggravante storico/politica che, senza il clima di forte inimicizia in tal modo ingeneratosi, forse si sarebbe potuto contenere l’espansione islamica nella parte orientale dell’Impero e nell’Africa settentrionale.
Sul piano delle formulazioni un passo avanti rispetto al Simbolo degli Apostoli si è avuto con c.d. Simbolo di Gregorio Taumaturgo (210-270), che egli sostenne essergli stato comunicato (niente di meno) dalla Vergine Maria e dall’evangelista Giovanni:
«Un Dio, Padre del Lógos vivente, della sapienza e virtù per sé esistenti, della eterna immagine, perfetto generatore del perfetto, Padre del Figlio unigenito. Un Signore, unico dall’unico, Dio da Dio, immagine ed effige della divinità, lógos operante, sapienza che abbraccia l’esistenza del tutto, virtù creatrice di tutto il creato, vero Figlio del vero Padre, invisibile dell’invisibile, imperituto dell’imperituro, immortale dell’immortale, eterno dell’eterno. E uno Spirito Santo, che ha la sua esistenza da Dio ed è apparso attraverso il Figlio, effige del Figlio, perfetta del perfetto, causa delle cose viventi, santità, corifeo dei santi, in cui appare Dio Padre, che è sopra tutto e in tutto, e Dio Figlio che è da per tutto. Triade perfetta, non divisa e non diversa in gloria, eternità e potenza».
I nodi vennero al pettine con la cosiddetta controversia ariana.

Ario di Alessandria e il I Concilio di Nicea
A portare alla convocazione del primo Concilio ecumenico fu la diffusione delle tesi di Ario (256-336), un colto prete di Alessandria formatosi però in Antiochia, località che – oltre alla città egiziana - era sede di una delle più importanti scuole teologiche dell’epoca. Ario cercò di elaborare il problema trinitario in modo filosoficamente più colto, con l’uso di categorie aristoteliche e neoplatoniche, per mantenere un monoteismo rigoroso, seppure non escludente il pluralismo metafisico. In Alessandria i grandi nemici di Ario furono il vescovo Alessandro (che pure in passato era stato subordinazionista) e S. Atanasio (295-373).
Il pensiero di Ario sul Lógos è sintetizzabile in sei punti: non coesiste col Padre, è stato da Lui creato dal nulla, la sua natura non procede dal Padre, è stato creato per volontà del Padre e subisce mutamenti, e preesistente rispetto alla creazione. Figlio di Dio secondo la Grazia ma non secondo l’essenza, che restava creatura e quindi mutevole. Spesso si trova scritto che Ario avrebbe ridotto il Cristo a un semplice essere umano, ma questo non è esatto in quanto Ario negava l’esistenza di un’anima umana in Gesù, sostenendo che era stata sostituita dal Lógos. Ario per le sue teorie entrò in contrasto con il vescovo di Alessandria d’Egitto, Alessandro, e la questione diventò subito della massima importanza perché strettamente legata al problema soteriologico, cioè al problema di determinare in cosa consistesse l’esito salvifico reso possibile dall’Incarnazione, Passione, Morte e Resurrezione di Cristo e dalla Pentecoste. Inoltre, l’impostazione di Ario collocava il problema dei rapporti fra le tre Persone fondamentalmente sul piano dell’esistenza, senza però coordinarlo con i profili inerenti all’essenza e alle relazioni d’origine. Con ciò esponendosi fatalmente all’accusa di aver pensato a un “tempo” in cui il Logos non c’era.
L’esponente di punta della reazione a Ario fu S. Atanasio (293?-373), che affermò quale fondamento e punto di arrivo della salvezza l’incontro fra Dio e l’uomo, la divinizzazione – per Grazia – dell’essere umano, l’acquisizione della divino-umanità da parte di ciascuna persona.
Nel 318 un sinodo locale aveva escluso Ario dalla Chiesa, ma non per questo era diminuito il numero dei suoi sostenitori, tanto che di fronte all’aggravarsi dei contrasti all’interno infraecclesiali l’imperatore Costantino convocò un Concilio ecumenico nella città anatolica di Nicea (oggi la turca Iznik). Vi parteciparono 318 vescovi, quasi tutti orientali6. In quel tempo Costantino non era nemmeno cristiano, ma la sua iniziativa si spiega con motivazioni giuridiche e politiche. In merito alle prime, non vi è dubbio circa l’incidenza della concezione romana che faceva rientrare anche le questioni religiose nello ius publicum; in ordine alle seconde, c’è il fatto che la controversia ariana costituiva un concreto e rilevante ostacolo al suo progetto politico di impero universale cementato da uniformità religiosa; e per il conseguimento di questo obiettivo egli puntava su una forte e unita chiesa cristiana. Cominciava un fenomeno che sarebbe stato costante nella storia successiva: la strumentalizzazione politica del Cristianesimo, poi proseguita con connubi di vario genere fra trono e altare.
La scarsa adesione sostanziale al Cristianesimo da parte di Costantino potrebbe essere tacciata di opportunismo, ma si tratterebbe di una valutazione semplicista. Come uomo del suo tempo, infatti, Costantino risentiva di un certo sincretismo diffuso, per il quale l’adesione a più culti non era una contraddizione. E non a caso questo futuro santo (per motivi di politica ecclesiastica, stanti loe nefandezze dell’uomo) partecipava anche a riti pagani e in particolar modo a quelli in onore del Sole.
Al Concilio prevalse Atanasio con la definizione del Figlio di Dio quale generato e consustanziale (omoúsios) al Padre, con 300 voti a favore (la formula di Ario lo considerava invece omiúsios, cioè di sostanza simile). Come si vede, mentre il Simbolo degli Apostoli si limitava ad affermare che il Cristo era figlio di Dio, a Nicea si cominciò ad andare nello specifico, utilizzando un bagaglio terminologico ricavato dalla filosofia greca.
Il primo Concilio non si svolse affatto in un clima sereno e fraterno, anzi fu abbastanza turbolento, e sembra che sia degenerato al punto che il vescovo di Mira, Nicola (più noto poi come S. Nicola di Bari) trascese fino a prendere a schiaffi Ario7.  
Le decisioni consiliari non valsero comunque a porre fine alla questione ariana, che anzi ne risultò aggravata anche per le pesanti interferenze del potere imperiale. Tornati nelle loro sedi, alcuni vescovi cominciarono ad allontanarsi (vuoi formalmente, vuoi sostanzialmente) dalla professione di fede del Concilio, di modo che si formarono due “partiti teologici” presto influenzati dalle lotte per il potere nell’Impero. La fazione ariana rialzò la testa, e l’omoúsios diventò il perno delle controversie teologiche e causa di reciproche accuse di eresia tra vescovi e rispettive Chiese. Inutile negare l’esistenza di ragioni di politiche esistenti sullo sfondo di questa controversia cristologica.
Anche nei momenti di maggiore intensità dello scontro Ario mantenne una superiorità morale sui suoi avversari. Si racconta che alcuni suoi discepoli gli proposero di dichiarare guerra agli Ortodossi, contando sul fatto che le popolazioni berbere in maggioranza avevano accettato la sua fede. Ma Ario rispose:
«Non fatevi uccidere per le mie opinioni. Potrei avere torto! A nessun uomo è dato il privilegio di non sbagliare»!
Egli non aveva probabilmente ben compreso quale fosse lo spirito dominante nel Concilio (che rimarrà in quelli successivi): l’obiettivo della maggioranza non era quello di arrivare a risultati che tutelassero l’unità orizzontale della Chiesa; bensì a perseguire in primo luogo i criteri di verità su cui fondare poi l’unità ecclesiale. Cosicché la controversie in questione vanno intese come la lotta fra una componente della Chiesa e le altre di differente orientamento, di volta in volta scese in campo, con l’ovvio entrare in gioco di interessi materiali e volontà di potere.
Nella controversia ariana fu importantissimo, costante ed eccessivo l’intervento di Costantino. Sempre nel 325, pur essendo ancora pagano, egli nsi faceva chiamare isapóstolos, cioè “pari agli apostoli”, e “vescovo di coloro che sono fuori dalla Chiesa”. Contrario per i suoi fini politici a qualunque forma di dissenso religioso nell'ambito del cristianesimo, con perfetto realismo politico si avvalse a proprio profitto di Sinodi e Concili, e toccava a lui, in ultima istanza, decidere se approvare o no le deliberazioni di quelle assisi vescovili. Interferiva sulla nomina dei vescovi ed a tal punto era arrivato il suo potere anche sulla Chiesa che “eretici” e ortodossi gli si rivolgevano perché dirimesse le loro controversie. Salvo poi, in caso di responso sfavorevole, lamentarsi per l’ingerenza imperiale. A Nicea Costantino ratificò le decisioni conciliari perché percepiva una maggioranza avversa ad Ario; esse furono approvate con solo due voti contrari. Ma si trattava di una maggoranza fittizia poiché lo stesso Costantino aveva fatto pressioni per ottenere una netta maggioranza da poter poi “giocarsi politicamente”. Tant’è che molti vescovi che avevano votato contro Ario tornati alle loro sedi cambiarono atteggiamento. Alcuni ripudiarono apertamente la formula nicena, ma vennero sostituiti d’imperio, e questo scatenò proteste a non finire.
Poi Costantino – questa è una pagina della sua storia che l’apologetica ufficiale tende a occultare – cominciò a rettificare le sue posizioni, e non certo per motivazioni teologiche. Infatti si rese conto che l’Arianesimo in quella fase era assai forte nelle provincie orientali e che la turbolenza scatenatasi fra Ortodossi e Ariani non era affatto proficua per i suoi disegni. Inoltre da un punto di vista politico/ideologico egli si andava persuadendo che la dottrina ariana, subordinando il Cristo a Dio, poteva fungere da presupposto (con alcuni aggiustamenti) per arrivare a subordinare, e non solo de facto, la Chiesa al potere imperiale. Costantino cominciò quindi a spostare il suo favore verso Ario e gli Ariani. Su questa via, però, c’era da eliminare un ostacolo: l’immenso prestigio conseguito tra gli Ortodossi da Atanasio di Alessandria per la battaglia da lui condotta contro Ario; prestigio che gli aveva guadagnato nel 328 il patriarcato alessandrino. Qui si colloca lo svolgimento del concilio di Tiro, che i più ignorano.
Nel 327 Costantino aveva fatto riabilitare Ario da un secondo sinodo niceno, mediante una formula cristologica sottoscritta dallo stesso Ario, considerata ortodossa da Costantino mentre per i niceni era imperfetta. Conseguentemente l’imperatore intimò ad Atanasio di riammettere Ario nella chiesa e di restituirgli la parrocchia ad Alessandria. Atanasio, ormai bandiera degli Ortodossi, ovviamente rifiutò e l’imperatore convocò nel 335 un concilio a Tiro, che “opportunamente” fece presiedere da un suo dignitario di corte. Questa volta furono gli Ariani a trionfare: Atanasio fu esiliato a Treviri, Costantino richiamò Ario dall’esilio e lo invitò a Costantinopoli. Ma Ario morì a 80 anni prima di potersi godere il trionfo preparatogli dai suoi seguaci.
Con l’esilio di Atanasio e l’attiva ostilità del potere imperiale contro i suoi sostenitori, e con l’Arianesimo in forte espansione nelle province orientali di lingua greca, sembrava superata la parentesi nicena. In più Costantino in punto di morte8 si era fatto battezzare, ma (cosa meno nota) da un vescovo ariano! La tendenza ariana poteva essere quindi considerata da taluni dei suoi successori come la sola legittima nella Chiesa. Gli autoritativi interventi dei successori di Costantino, tra cui non mancarono imperatori – per esempio Valente (328-378) – accesi fautori dell’Arianesimo, servirono solo ad aggravare la situazione tra Ariani e Ortodossi.
La controversia ariana fu anche alla base della prima grande divaricazione religiosa tra la parte occidentale e quella orientale dell’Impero romano. Quando le caotiche vicende inerenti alla lotta fra i reggenti delle due parti dell’impero dettero la vittoria all’imperatore d’Oriente, nel 359 i sinodi di Sirmio e Rimini proclamarono la versione ariana delCcristianesimo religione di Stato.
Gli scontri fra queste opposte fazioni, e i tumulti da esse suscitati, turbavano di frequente l’ordine pubblico, ed é rimasto famoso il caso di un ufficiale di cavalleria che, inviato dall’imperatore a riportare l’ordine a Costantinopoli, fu travolto con i suoi dalla folla, ebbe la casa devastata e incendiata e morì linciato da “cristiani” inferociti. Pochi sanno che in materia di rapporti interreligiosi gli Ariani furono i più aperti e liberali (troppo per quei tempi, e forse anche per oggi). Riassume la loro posizione questa frase del loro vescovo Agila:
«non reca danno a nessuno se si passa davanti a un altare pagano e a una chiesa, e si manifesta la propria devozione all’uno e all’altra».
Le cose si erano complicate vieppiù in quanto durante la fase della lotta politica in cui aveva prevalso l’Imperatore d’Occidente e gli Ariani sembravano travolti dalla sconfitta del loro protettore di Costantinopoli, si era formata una corrente ariana moderata che – pur restando ostile ad accettare la consustanzialità tra il Padre e il Figlio, sancita a Nicea – era tuttavia disposta a fare propria la tesi di compromesso basata sull’analogia (omiusía) tra queste due Persone. Senza che con questo si arrivasse a nessuna composizione dei contrasti: semplicemente si era formata una fazione in più. Essa a sua volta subì una scissione, perché a un certo punto una parte degli aderenti si avvicinò alle tesi nicene. Come intermezzo ci fu poi la parentesi data dal tentativo dell’imperatore Giuliano (dal 361 al 363) di dare vita alla restaurazione del Paganesimo.
Ci fu un tentativo di mediazione che si espresse attraverso il suggerimento di ricorrere al diverso termine di omioúsios che avrebbe dovuto fare da ponte fra le due opposte concezioni; ma esso fu nettamente respinto dai sostenitori delle tesi nicene. Ci fu anche l’insegnamento di Aezio di Antiochia e del suo più noto discepolo Eunomio, che radicalizzò la posizione di Ario, privando lo Spirito delle connotazioni divine e facendone un ministro del Figlio. Gli Ariani, infine, insistevano sulla psicologia umana di Gesù per sostenerne l’inferiorità rispetto al Padre. Eunomio fu il radicalizzatore delle posizioni espresse da Ario, e con i suoi scritti innescò una controversia con i niceni terminata solo verso la metà dell’VIII secolo. A lui si deve un’impostazione della teologia ariana più sistematica, ma questo accadde proprio quando per l’Arianesimo iniziava la fase discendente. Infatti è del 380 l’editto di Teodosio il Grande che fece del cristianesimo niceno la religione ufficiale e obbligatoria dell’impero. E nel 398 l’imperatore Arcadio ordinò la damnatio memoriae di Eunomio. 
Per i posteri i sostenitori di Ario non hanno nome né volto, come si addice agli sconfitti ormai scomparsi dalla scena. Eppure fra essi vi furono illustri vescovi, come gli illirici Germinio di Sirmio, Valente di Mursa e Ursacio di Singidunum, il gallo Saturnino di Arles e infine Aussenzio di Milano (precedecessore del più noto S. Ambrogio). Dei loro scritti non è rimasto praticamente nulla, a parte notizie e qualche frammento, per lo più attraverso gli scritti polemici di autori antiariani, in primis Ilario di Poitiers (315-367). La seconda fase della crisi ariana, dopo il 380, coincise in occidente con la conversione al Cristianesimo di popoli germanici invasori ad opera di missionari ariani. E a questo periodo risalgono le maggiori testimonianze. Non si può non ricordare il vescovo Wulfila (m. 383), che tradusse la Bibbia in gotico e convertì i Goti al Cristianesimo ariano; e Massimino, che operò fra la Dalmazia e l’Africa, e a cui risale una raccolta di documenti ariani intitolata Dissertatio Maximini contra Ambrosium, del 383. Nel 428, a Ippona, lo stesso Massimino affrontò Agostino in una pubblica discussione di cui si conserva un resoconto.
La reazione teologica alla questione ariana e alle conseguenze da essa suscitate, direttamente e indirettamente, si incentrò sul convergere di due fattori: sul piano politico, nel 378 la morte in battaglia contro i Visigoti dell’imperatore Valente, grande protettore degli Ariani, poi l’azione dell’imperatore Teodosio I (347-395) e, sul piano dottrinale, il contributo dei cosiddetti Padri cappadoci: S. Basilio il grande (329-379), S. Gregorio di Nazianzo (330-389) e S. Gregorio di Nissa (335-396). Ne derivò uno sviluppo ulteriore nel processo di formazione del vocabolario e dell’ideario teologico cristiano. Per iniziativa di Teodosio si giunse nel 381 al I Concilio di Costantinopoli per condannare la tesi dell’ariano Macedonio (m.362) che negava la divinità dello Spirito Santo; prevalsero definitivamente le tesi nicene, e in quest’occasione fu definito il simbolo di fede della Chiesa – il Credo detto niceno-costantinopolitano. Eccone il testo; in neretto sono evidenziate le parti aggiunte con l’occasione all’originaria formulazione approvata a Nicea:
«Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili ed invisibili. Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli:[Dio da Dio], Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto. Il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture, è salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine. Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, e procede dal Padre. Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti. Credo la Chiesa, una santa cattolica e apostolica. Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati. Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen».
Anche questo Concilio si svolse in un turbinio di odi e rancori, tanto che S. Gregorio di Nazianzo – diventato patriarca di Costantinopoli aveva presieduto la seconda parte del Concilio – in una lettera scrisse che:
«Temo i Concili, non ne ho mai visto alcuno che abbia fatto più bene che male, e che abbia avuto una buona riuscita: lo spirito polemico, la vanità, l’ambizione vi dominano; colui che vuole riformare i maliziosi si espone a essere a sua volta accusato senza averli corretti ».
Infatti al Concilio lui stesso ricevette l’accusa di occupare illegittimamente la sede patriarcale, in quanto vescovo di Sasima. Da quella assise, anch’essa tutt’altro che fraterna a caritatevole, Gregorio uscì stremato e deluso, tanto che nel 381 abbandonò il Concilio (al suo posto fu eletto presidente Nettario). Nei suoi Discorsi Gregorio scriverà:
«Lasciatemi riposare dalle mie lunghe fatiche, abbiate rispetto dei miei capelli bianchi (...). Sono stanco di sentirmi rimproverare la mia condiscendenza, sono stanco di lottare contro i pettegolezzi e contro l'invidia, contro i nemici e contro i nostri. Gli uni mi colpiscono al petto, e fanno un danno minore, perché è facile guardarsi da un nemico che sta di fronte. Gli altri mi spiano alle spalle e arrecano una sofferenza maggiore, perché il colpo inatteso procura una ferita più grave (...) Come potrò sopportare questa guerra santa? Bisogna parlare di guerra santa così come si parla di guerra barbara. Come potrei riunire e conciliare questa gente? Levano gli uni contro gli altri le loro sedi e la loro autorità pastorale e il popolo è diviso in due partiti opposti (...). Ma non è tutto: anche i continenti li hanno raggiunti nel loro dissenso, e così Oriente e Occidente si sono separati in campi avversi»9.
Anche in questo concilio si ebbe un pesante intervento imperiale: Teodosio proibì le riunioni religiose ai Cristiani che non ne accettassero le decisioni, arrecando così un colpo terribile agli Ariani in oriente. L’Arianesimo – prima fortissimo in quelle zone - in breve si ridusse a contare solo sulle popolazioni barbare convertitesi al Cristianesimo nella sua versione ariana all’epoca degli imperatori Costanzo (317-361) e Valente. Questi barbari rimasero ariani solo per altri due secoli.


1Pensieri controcorrente, La Casa di Matriona, Milano 2007, p. 104.
2A parte quella di Nerone, gli Imperatori che dettero il via a persecuzioni anticristiane furono: Domiziano (96) con una persecuzione, breve ma di estrema violenza. I cristiani vennero uccisi a migliaia a Roma e in Italia. L’Apostolo Giovanni sarebbe stato inviato in esilio a Patmos. Traiano (98-117), che considerò il Cristianesimo illegale perchè i Cristiani rifiutavano il culto dell’Imperatore. Durante il suo regno fu ucciso nel 107 Simone, fratello di Gesù e secondo vescovo di Gerusalemme. Adriano (117-138) perseguitò i Cristiani, ma con moderazione. Marco Aurelio (161-180), come Adriano, considerava il mantenimento della religione di stato come una necessità politica, ma contrariamente a questi, incoraggiò la persecuzione dei Cristiani che fu delle più dure. Settimio Severo (193-211) attuò una persecuzione pesante ma non generalizzata e colpì particolarmente in Egitto e Africa settentrionale. Persecutori furono anche Massimino (235-238) e Decio (249-251). L’azione di quest’ultimo si estese a tutto l'Impero romano e fu molto violenta. Valeriano (253-260) puntò alla completa distruzione del Cristianesimo. Diocleziano (284-305) fu promotore dell’ultima ma più terribile persecuzione, e riguardò tutto l'Impero per 10 anni.
3Riscuote un certo credito la tesi di quanti hanno sostenuto e sostengono che la salma venerata dai Cattolici al santuario di Santiago de Compostela non sia dell’Apostolo Giacomo il Maggiore, bensì proprio di Priscilliano. Se così fosse ci troveremmo di fronte a una stupenda ironia della storia: l’inconsapevole venerazione di un “eretico” da parte dei pii cattolici!
4C.G. Jung, Saggio d’interpretazione psicologica del dogma della Trinità, in La simbolica dello spirito, Einaudi, Torino 1975, p. 222.
5C.G. Jung, op. cit., p. 223.
6Da occidente giunsero solo 5 rappresentanti: dall’Italia Marco di Calabria, dall’Africa Ceciliano di Cartagine, dalla penisola iberica Osio di Cordova, dalla odierna Francia Nicasio di Digione, e dalla provincia del Danubio Domno di Stridone. Il vescovo di Roma, Silvestro I, rifiutò di partecipare per protesta contro la convocazione fatta dall’Imperatore.
7Il primo a parlare di questi schiaffi è stato Pietro de Natalibus nel suo scritto del XIV secolo Catalogus sanctorum et gestorum eorum ex diversis voluminibus collectus, Lugduni 1508. 
8“Accortamente” Costantino aspettò l’ultimo momento della vita per farsi battezzare, perché se è vero che il battesimo toglie tutti i peccati in precedenza commessi, avendo egli collezionato una fitta serie di crimini e di peccati, e non essendo più in grado di commetterne altri …
9Discorsi, 42, 20-21.

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