Nel mondo di lingua araba a una “primavera” troppo precipitosamente
proclamata dai media occidentali, e
da essi stucchevolmente ripetuta, è seguita la stagione delle grandi e
devastanti piogge. Gli scrosci sono le gesta a tutto campo dell’estremismo
islamico, che notoriamente fu istigato e armato dagli apprendisti stregoni
statunitensi in funzione antisovietica ed è a tutt’oggi sovvenzionato
dall’Arabia Saudita, il primo Stato islamico integralista dell’epoca
contemporanea.
L’integralismo islamico, ormai saldamente impiantato nello Yemen, si sta
radicando nell’Africa subsahariana (a partire dal Mali), massacra in Nigeria e
sta trovando nuove forze nella guerra civile siriana. Qui ci occupiamo della
Siria, rimandando ad altra occasione il discorso sull’Islam subsahariano e
sulle complessità specifiche dell’area in cui opera.
Il mosaico etno-religioso siriano
Per fornire una miglior cornice alle riflessioni che seguono è necessario
avere ben presente quale sia in Siria la complessità etno-religiosa. Forse in
un’ottica in cui la religione fosse equivalente solo di “fatto religioso”, e
l’etnia solo di “fatto etnico”, si dovrebbe parlare di complessità religiosa ed
etnica. Tuttavia, a motivo dei fortissimi vincoli comunitari esistenti fra gli
appartenenti alle varie confessioni religiose siriane, che si intrecciano ai
vincoli tribali-famigliari e sulla base delle identità-distinzioni sono la base
della dialettica “noi/gli altri”, sì da far assumere ai gruppi religiosi
connotazioni assimilabili a quelle etniche, abbiamo preferito disporre gli
aggettivi nel modo suddetto. Per capire come tutto questo incida
sull’organizzazione sociale, e sulle esistenze individuali, si ricordi
l’assoluta “normalità” dell’esistenza di quartieri urbani e villaggi separati. L’eccezione
sono le convivenze in aree “miste”.
La popolazione della Siria è in maggioranza (90%) di discendenti degli
antichi Aramei, arabizzati da molti secoli; a nord-est c’e una minoranza curda
di un certo rilievo (9% circa); a ovest una piccola rappresentanza armena (1%?)
e alcuni turcomanni e circassi.
Più composito è il panorama delle confessioni religiose. Qui sta il vero
mosaico. Almeno il 74% della popolazione (74%) è musulmana sunnita, che considera
o eterodossi o eretici tout court le
altre confessioni musulmane. E in Siria un buon 13% della popolazione
appartiene a questo mondo discriminato dai Sunniti: abbiamo gli Alauiti, che
formano un ramo specifico dello Sciismo, detengono il potere con la famiglia
degli Assad e costituiscono lo zoccolo duro delle Forze Armate; gli Sciiti
detti Duodecimani (come in Iran e Iraq); a sud i Drusi, sulla cui ereticità
anche i simpatizzanti devono convenire; gli Sciiti Ismaeliti (il cui capo è
l’Agha Khan).
Vi è poi un 10% di Siriani per lo più appartenenti alle Chiese orientali
(sono presenti essenzialmente nel nord): per metà fanno parte della Chiesa
Ortodossa (Patriarcato di Antiochia), ma ci sono anche quelli delle Chiese
Ortodossa Siriaca, Apostolica Armena, Assira, piccole minoranze protestanti, e
Cattolici di vario rito (Melchiti, Maroniti, Siri, Armeno-cattolici, Caldei). Gli
Ebrei rimasti sono poche decine a Damasco e Aleppo.
La distribuzione degli elementi del suddetto mosaico risulta dalla mappa.
Il labirinto politico siriano
Il regime di Bashar al-Assad, dopo aver dato una risposta solo militare
alle contestazioni di piazza essenzialmente non violente, ma senza porvi fine,
si è poi trovato a fronteggiare una vera e propria rivolta armata tradottasi in
guerra civile. A questo punto il regime di Damasco non ha saputo, o non ha
potuto, infliggere alle opposizioni armate un colpo di maglio del tipo di
quello - terrificante, spietato, di brevissima durata ma decisivo - dato nel
1982 dal vecchio Hafez al-Assad, alla città di Hama, centro dell’integralismo
dei Fratelli Musulmani siriani, che avevano iniziato azioni armate contro il
regime. Oggi fare il bis non è più possibile, con le due maggiori città della
Siria – Damasco e Aleppo – trasformate in campi di battaglia, e la defezione di
una parte dell’esercito. Oggi al-Assad sembra contrattaccare, più che attaccare
dove vuole lui, ed aumenta per i suoi avversari il margine di scelta dei luoghi
dello scontro.
I profughi sono ormai centinaia di migliaia, l’economia siriana è da tempo
in ginocchio, il paese è nel caos, i livelli di odio e ferocia reciproca sono
alle stelle, e non si vede una via d’uscita realistica. In più alla frontiera
settentrionale la Turchia riscalda i muscoli (vedremo il perché in seguito),
elementi delle solite forze speciali statunitensi sono all’opera nelle zone
controllate dai ribelli, e questi ultimi sono armati e finanziati da due
alleati arabi degli Usa, l’Arabia Saudita e il Qatar onnipresenti dovunque
l’integralismo islamico possa impiantarsi e propagarsi.
I ribelli sono all’attacco, ma appaiono ancora lungi dal vincere, e
l’esercito siriano continua a combattere. Dai media politicamente corretti si ricava, nella sostanza, l’immagine di un equivalente siriano della
resistenza delle forze mercenarie e tribali di Gheddafi. Si tratta di
un’equiparazione facile a farsi in un’ottica semplificatrice, ma non molto
corrispondente alla complessità siriana; al pari di quell’altra semplificazione
che vede nella guerra civile in Siria il momento culminante di una lotta
finalizzata semplicemente a far cadere un regime tirannico.
Che all’inizio sia stato così è innegabile, ma con il degenerare della
situazione e l’assunzione di un carattere radicalmente sunnita – con elementi
jihadisti - da parte del fronte di opposizione, la situazione è un po’
cambiata. Per quanto il regime perda pezzi eccellenti (da ultimo un Primo
Ministro) ormai è in corso una guerra fra la maggioranza sunnita e le
consistenti minoranze siriane, a cui forse si aggiunge ancora una parte della
borghesia sunnita. Cioè a dire, detta radicalizzazione fa in modo che ben più
di ieri la sorte di queste minoranze dipenda dalla tenuta del regime di
al-Assad. Lo zoccolo duro dell’esercito regolare è indubbiamente formato da
Alauiti e Sciiti, ma anche le altre minoranze ben sanno che l’eventuale
vittoria dei ribelli vorrebbe dire lo scatenarsi di un’ondata di vendette e
rappresaglie non controllabili (tanto più che è lecito dubitare dell’esistenza
di una forte leadership sul versante
della rivolta). Piaccia o non piaccia (a loro e agli altri) per i non Sunniti
il regime resta la difesa contro l’integralismo sunnita, mai estirpato del
tutto e la cui presenza va crescendo. È significativo che il ministro della
Difesa, generale Daud Rayha, ucciso in un attentato il 18 luglio, fosse un
Cristiano ortodosso; significativo in una duplice accezione: che fosse arrivato
a quel vertice in uno Stato musulmano, e che egli – cristiano - facesse parte
dell’esercito siriano.
Per il labirinto siriano non si deve solo tenere conto della possibilità
(tutt’altro che teorica) dell’avvento di un altro regime tirannico,
suscettibile di fare rimpiangere il precedente a chi vivrà sotto di esso; si
deve altresì dare per scontato che la precedente stabilità della Siria “laica”
era una garanzia di stabilità per tutto il Vicino Oriente, e che la sua fine –
con una transizione al buio – darà certamente luogo a turbolenze e pericoli per
tutti e di creerà nell’area tali scombussolamenti da far piangere (ancora una
volta) lacrime amare sulla mancanza di classi politiche europee, nordamericane
(e russe) dotate di adeguata conoscenza delle situazioni sul tappeto e di
capacità per non giocarvi col fuoco. In fondo il regime degli Assad era di
garanzia anche per Israele, atteso che – alla luce della fattualità della
politica estera siriana, e non delle tipiche rodomontate propagandistiche arabe
– l’espansionismo di Damasco, dopo aver toccato più volte con mano quanto non
convenisse cozzare militarmente contro l’entità sionista, si era concentrato
sul Libano, Stato artificiale creato dall’imperialismo francese dopo la Grande
Guerra, su un territorio che aveva fatto parte della Grande Siria per secoli e
secoli.
Che scenari sono al momento ipotizzabili in Siria?
Attualmente non sono molti. Il primo – Assad lascia la Siria e si
instaurano negoziati fra le parti in causa per una transizione pacifica – è
tanto auspicabile quanto irrealista nelle condizioni attuali.
Il secondo scenario – suscettibile di verificarsi anche a prescindere da
un’eventuale uscita di scena di Bashar al-Assad – consiste nella fine della
recente unità territorial/politica della Siria (avvenuta solo dopo la I Guerra
Mondiale), paese che ha vissuto la maggior parte degli ultimi 5.000 anni senza
essere Stato sovrano. Le minoranze religiose, cioè a dire, potrebbero
costituire uno Stato – magari laico - nelle aree non sunnite, come la costa con
Latakya, con le montagne adiacenti, e le montagne del sud. Dalla mappa risulta
una distribuzione delle componenti etno/religiose abbastanza omogenea per
quanto riguarda Alauiti e Sunniti. A essere dispersi, sono invece i Cristiani.
Con l’ovvio esodo (non necessariamente forzato) dei Sunniti dalla zona alauita,
sarebbe possibile costituire uno Stato siro-alauita oltre tutto geograficamente
contiguo all’area libanese di maggior presenza degli Sciiti Duodecimani.
È di tutta evidenza che questo non vorrebbe dire cessazione della
conflittualità armata. Anzi! Ma almeno si tratterebbe di un’entità territoriale
più omogenea della Siria odierna, verso cui potrebbero migrare anche altri
gruppi minoritari psicologicamente e culturalmente meglio attrezzate a
convivere fra loro.
Un terzo scenario – tutt’altro che ipotetico – è dato dall’estensione del
conflitto ad altri paesi, laddove esistono comunità i cui elementi identitari
le leghino a quelle siriane. La perenne polveriera libanese – dove è poderosa
la presenza degli Sciiti di Hezbollah – sarebbe la prima a esplodere, e il
Libano sprofonderebbe di nuovo nel caos della violenza interreligiosa.
E Israele? A parte la certezza di una sua azione aerea se ci fossero
problemi concreti circa l’arsenale chimico/batteriologico siriano, è chiaro che
turbolenze libanesi potrebbero provocarne l’intervento, ma i suoi problemi
aumenterebbero in caso di avvento di un governo islamista a Damasco, tanto più
che già i recenti avvenimenti in Egitto hanno provocato il rafforzamento
militare israeliano al confine egiziano.
Il quarto e ultimo scenario oggi ipotizzabile è quello della vittoria
totale dei ribelli, con inerente bagno di sangue ed esodi di massa, maggiori
degli attuali. Questo per la Siria. Va poi messo in conto la diffusione del
contagio islamico sunnita nei paesi circonvicini, come Libano e Giordania, ma
anche Turchia, pur prescindendo da come lì andrebbe a finire per la particolare
posizione dell’esercito (o di buona parte di esso).
È campato per aria in Siria il pericolo dell’integralismo islamico?
Giorni fa al Cairo un vecchio oppositore del regime siriano (vecchio anche anagraficamente:
ha 81 anni!), Haytham al-Malenteh ha annunciato di essere stato incaricato, da
una coalizione di quindici personalità indipendenti senza alcuna affiliazione
politica, di formare un governo transitorio della Siria. Sulla questione Il fatto quotidiano ha intervistato un
altro dissidente siriano, il cristiano Bassam Ishak, attivista dei diritti
umani e membro del Consiglio Nazionale Siriano (Cns) di Istanbul, finora
ritenuto l’organo ufficiale della dissidenza, di cui fanno parte esponenti di tutte
le comunità religiose siriane (secondo le percentuali esistenti), altresì
espressione di varie correnti politiche: socialista, comunista, nazionalista,
liberale, islamica. L’intervista è stata pubblicata il 7 c.m.
In essa Ishak denuncia che il gruppo da cui al-Manteh avrebbe ricevuto il
predetto incarico è formato da uomini di affari siriani operanti nei Paesi del
Golfo, noti per il loro supporto ai settori salafiti; e altresì come nella loro
neonata organizzazione politica le minoranze siriane non siano rappresentate, a
parte un Druso di facciata. Ma al-Manteh in Siria è popolarissimo, mentre i
membri del Cns di Ishak sono per lo più Siriani dell’esilio; e questo incide
sulla loro popolarità e incidenza.
C’era da aspettarsi che gli integralisti si muovessero politicamente, ma
questo riguarda – pur senza voler disprezzare nulla – la sfera dei giochi
politici preliminari all’ingresso in una “stanza dei bottoni” non ancora
espugnata. Il vero problema è chi abbia in mano le armi, perché in Siria
comanderà domani il vincitore armato. Non pare però che l’autodenominato
Esercito Libero Siriano” a tutt’oggi risponda a una dirigenza politica, o che
abbia intenzione di farlo a stretto giro. E chi sono costoro? Restando senza
risposta la domanda, al rischio dell’espansione integralista a seguito
dell’eventuale sconfitta di Assad, se ne aggiungono altri due: la formazione di
una dittatura militare in nuce se
l’Esercito Libero Siriano avesse un ferreo centro di comando, o un’instabilità
di tipo vuoi libanese vuoi iraqeno in caso contrario.
Gli interessi sauditi e turchi
Nel fronte degli Stati orientali attivamente impegnati contro Assad sono
presenti interessi non omogenei: quelli della Turchia sono essenzialmente
tattici, a motivo dell’afflusso destabilizzante di profughi dalla Siria e del
pericolo di una saldatura fra Curdi anatolici e Curdi della Siria (autoctoni o
profughi); quelli di Arabia Saudita e Qatar sono invece strategici, nel quadro
del mai cessato conflitto fra Sunniti e Sciiti in genere e con l’Iran in
particolare, e ai fini della proliferazione dell’integralismo sunnita
nell’area, la cui disastrosità è di tutta evidenza. Il rapimento dei pellegrini
iraniani sulla strada per l’aeroporto di Damasco fa parte di questa lotta ed è
un bruttissimo segnale.
Per la Turchia – che ha già dovuto ingoiare (o sta facendo finta di
ingoiare) il rospo di un’ampia autonomia curda nel nord dell’Iraq, ed è
un’autonomia che rasenta la confederazione di fatto – l’indebolimento del
controllo del regime di Assad nella parte settentrionale della Siria
costituisce un problema più grave di quello dell’enorme afflusso di profughi in
Anatolia.
Il fatto è che i Curdi attualmente hanno assunto il controllo del nord-est
della Siria. Essi sono sunniti, non hanno particolari motivi di affezione verso
i governi siriani (senza eccezioni tutti quelli succedutisi dall’indipendenza a
oggi) a motivo delle discriminazioni e dei maltrattamenti cui li hanno
sottoposti. I Curdi in Siria per lo più non hanno la cittadinanza e non possono
lavorare in enti pubblici, non hanno assicurazione sanitaria, non possono
fruire di servizi scolastici e non sono tutelati nella lingua e nella cultura. Potendo
contare sui Curdi iracheni e su quelli anatolici, non è escluso che diano vita
a iniziative dalle ripercussioni pericolose in Turchia. È casuale che ci sia
una recrudescenza della guerriglia curda in Turchia? Non c’è bisogno della
palla di vetro per ritenere che se i Curdi siriani si muoveranno male sarà
realistica l’ipotesi di un intervento militare turco, la cui onda d’urto non si
fermerebbe peró alla Siria, ma creerebbe grossi problemi politici e militari in
Iraq al governo (filo iraniano) dello sciita Nuri al-Maliki (e l’Iraq è a
maggioranza sciita).
Mentre l’indignazione ufficiale monta, le diplomazie…
I soliti “bene informati” sostengono che Assad – alla luce della
concretezza degli interessi economico/energetici dei paesi occidentali, e della
minore incidenza dell’indignazione delle anime belle di un’effimera opinione
pubblica – sia convinto della possibilità di ripetere il bis dell’Algeria
durante la terribile guerra civile di fine secolo. All’epoca, l’Algeria
sprofondò in un incubo di sangue e massacri dopo che i capi delle Forze Armate
vollero l’annullamento di elezioni formalmente democratiche vinte dal partito
islamico, e la situazione non era molto dissimile da quella siriana attuale. Atrocità
senza nome furono compiute da integralisti islamici, militari e paramilitari, e
almeno 200.000 persone di ogni sesso ed età furono uccise. Ma mentre l’indignazione
straniera giungeva al calor bianco, il controllo di enormi risorse di petrolio
e gas naturale da parte del governo algerino fece sì che venisse lasciato
libero di condurre alla sua maniera la guerra civile fino alla sconfitta totale
(per il momento) degli islamisti.
La Siria sul piano energetico non è l’Algeria, però può giocare un suo
ruolo geostrategico, a cui l’economia occidentale (particolarmente in una fase
di acuta e diffusa crisi) non può restare indifferente. Non ci si lasci
ingannare dal fatto ormai notorio dell’appoggio militare Usa ai ribelli, perché
giocare contemporaneamente su più tavoli, anche senza una logica apparente, è
tipico della diplomazia imperialista.
Orbene, a giugno il giornale britannico Independent
ha parlato di trattative segrete in corso fra Stati Uniti, Russia e Unione
Europea per concludere un accordo che lascerebbe Assad al potere per almeno
altri due anni, a fronte di concessioni siriane ad ampio spettro (includendovi
l’Arabia Saudita) e di tutela degli interessi russi. In sostanza, sul tavolo
dei negoziati sarebbero stati messe le seguenti ipotesi: l’Arabia Saudita e il
suo alleato Qatar otterrebbero maggiori e migliori posizioni per i Sunniti in
Libano e Iraq, a fronte però del riconoscimento statunitense e russo
dell’influenza dell’Iran sull’Iraq; la Russia avrebbe ampie garanzie sia sul
mantenimento della sua base navale siriana di Tartus, sia sui rapporti
amichevoli di un eventuale nuovo regime a Damasco, quand’anche influenzato
dall’Arabia Saudita, ma dovrebbe fare buon viso al vero obiettivo occidentale,
per il quale Usa e Ue sarebbero disposti a lasciare ad Assad il tentativo di
risolvere i suoi problemi alla maniera algerina: sono in gioco due oleodotti
che li renderebbero meno dipendenti dalla Russia per gli approvvigionamenti
energetici. Entrambi passerebbero per la Siria - uno proveniente dal Qatar e
dall’Arabia Saudita attraverso la Giordania, e l’altro proveniente dall’Iran
attraverso l’Iraq meridionale – ed entrambi destinati a raggiungere il Mediterraneo
e l’Europa
L’accordo potrebbe anche non essere raggiunto, ma un tale esito nulla
toglierebbe alla esemplarità di quelle trattative.
E la sinistra araba (superstite)?
Gli avvenimenti siriani hanno causato nelle sinistre arabe, come negli
altri settori laici, divisioni attorno a scelte disomogenee. Ma non è il caso
di gettare la croce addosso a chi ha optato, come vedremo, per posizioni che il
rigore ideologico farebbe definire quanto meno “poco corrette”. Infatti, se la
coerenza ideologica è in sé un bene, sovente in rapporto alle situazioni
concrete (che si sviluppano ignare delle esigenze teoriche altrui) essa può
apparire come un bene astratto, e anche un male. Il fatto è che nel mondo arabo
sinistre e laici vivono sulla loro pelle l’immediatezza dell’integralismo
islamico, ne hanno giustamente paura e stanno vedendo a cosa porti per una vita
personale e sociale libera anche quell’islamismo “moderato” che i media occidentali ancora presentano in
termini benigni. La crisi siriana, con quel che sta venendo fuori, ha innescato
una situazione tale (come il più delle volte è accaduto nella storia) da
mostrare i limiti vuoi pragmatici vuoi teorici di ogni scelta possibile, e come
in definitiva non vi sia coincidenza fra “salvezza dell’anima” e difesa del
presente e del futuro.
Le posizioni esistenti nelle sinistre arabe sono in concreto tre. In primo
luogo ci sono i “puristi” – minoritari - che appoggiano incondizionatamente la
rivolta siriana. In genere formano l’estrema sinistra della sinistra e sono di
filiazione maoista (come Via Democratica in Marocco) o trotskista (come i
Socialisti Rivoluzionari egiziani e il Forum Socialista libanese). Tutti hanno
relazioni con l’opposizione di sinistra siriana, ma sono ostili al Cns siriano
impiantato in Turchia temendo che il loro collaborazionismo con governi o
imperialisti o reazionari sia contrario agli interessi della ribellione contro
Assad. Ci sono poi (ma anch’essi minoritari) quanti – fatte le debite pesature
– hanno ritenuto necessitato dalla realtà l’appoggio momentaneo al governo
siriano nella speranza che la rivolta (per come si è andata connotando) venga
sconfitta. Poi si vedrà. Infine ci sono i fautori della cosiddetta terza via:
formale opposizione al regime siriano e messa in allarme per il ripetersi di
situazioni di tipo libico.
Questo sul piano degli schieramenti più o meno definiti, giacché non
mancano affatto – e sono in molti – coloro che non sanno quali “pesci” prendere. In questo settore di
definito ci sono solo le preoccupazioni: per l’integralismo montante, per la
militarizzazione della rivolta a scapito della politica, per l’incremento di
interventi stranieri, per una situazione geopolitica che fa della Siria una
pedina nello scontro fra Usa e monarchie del Golfo, da un lato, e Russia, Iran
e forse anche Cina dall’altro. Per cui ne risulta una certa prudenza in
relazione alla rivolta siriana che non può non assumere i connotati della presa
di distanza e dell’auspicio (al momento ottimista) che dalla crisi si esca
riformisticamente, e non con l’abbattimento del regime di al-Assad da parte
delle milizie ribelli.
Un tipico esempio di ciò l’ha dato nello scorso mese di maggio l’Unione
Generale Tunisina del Lavoro (Ugtt), sindacato in cui è forte la presenza di
elementi di sinistra. Ebbene, l’Ugtt, se ha sottolineato il valore degli
interessi democratici del popolo siriano, ha anche denunciato i complotti in
atto degli Stati coloniali e delle monarchie reazionarie. Prudenza fatta
propria dal Partito Comunista Libanese, che non ha partecipato a nessuna delle
manifestazioni svoltesi a Beirut davanti all’ambasciata siriana.
In definitiva, un elemento accomuna per ora tutti i settori della sinistra
araba, eccezion fatta per le ali estreme: la paura in un esito della crisi
siriana che veda la vittoria degli interessi statunitensi e sauditi. Di modo
che sono in molti a pensare, per quanto non sempre lo dicano, che la vittoria
di Assad sarebbe all’atto pratico il male minore, in mancanza di altre
possibili scelte.