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lunedì 2 luglio 2012

PIÙ VERITIERA DELLA STORIA, di Enzo Valls

Querido Enzo: recién ahora abro el correo y leo tu escrito. Bello y sugestivo. Si la poesía (y el arte en general) hubieran resonado dentro de nosotros hace cuarenta años - al menos para algunos de nosotros, hoy sesentones - tal vez nos habríamos ahorrado desilusiones y grandes pesares políticos y habríamos apreciado más la vida en sus infinitos pequeños matices... Pero, como se sabe, la sabiduría es lo último que llega... Antonella
Dear Enzo, only now I am looking at the mail and I find your text. Fine and evocative. If poetry (and art in the general meaning) had resounded among and inside us already forty years ago - at least for some of us who today are more than sixty years old - maybe we could have spared ourselves big disappointments and political sorrows and would have better enjoyed life in its infinite small shades. But everybody knows that wisdom is the last one to arrive...
Antonella
Caro Enzo, solo adesso apro la posta e leggo il tuo pezzo. Bello e suggestivo. Se la poesia (e l'arte in generale) avesse risuonato al nostro interno già quarant'anni fa - almeno per alcuni di noi oggi sessantenni - forse ci saremmo risparmiati delusioni e dolori politici grandi e avremmo apprezzato di più la vita nelle sue infinite piccole sfumature... Ma si sa, la saggezza arriva per ultima... Antonella 

«Shakespeare ignorava anche la storia. Il suo Ulisse cita Aristotele, e Timone d’Atene si richiama a Seneca e Galeno. Shakespeare non conosceva la filosofia, ignorava l’arte militare, confondeva i costumi delle varie epoche. Nel Giulio Cesare c’è un orologio che rintocca, Cleopatra si fa slacciare il busto da un’ancella, i cannoni sparano a polvere ai tempi di Giovanni Senza Terra. Shakespeare non aveva mai visto il mare, né una battaglia, né le montagne; non conosceva né la storia, né la geografia, né la filosofia. 
Ma Shakespeare sapeva che…»
Jan Kott, Shakespeare nostro contemporaneo

Poco tempo fa, durante un mio concerto di canzoni d’autore italiane, mentre spiegavo al pubblico (argentino) il significato di un testo di Fabrizio De Andrè, mi è venuto spontaneo dire qualcosa che ho pensato proprio in quel momento: che la poesia è, in fondo, più veritiera della storia perché consente di esprimere in maniera potente e sintetica una verità esenziale. Può trattarsi anche di una verità non necessariamente storica ma che illumina o mette a nudo un qualche aspetto della condizione umana.
Il testo era quella della struggente canzone “Fiume Sand Creek”, la quale contiene due grossi “errori”. Il primo è già nel titolo poiché, se dovessimo tradurlo e se il mio scarsissimo inglese non mi inganna, rimarrebbe “Fiume Ruscello della Sabbia”. L’altro “errore” è di carattere storico: il testo parla di «un generale di vent’anni, occhi turchini e giacca uguale», in evidente allusione al Generale Custer. Ma s’è vero che George A. Custer, pochi mesi prima del massacro del Sand Creek, era stato promosso a Generale a soli 23 anni d’età, non è vero invece che a compiere quel massacro di cheyennes inermi, per lo più donne, anziani e bambini, fu lui, bensì il colonnello Chivington, sicuramente meno interessante dal punto di vista poetico.
Ho scritto “errori” tra virgolette non soltanto perché possono essere considerati licenze poetiche, ma anche e soprattutto perché sono proprio quelle distorsioni della realtà storica compiuta in certe opere poetiche, letterarie o teatrali, che spesso ci fanno meglio comprendere l’essenza di un fatto, di un periodo o di un personaggio. Naturalmente non mi riferisco a distorsioni come quelle che, proseguendo con lo stesso esempio, fanno ancora risultare in molti libri di storia il suddetto massacro come la “Battaglia di Sand Creek”, bensì a quelle che intendono portare alla luce una verità diversa da quella storica - raccontata, come al solito, dai vincitori.
De Andrè aveva tanto bisogno di mettere Custer con i suoi occhi dello stesso colore dell’uniforme del 7º Cavalleggeri e i suoi “vent’anni” al posto di Chivington, quanto Shakespeare di far rintoccare un orologio nel suo Giulio Cesare. Perché quello di cui hanno bisogno i poeti e tutti gli artisti è di dire delle verità essenziali, di raffigurare dei veri paradigmi storici o dei meccanismi di potere, oppure scavare nelle profondità dell’anima umana, più che di raccontare fatti puntuali con filologica precisione. Non c’è libro di storia che ci possa dire «Sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso / il lampo in un orecchio, nell’altro il Paradiso.» Perché De André si mette dalla parte del massacrato, non del detestabile militare che, pur compiendo atti spregevoli, passa alla storia e diventa strada, piazza, monumento equestre.
E già, perché il nostro bravo “Capelli lunghi Custer” il suo bel massacro lo perpetrò anche, ma non sul Sand Creek bensì sul Washita. Non è quindi “sbagliato” il personaggio ma il luogo. E dal punto di vista della metrica e della rima appare anche chiarissima la scelta di De André di commettere quell’“errore” storico: quel suo emblematico “dollaro d’argento” non brilla molto se il fiume è il Washita, ma lo fa benissimo «sul fondo del Sand Creek».

Anche se quello che avete appena letto è stato pensato prima che sull’associazione politica Utopia Rossa e su questo blog incominciassero a soffiare dei vivificanti venti poetici, spinti da Alex Pausides, Tito Alvarado e Yuri Zambrano, è d’obbligo dire che non l’avrei scritto se non fosse stato per l’energia che sento arrivare da questi nuovi compagni.

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