... Il mio cuore aborre e sfida
I potenti della terra
Il mio braccio muove guerra
Al codardo e all'oppressor.
Perché amiamo l'uguaglianza
Ci han chiamati malfattori
Ma noi siam lavoratori
Che padroni non vogliam.
Dei ribelli sventoliamo
Le bandiere insanguinate
E innalziam le barricate
Per la vera libertà...
(Pietro Gori, Amore ribelle)
L’alfabeto (non solo) del cinema non s’impara a scuola ma nella strada... non ci sono rinascimenti senza rivoluzioni... l’eccellenza del cinema d’autore o la qualità della libera espressione decongestiona i luoghi/schermi in cui si manifesta e l’autenticità di un’opera d’arte infrange barriere, inventa nuovi linguaggi, si situa fuori dal museo, dall’atelier delle istituzioni e riporta la memoria e la storia nella coscienza martoriata dei popoli... il cinema così fatto esprime lacrime e sangue, riso e stupore, ironia ed eversione contro tutto ciò che è costrizione sociale e dimenticanza politica... riattualizza il teatro della crudeltà revisionista della politica dominante (inclusi i tradimenti opportunistici della sinistra ascesa agli scranni del potere) e nella rottura dell’assoggettamento culturale/politico libera l’intelligenza del linguaggio cinematografico per riprendere e spargere negli occhi e nella testa di chi lo vuole, i seminamenti di democrazia e libertà usciti dal sangue versato della Resistenza tradita.
L’opera intera di Luigi Faccini, vogliamo ribadirlo, poeta solitario tra i più grandi del cinema sociale (o d’impegno civile) italiano, è una catenaria di situazioni costruite contro la superficialità generalizzata e ogni film del corsaro ligure è il frammento di un’idea di cinema e di vita che esprime l’insieme di un piano creativo dove ogni tematica trattata è un florilegio di segni e nulla e nessuno è innocente... nel suo cinema ciascuno esce per quello che è, o complice o spettatore o ribelle all’ordine costituito... nei suoi film la visione dell’artista è anche l’arte dell’esistenza e come il dinamitardo di tutte le morali (Friedrich W. Nietzsche) invita ad amare le proprie radici, la propria terra, i sogni di rivolta dei padri e nient’altro... è un fare - cinema del dispendio che se ne frega della genealogia delle abitudini o dei servilismi coatti, lavora su una cartografia dei corpi trasfigurati, della lezione della storia, dell’onnipotenza del disordine come morale imposta e in una gioiosa ebbrezza del disgusto figura i valori di una perdita (quella antifascista, specialmente) e scopre il magico nell’evento che privilegia l’istante del vero... padroneggia il tempo in rivolta di un’infanzia interminabile e con il sarcasmo, l’ironia, il sorriso del filosofo cinico (con la rabbia nel cuore) mostra l’eleganza, la maniera, lo stile e la disinvoltura le brutture di una civiltà omologata, piegata allo spettacolo della domesticazione sociale.
Il cinema dell’indignazione di Faccini si oppone alla fatalità, rivendica la rivoluzione dell’intelligenza e rifiuta i perbenismi che la strozzano... odia l’indifferenza e l’eterno piagnisteo degli eterni innocenti che la praticano ad ogni sfogliata elettorale... “Odio gli indifferenti... Vivere vuol dire essere partigiani... Chi vive veramente non può non essere cittadino e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia” (Antonio Gramsci, diceva, 1917). La fine dell’indifferenza implica un eccesso, una rottura, un gesto estremo che strappa il plauso dell’autorità e liquida gli infingimenti dei potentati una volta per tutte... vede nell’insorgenza di uomini e donne il cambiamento dei punti di riferimento e detta l’inizio di nuove rotte per la conquista della sovranità popolare.
La cinevita di Faccini è esposta alla disperata ricerca della dignità calpestata e questo comporta una solitudine immensa, certo, tuttavia a ben leggere la sua filmografia, e non mancano riconoscimenti internazionali a dimostrarlo (mai troppi per il fariseismo tutto italiano), emerge la restaurazione dell’identità dell’uomo libero di fronte ai giochi sporchi del potere... è una ricchezza culturale/politica che magnifica l’etica di un villano prodigo al quale ciò che importa è la disobbedienza contro la protervia dell’impero... triste è la civiltà che ha bisogno di eroi o di olocausti per mostrare la caducità e l’impostura del proprio cammino... nella geografia del consenso e del successo subordinati all’interesse personale, “le morali non sono altro che il linguaggio simbolico delle passioni” (Friedrich W. Nietzsche) autentiche. Gli incendiari dell’immaginario lo sanno bene, l’emozione deve sempre prevalere sul calcolo egoista e si fa beffe di ogni sorta di autorità.
I dispositivi cinematografici/antifascisti di Faccini (Il garofano rosso, 1975; Nella città perduta di Sarzana, 1979; C’era una volta gente appassionata, 1986; Canto per il sangue dimenticato, 1997; Il pane della memoria, 2008; Storia di una donna amata e di un assassino gentile, 2009; Nel ventre nero della storia, 2009; Rudolf Jacobs. L’uomo che nacque morendo, 2011) o quelli letterari (La baia della torre che vola, 1997; Un poliziotto perbene, 2002; La storia come identità (AA.VV.), 2003; L'uomo che nacque morendo, 2006, Le mani raccontano, 2007)... si dipanano tra disinganno della storia e coraggio per l’afflato prometeico di una generazione che ha impugnato il fucile ed è riuscita a mettere fine alla ferocia del fascismo e dei bravacci che lo sostenevano... Faccini ci ricorda una guerra di popolo che con migliaia di morti è riuscita a sconfiggere la vergogna di un’intera nazione piegata (come oggi) alle angherie di una classe dirigente iniqua, mediocre, mafiosa... che era (ed è) l’esatta caricatura del potere del proprio tempo e di tutti i tempi... la tirannide comprende solo i cadaveri che la condannano all’oblìo e quando tutto è perduto restano solo i cantori della resistenza sociale che insorgono per il bene comune.
Il cinema ereticale di Faccini è corso dalla medesima utopia dei cantastorie, dei trovatori, dei briganti di frontiera... e sotto tutti i cieli, in tutte le epoche, in tutti i continenti, in tutti i regimi... rivendica il diritto alla libertà, alla dignità e alla bellezza degli ultimi... in ogni film il lericino dice che “l’interesse generale deve prevalere sull’interesse particolare, l’equa distribuzione delle ricchezze prodotte dal mondo del lavoro deve prevalere sul potere del denaro” (Stéphane Hessel)... è il messaggio di un libertario che affida le responsabilità dell’uomo né a un potere né a Dio, ma al proprio impegno e alla consapevolezza di essere umano. Il futuro appartiene all’insorgenza delle diversità, alla conciliazione di culture diverse, al rifiuto della violenza come forma di delirio collettivo... si tratta di “osare la speranza” e avviare in “direzione ostinata e contraria”, come dice un prete “angelicamente anarchico” (Don Andrea Gallo), elementi di resistenza indio-afro-popolare contro l’oppressione dell’economia neoliberista... le rivolte dei popoli passano dai social network, si riversano nelle strade della terra, qualificano la propria rabbia, il risentimento, il diniego contro gli oppressori e autorizzano gli insorti a un grado superiore di fraternità e accoglienza verso la comunità che viene.
II. Rudolf Jacobs, l’uomo che nacque morendo
Le vie del cinema (come quelle dell’anarchia) sono infinite... il linguaggio del cinema è demiurgico, l’intelligenza creativa è il suo laboratorio... il cinema, quando è grande, è portatore dell’uomo, della donna in amore, dei loro dolori e delle loro storie insorte per conquistarsi il diritto di vivere tra liberi e uguali... è un vivaio di sentimenti, emozioni, desideri che riprendono infanzie perdute o educazioni mai trascurate... la dolcezza è la capacità di differire e solo i poeti, i bambini o i folli sanno comprendere, fuori dalle istituzioni e dalle convenienze, certo, la bellezza convulsiva delle passioni e fanno dell’incanto e della gioia la più radicale autobiografia di un’epoca subordinata all’utilitarismo e agli interessi ideologici... loro e solo loro hanno compreso che “ogni misura è tragica, implica la gestione di un capitale esauribile. L’uomo sottomesso all’impiego del tempo che non ha agognato, desiderato, voluto, è una macchina in un mondo di macchine. Strumentalizzato, e agli ordini dei produttori di cadenza, che sono perciò i padroni del reale” (Michel Onfray). Il cinema di Faccini, appunto, lavora contro le orde canoniche dell’ordinamento dello spettacolo e la dissipazione dell’innocenza profanata del divenire.
In chiusa a Storia di una donna amata e di un assassino gentile (uno dei film più importanti del nuovo millennio), Faccini annuncia (in poche magistrali sequenze oniriche, anche) la figura di Rudolf Jacobs, un capitano della marina germanica, giunto a La Spezia nel 1943 e passato alla Resistenza italiana il 3 settembre del 1944... fu ucciso due mesi dopo (il 3 novembre) mentre comandava un’azione contro le Brigate Nere acquartierate in un albergo di Sarzana. Sepolto in questa città, Rudolf Jacobs è insignito della medaglia d’argento al valor militare (per molti anni, in Germania, fu considerato un “disperso”). Faccini aveva raccontato la vicenda di Jacobs in un libro (L’uomo che nacque morendo) di grande forza del reale e con la finezza scritturale, storica, etica che gli è propria, era riuscito a trasmettere i valori di un uomo e le brutture politiche (ma anche le risorgenze generazionali) della propria epoca.
Nel film Rudolf Jacobs. L’uomo che nacque morendo Faccini riprende la medesima traccia e costruisce un’architettura filmica atonale a quanto circola sugli schermi italiani... non è un documentario, né un film di finzione soltanto... è un’atlante agnostico dove s’intrecciano narrazioni storiche, la “donna amata” del regista (Marina Piperno, produttore indipendente di film eversivi, mai dimenticati), l’uso sapiente della Rete... ed è dedicato all’Europa che verrà, quella dei popoli liberati dei terrorismi del Fondo monetario, della Banca mondiale, dei mercati globali... si apre con la Piperno che legge sdegnata pezzi del Mein Kampf (1925) e termina con la corsa a staffetta (rallentata) di maratoneti che indossano la maglietta con l’effige di Rudolf Jacobs. L’insieme è una tessitura di idee, immagini, documenti, musiche, suoni che attraversano i luoghi della memoria, cancellati ormai dall’incuria, dal disprezzo, dall’indifferenza della politica attuale... la voce fuori campo testimonia il percorso, l’identità, l’alterità di un uomo che è altro dal soldato chiamato a erigere fortificazioni sulle coste del levante ligure per l’organizzazione TODT (dove Rommel temeva lo sbarco degli alleati)... un uomo (di origini ebraiche) che non voleva essere complice della Shoah e delle stragi nazi-fasciste che insanguinavano l’Italia... un uomo che passò alla Resistenza e con le armi in pugno nacque, appunto, morendo.
Nella synopsis del film Faccini scrive: “In tanti siamo lui. Non solo un capitano della marina da guerra tedesca passato ai partigiani del Levante ligure nell'estate del 1944, ma un uomo che si schiera, che sceglie, che decide di battersi contro la violenza di uno stato autoritario, contro lo sterminio di uomini che ha irrimediabilmente segnato il secolo breve. L'uomo che nacque morendo è il nostro uomo che verrà. Un uomo responsabile, disposto ad offrire la sua vita affinché una guerra insensata abbia termine. Un uomo che sta dentro la Storia e non ne accetta gli sviluppi perversi. La morte costruttiva di quest'uomo libera la nostra coscienza e ci spinge lungo le strade difficili della giustizia. La sua morte sfortunata è piena di vita, piena di senso, piena di futuro. Per questo abbiamo dedicato il film All'Europa che verrà, perché l'Europa delle banche e della finanza non è quella che ci piace. Ci piacerebbe l'Europa dei popoli, capaci di scambiare cultura e identità, costruendo scenari nuovi, disposti a mescolarsi piuttosto che ad arroccarsi nella trincea delle piccole identità, quella che ci piace e per la quale lavoriamo. Come diceva il mio maestro Braudel: Sapere di essere stati è la chiave per aprire le porte del futuro”. Tutto vero. Quando la sommatoria dei dolori supera quella della felicità ferita a morte, bisogna molto semplicemente decidere di rompere l’origine del male.
Rudolf Jacobs. L’uomo che nacque morendo è un’opera epica... poesia, pittura, sapienza filmica, citazioni colte (gli spari dei fascisti su Jacobs, tratti da Il mucchio selvaggio, 1969, di Sam Peckinpah, sono versati su fondo nero e il suo corpo deposto in un sudario alla maniera di Mantegna (Caravaggio, specialmente) o il Cristo velato o Pasolini in Mamma Roma o Ernesto Che Guevara sul tavolaccio di una scuola boliviana, crivellato di colpi, prima che gli fossero tagliate le mani e date in pasto ai cani randagi, suscita dissidi profondi)... l’attorialità straniante (non solo della Piperno), la bellezza del paesaggio, le parole dell’autore che sono dei veri e propri appelli alla resistenza sociale... lavorano in un’architettura espressiva che è parabola, metafora, deploro, risentimento, anche, contro la benevolenza della storiografia dominante che tutto dimentica e tutto assolve in cambio di semplificazioni arbitrarie... la “selvatichezza” interpretativa di Carlo Prussiani è sorprendente (sempre dentro il personaggio), la regalità visiva di Marina Piperno, il montaggio metaforico di Sara Bonatti, la musica avvolgente di Oliviero Lacagnina, le inquadrature forti, singolari, surreali di Faccini... i corpi, i volti, i gesti di attori presi dalla strada... esprimono una geometria di sentimenti struccati e fanno di questo film un’epifania del meraviglioso che conta i propri morti e, nel contempo, privilegia l’accezione di una storia dell’infamia decostruita e riportata alla bellezza che le compete.
In Rudolf Jacobs. L’uomo che nacque morendo Faccini lavora come nelle “canzoni di gesta”, elabora una visione/filosofia dell’ascolto e riacutizza l’immaginario violentato dalle revisioni della storia... dissemina in ogni sequenza un’estetica della libertà, rovescia lo scenario delle parti maledette e scolpisce sullo schermo il temperamento, il tono, la prospettiva di una maniera di fare cinema (usando una molteplicità di arnesi culturali)... l’umanità dolente di Bruegel, la scenografia inventata (Orson Welles, Pier Paolo Pasolini, Jean-Luc Godard...), la fotografia sovente sontuosa, l’originalità del frammento documentale inserito nella descrizione, il valore d’uso di Internet che rapina la notizia storica, la biografia incrociata, l’autobiografia dispersa nella voce narrante... sono i grimaldelli affabulativi con i quali il regista fabbrica un evento/debutto che inizia dalla fine e fa della propria presenza una lettera aperta di educazione alla libertà... la grazia, la grandezza, il gusto di Faccini in tutto il suo fare - cinema disvela le virtù servili del luogo comune e mostra che la magnificenza di un’arte (non solo cinematografica) implica anche la maniera di farla... “A molti sembra che chi non esagera nella lode, insulta... Io direi invece che lodi in eccesso sono lacune della capacità, e che chi troppo loda o si burla di sé o degli altri... e in materia di lodi è arte saper misurare” (Baltasar Gracián, gesuita, 1601-1658). Tutto vero. Il film di Faccini non racconta un eroe, ripercorre le intimità, le passioni, gli amori familiari di un uomo e le sue fragilità esistenziali... fa di una vita donata alla libertà dei popoli oppressi uno strumento per dissodare, per costruire, per edificare una società più giusta e più umana.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 22 volte luglio 2011