Anticipiamo il testo dell’intervista che comparirà in appendice alla tesi di laurea di Michele Azzerri su Rivoluzione e internazionalismo e che verrà discussa a luglio all’Università di Roma. Ringraziamo il neolaureando per la gentile concessione e gli facciamo i nostri auguri, oltre che i nostri complimenti per l’impegno messo nella sua ricerca. [la Redazione]
© Jean Michel Basquiat |
Per iniziare, puoi presentarmi Utopia Rossa sotto il profilo nazionale e internazionale?
UR è un’associazione politica libertaria, di cui fanno parte al momento compagni e compagne di provenienza marxista, marxista libertaria, anarcocomunista, situazionista, trotskista, guevarista, leninista, femminista, sindacalista, cristiana e forse mi sfugge qualcosa. Ognuno è libero di mantenere la propria ideologia di provenienza e non è responsabile delle posizioni ideologiche altrui. Magari cerchiamo di fare in modo che ognuno si informi e si interessi agli aspetti positivi delle altre provenienze ideologiche. È quindi un’associazione non-ideologica (né tantomeno ideologizzata) nella quale non ci sono statuti, non ci sono congressi, dirigenti, gerarchie o apparati di sorta. Non c’è nemmeno obbligo di quote. A ben vedere non c’è obbligo di nulla, tranne il rispetto dei sei punti di principio rivoluzionari dei quali parleremo più avanti. In UR ci si sta perché si ha voglia di starci e ci si sta con i ritmi e nel modo in cui si ha voglia di starci, senza sacrifici, obblighi o complessi di colpa per «inattività».
Ma la nostra caratteristica certamente insolita per la gruppettistica - caratteristica che fu invece fondativa della Prima internazionale fino alla sua scissione - è che non abbiamo un programma politico, benché io personalmente ne abbia scritto più d’uno nella mia lunga vita di militante, come ognuno può leggere nelle raccolte dei miei scritti inediti (per ora ne sono usciti quattro volumi, dagli anni ’60 fino al 1980. Il quinto è in preparazione). Lasciando da parte la polemica con i gruppi o i partitini che del presunto Programma (con la maiuscola) fanno una sorta di panacea o di torneo a squadre, resta il fatto che anche per le organizzazioni più serie l’adozione di un programma unico e obbligatorio sia una grande fesseria.
Intanto, perché un programma politico rivoluzionario non può essere scritto una volta per tutte ma dovrebbe far da guida nel corso degli avvenimenti e quindi dovrebbe essere in continuazione attualizzato in tempo reale (cosa mai accaduta nella storia - con la parziale eccezione, da discutere, del Febbraio-Ottobre 1917). La verità è che la cosiddetta sinistra rivoluzionaria si accapiglia sempre su programmi scritti a priori e puntualmente scavalcati dai fatti reali. Sul livello infantile, irrealistico e teoricamente infondato, quando non obsoleto, di ciò che i partitini spacciano per «Programma rivoluzionario» (in realtà una «lista della spesa» atemporale e irrealistica) non voglio spendere neanche una parola.
E poi perché il programma politico presuppone che quando ci sono delle divergenze queste convivano nella stessa organizzazione e sotto la stessa direzione: invece tutta la storia del leninismo (e del trotskismo partitico) dimostra che le divergenze non possono convivere, se non per brevi periodi. Ci sono sempre delle maggioranze che espellono le minoranze o (che è più o meno lo stesso) le minoranze che prima o poi scindono: è una questione solo di tempi. Se non ci fosse tutta l’esperienza storica a dimostrarlo, basterebbe ciò che accadde ai compagni della vecchia Fmr (Terza tendenza internazionale in seno alla Quarta di Mandel, Maitan, Frank) dove dopo tre anni di critiche scritte e ultraelaborate alla linea della maggioranza, siamo stati espulsi in Italia, in Austria, in Portogallo e cancellati addirittura dalla storia di quell’organizzazione. Il bello è che rispetto alla linea della maggioranza avevamo ragione su tutto (basta andare a leggersi le circa 600 pagine di materiali dedicati alla vicenda e da me pubblicate), anche se l’aver ragione è sempre un fatto relativo e legato a un determinato contesto, oltre che a un determinato accumulo di conoscenze.
Infine, va detto che l’esistenza di un programma legato alla realtà (quindi non gli enunciati dogmatici alla maniera dei bordighisti o dei trotsko-bordighisti) porta inevitabilmente a nuove divergenze quando si verificano cambi drammatici nel contesto nazionale o internazionale (pensa alla fine dell’Urss…). Quando accadono fatti di quella portata, non potendo impedire che sorgano nuove gravi divergenze, si finisce col dividersi in più programmi, ognuno dei quali subirà la dinamica maggioranza-minoranza di cui si diceva prima, producendo nuove espulsioni o scissioni e quindi nuovi partitini se non addirittura nuove (Quarte) internazionali.
Non posso dimenticare, per es., l’importanza (devastatrice per noi della Quarta di allora) che ebbe lo sviluppo in senso filosovietico della Rivoluzione cubana.
Noi riteniamo che sia una caricatura organizzarsi in forma di partito intorno a un presunto Programma politico, per avere la cosiddetta e mitica «linea politica».
UR ritiene che si debba stare insieme mantenendo e imparando a rispettare le diverse provenienze ideologiche, le diverse analisi della realtà e quindi, di conseguenza, anche le diverse «linee politiche» che da tali diversità di analisi possono scaturire. Il tempo ovviamente dimostrerà impietosamente quali analisi fossero sbagliate e quali giuste (relativamente giuste).
Poiché tu non creda che sono solo pii desideri, provo a farti alcuni esempi di ciò che UR sta mettendo in pratica ormai da alcuni anni e con successi lenti, ma via via crescenti. Oltre ai vecchi compagni dell’antica Fmr (Terza tendenza internazionale in seno alla Quarta) - come Michele Nobile, Pino Papetti, Antonella Marazzi o il sottoscritto - in UR o nel suo comitato di redazione del blog ci sono compagni come Pier Francesco Zarcone che al momento dell’adesione era e rimase membro della Federazione dei comunisti-anarchici; Pino Bertelli che è un anarco-situazionista da sempre, troppo noto per doverlo presentare; abbiamo un compagno valdese (che si sente libero di continuare a battersi per la Quarta internazionale, mentre l’orientamento generale di UR è favorevole alla creazione di una Quinta internazionale di movimenti, associazioni ecc.). Abbiamo un compagno (Humberto Vázquez Viaña), che fece parte della guerriglia del Che in Bolivia (rete urbana) e ha scritto importanti libri di bilancio critico di quell’esperienza. Abbiamo compagni cubani e ormai anche venezuelani (Douglas Bravo lo storico comandante guerrigliero delle Faln e portavoce attuale di Tercer Camino è parte della redazione del blog di UR). Abbiamo compagni nella Cgil e compagni nel sindacalismo di base. Pur essendo pochi, abbiamo ex di questo ed ex di quell’altro. Non ti faccio la lista. Ma non voglio dimenticare di dirti che a UR si può anche aderire perché si ama veramente il cinema o la pittura o lo sport e, pur praticando queste «arti», ci si pone il problema collettivo del se e del come esse siano controllate dal potere, accessibili al resto dell’umanità (alla specie) e liberamente praticabili a titolo individuale.
E ovviamente abbiamo vari tipi di marxismi. Intanto uno studioso di economia e sociologia come Michele Nobile che io considero senza esitazioni il principale teorico marxista oggi in Italia (intendendo con questo non un marxologo, cioè qualcuno che scrive sul marxismo, ma qualcuno che applica il metodo dell’analisi marxista alla descrizione e interpretazione del mondo attuale). Ci sono due libri di Michele sull’imperialismo che nessuno, in questo campo, dovrebbe ignorare. Zarcone invece si definisce libertario marxista, mentre io mi definisco marxista libertario (anche se continuano ad appiccicarmi pervicacemente l’etichetta di «trotskista», ignorando in genere le critiche di fondo da me rivolte a questo gigante del pensiero politico del Novecento, in vari miei libri, ma soprattutto nella mia monografia su Trotsky scritta negli anni ’90). Se proprio vogliamo usare delle etichette, ho come principali punti di riferimento storico il pensiero di Victor Serge e di Daniel Guérin, ovviamente anche qui senza riferimenti dogmatici; ma ciò non mi impedisce di essere il principale animatore della Fondazione Guevara internazionale e ancor oggi attivo come uno degli storici fondatori dell’Associazione dedicata a Charles Fourier.
Niente linea politica, niente omogeneità ideologica. Su cosa vi basate per stare insieme?
Stiamo insieme su alcune (pochissime) questioni di principio che abbiamo elaborato nell’arco di decenni e che devono essere valide in Italia o all’estero, per lo scienziato o per l’immigrato appena sbarcato, per la donna radicalizzata o per il giovane ribelle, per il disoccupato o per l’anziano in pensione, per chiunque insomma. Questi princìpi al momento sono sei, sintetici e facilmente traducibili in ogni lingua. Li chiamiamo «frasette», per sdrammatizzare e applicare un po’ d’ironia verso noi stessi. Entrano in mezza pagina e anzi te li riporto (con l’indicazione in parentesi quadra dei riferimenti internazionali ai quali possono essere ricondotti):
a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine. [Priorità dell’etica (Guevara) e della verità scientifica su ogni altra considerazione]
b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche. [Inizi della Terza internazionale]
c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo. [Sinistra di Zimmerwald nella Seconda internazionale]
d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo»). [Prima internazionale]
e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare. [Internazionale antiautoritaria di Saint-Imier e Quarta internazionale]
f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità. [Vera novità storica della Quinta internazionale dei movimenti per la quale ci battiamo]
Ma il principio decisivo è il primo e su questo mi soffermo, perché ha una ricaduta teorica e scientifica importante. Ti dico subito il perché. La discussione scientifica e teorica non sta più andando avanti dai primi del Novecento. Quando litigavano Bernstein, Luxemburg, Parvus, Trotsky, Kautsky e Lenin era tutto sommato ancora un periodo d’oro, era l’Eden se non proprio il Paradiso della nostra storia: un’epoca in cui era ancora importante capire chi avesse ragione e chi torto e su quella base orientare poi l’azione.
Ebbene, a partire dai mesi successivi alla vittoria della Rivoluzione russa e già nel corso dei primi congressi del Comintern (per non parlare di ciò che è accaduto poi con lo stalinismo e in seguito con i suoi epigoni) non ha avuto più alcun valore il fatto di aver ragione o di aver torto. L’esempio classico è ovviamente Trotsky che nella polemica contro Stalin ebbe ragione su tutto (dalla politica interna a quella estera) senza mezze misure o ambiguità, mentre Stalin ebbe torto su tutto, anche lì, senza mezze misure. Un fatto storico inequivocabile che non solo non cambiò le sorti del mondo, ma si è trasformato nel tempo in un handicap: si ha torto ad aver ragione, perché se si è capaci di esaminare lucidamente la realtà e per giunta lo si dice ad alta voce, ci si ghettizza, si diventa minoritari, ci si isola: vedi la storia della Quarta in seno al movimento comunista mondiale; vedi la storia della Fmr in seno alla Quarta (per es. la nostra definizione di questa corrente come «centrista sui generis» oggi più che mai dimostrata dagli eventi storici); vedi il destino di Guevara rispetto al castrismo; vedi la storia del Manifesto in seno al Pci; vedi la la vicenda di Ferrando in seno a Rifondazione e potrei farti centinaia di esempi per il Portogallo, la Bolivia, l’Argentina, la Francia, il Venezuela e altrove.
Accantonando l’esperienza della Quarta si potrebbe tirar fuori il problema del maoismo. Molti intellettuali italiani, il novantanove percento, diventarono improvvisamente maoisti alla fine del ‘68 e nel ‘69. Quelli che non sono morti o passati ad altre attività sono tutti in circolazione politicamente parlando: ebbene, non ce n’è uno che abbia chiesto scusa o abbia detto di aver sbagliato, non ce n’è assolutamente uno. Molti risolvono il problema negando di essere stati maoisti o dicendo di esserlo stati per un breve periodo… Un’altra piccola bugia, giustificata dal fine che volta a volta può cambiare in funzione delle esigenze personale del mentitore…
Per non apparire dogmatico nelle premesse, torno solo un momento a chiarire che se è vero che Trotsky ebbe tutta la ragione storicamente possibile contro Stalin, non la ebbe con altrettanta interezza di fronte alla storia - tardò nel capire l’orrore e la pericolosità del fenomeno staliniano; ebbe delle colpe gravissime insieme a Lenin nello spianargli la strada con la liquidazione dei comitati di fabbrica e dei soviet, e con la trasformazione del partito bolscevico da partito centrista in partito dittatoriale controrivoluzionario; tentò di costruire la Quarta in forma partitica a imitazione caricaturale di ciò che erano stati (già negativamente) il bolscevismo e il Comintern; sbagliò nello scegliersi i collaboratori più stretti; non capì in tempo l’impossibilità di combattere lo stalinismo sul suo stesso terreno e altro ancora.
Puoi tornare al punto centrale, alla questione dell’aver ragione che mi sembra tu ponga in termini di etica rivoluzionaria.
Ho detto che da un certo punto in poi (primi del Novecento, sicuramente dopo l’Ottobre) l’aver ragione non ha più avuto nessun valore, perché la questione decisiva era e continua ad essere una e una soltanto: chi controlla l’apparato? Ciò fu vero nella lotta degli staliniani contro i vecchi bolscevichi. Fu vero nelle vicende scissionistiche che caratterizzarono i primi anni di ricostruzione della Quarta internazionale dopo la guerra. Fu vero nella battaglia della Terza tendenza internazionale in seno alla Quarta. È stato vero nella lotta di tutte le tendenze che si sono viste in Rifondazione ecc. ecc.
Ripeto e chiarisco, però, che quando parlo in termini di «aver ragione» intendo anche dire che il sapere è relativo perché con il tempo gli elementi di valutazione variano e cambiano gli stessi individui che coltivano quel sapere. Il massimo che è concesso all’essere umano è di avere ragione in termini relativi. Il problema è che se non è più importante chi ha ragione e chi ha torto - sia pure in termini relativi - la discussione teorica è finita, non serve a nulla, non determina più l’azione politica. E se l’azione politica rivoluzionaria non è determinata dalla teoria, a determinarla rimangono solo gli interessi di casta (l’apparato) oppure l’improvvisazione, spesso localistica, di elementi istintivamente ribelli, ma privi di formazione teorica, quando non addirittura espressione di forme di disagio psichico o vera e propria malattia mentale (che agli inizi possono anche apparire come connotati creativi, ma a lungo andare generano demoralizzazione, angoscia, fuga dalla realtà).
Effettivamente, il principio numero uno della nostra dichiarazione è fondato sull’etica e sull’amore per la verità storica e scientifica (nei limiti delle nostre capacità di comprensione). Questo nostro modo di intendere l’associazionismo politico (per ora Utopia Rossa, domani chissà) è un grande appello all’autodisciplina, al senso di maturità e all’onestà personale. Sono arrivato, dopo circa quarantacinque anni che sto sulla breccia (rivoluzionaria), alla conclusione che se uno non si autoimpone da solo i valori, non c’è alcun modo esteriore per imporglieli (eteroimposizione). Non serve il centralismo democratico, non serve l’apparato partitico, non servono gli statuti, i programmini, le espulsioni o le scissioni.
Neanche il sistema giuridico della borghesia - che è il sistema giuridico più avanzato per l’epoca in cui viviamo, costruito con secoli di elaborazioni ed esperienze - garantisce una convivenza all’interno di un’associazione o di una qualsiasi istituzione pubblica su valori portanti; figuriamoci se lo possono garantire degli statuti improvvisati, fatti ad hoc da cinici rappresentanti di caste costituite o in formazione, in funzione esclusiva di chi dirige l’apparato in quel determinato momento. Gli statuti dei partiti o partitini sono un passo indietro rispetto alla civiltà giuridica romana-mediterranea-illuministico-democratico-borghese nella quale mi riconosco, anche se non mi basta più e anelo al passo successivo.
Possiamo esaminare un altro dei sei punti che consideri importante?
Sicuramente il secondo, sul fatto che le lotte di autodeterminazione dei popoli vanno tutte appoggiate indipendentemente dalla direzione politica che hanno. Questo è un punto di principio. Ci possono essere divergenze di analisi sull’autodeterminazione, sovrapposizioni di lotte di liberazione, situazioni apparentemente irrisolvibili o rese tali dal fatto che magari un qualche imperialismo (o nel passato l’Urss staliniana) appoggia una determinata lotta di liberazione o un settore di questa… Problemi complicati che si sono presentati nel passato, ancora si presentano, che sono sempre risolvibili teoricamente, ma non sempre in termini di operatività militare sul terreno. Uno può pure avere difficoltà teoriche ad applicare questo principio (specie se viene da una formazione ultranazionalistica), ma deve ugualmente sentirlo valido. A questo sentimento noi facciamo appello. Un combattente nazionalista «utopista rosso» deve sentire che se un popolo ha deciso - per ragioni sue e magari storicamente discutibili - di considerarsi per l’appunto un popolo, questa sua scelta va rispettata in termini assoluti.
Ti sembrerà strano, ma è l’unica eredità del patrimonio teorico di Lenin che io rispetto integralmente e che vale ancora al cento per cento. Se guardiamo retrospettivamente, vediamo che Lenin ha oscillato in continuazione e su questioni fondamentali (dalla incomprensione della teoria della rivoluzione permanente alla concezione del partito, dall’uso strumentale della democrazia alla Nep, per non parlare dello spazio concesso alla burocrazia in ascesa); ma sulla questione dell’autodeterminazione dei popoli ha avuto ragione sempre e ce l’ha ancora oggi.
Tra l’altro ti segnalo che è l’unico campo teorico in cui Lenin non ha fatto svolte o zig zag. Su tutti gli altri temi che ho nominato - ma anche su altri, come il terrorismo, i sindacati, i soviet, lo Stato, l’economia di transizione, l’Internazionale, il rapporto con i menscevichi e altri partiti - ha fatto svolte e controsvolte. Sull’autodeterminazione dei popoli, invece, dal 1913 in poi non ha mai cambiato orientamento e, in punto di morte, la sua ultima battaglia (contro Stalin) è stata proprio sull’autodeterminazione. Ci ha lasciato un insegnamento che vale oro: il principio di autodeterminazione è un diritto assoluto dei popoli e non relativo.
Un altro punto?
Il quinto, sulla democrazia diretta e contro le caste o burocrazie politiche. Per l’Italia ha un’importanza particolare perché da noi la degenerazione del sistema parlamentare è arrivata a toccare storicamente il fondo. O, detta in altre parole, è il paese in cui la crisi del sistema parlamentare è più avanzata che in qualsiasi altra parte del mondo. Ciò significa che in Italia noi di Utopia Rossa non partecipiamo minimamente alle elezioni politiche e facciamo campagna per l’astensione. Per le amministrative il discorso è più complicato, ma anche meno importante. In pratica andrebbe deciso caso per caso (comune per comune, provincia per provincia, regione per regione), ma il risultato in genere non cambia. Il discorso che facciamo per l’Italia vale anche per la Francia, gli Stati Uniti, la Germania, il Giappone. In paesi dipendenti o semidipendenti si può valutare caso per caso e momento per momento. In un recente incontro con UR, anche Douglas Bravo ci ha detto che a suo avviso nemmeno in Venezuela si deve più partecipare alla farsa elettorale, in primo luogo perché diseducativa per la formazione mentale dei giovani e poi per altre considerazioni politiche sul chavismo.
Votare o non votare è una scelta tattica. Il problema reale è la democrazia diretta e la lotta a morte (ripeto, a morte) contro gli apparati politici, le caste, le burocrazie che si frappongono nello scontro di classe tra i settori più avanzati dell’umanità e le borghesie nazionali. Inutile dire che anche il rifiuto della forma partito per i rivoluzionari rientra in questa visione radicale della degenerazione politica.
Cosa sono state storicamente la socialdemocrazia e lo stalinismo? Come si è differenziato il movimento trotskista rispetto a queste due correnti del movimento operaio?
Il movimento operaio storicamente è stato e continua tuttora ad essere fondamentalmente socialdemocratico. È la socialdemocrazia che incarna la continuità del movimento operaio. Può non piacere, ma nel 2011 non si può più negare questa realtà storica. Solo i partiti socialdemocratici sono sopravvissuti in alcuni paesi importanti e solo loro hanno un seguito di massa specifico tra i lavoratori. La funzione storica dei sindacati spiega questa loro permanenza e relativa egemonia nel tempo. Nelle varie fasi del processo di degenerazione della socialdemocrazia sono nate altre correnti, tra cui fondamentale è stata alle origini quella leninista-trotskista, per quanto breve sia stata la sua esperienza storica. E poi quella staliniana. (Lascerei da parte l’esperienza del rapporto classe operaia-peronismo, affascinante ma complicata e alla quale comunque ho dedicato un mio libro negli anni ’70.)
Lo stalinismo è cresciuto all’interno del movimento operaio diventandone l’organizzatore dei settori più combattivi. Molti anni fa avrei detto dei settori più avanzati, ma ora sto attento a non dirlo. Il movimento operaio stalinista non è stato il più avanzato per il semplice fatto che ha coperto e fatto suo il grande crimine contro l’umanità rappresentato a imperitura memoria dal gulag. Un importante settore di classe sociale russa e internazionale che ha accettato e fatto sua (sia pur passivamente) l’esperienza del gulag è un settore di classe sociale retrogrado, condannato a non poter mai esercitare un ruolo sociale egemone, anche in vista del fatto che la borghesia internazionale, invece, ha saputo scrollarsi di dosso le (cor)responsabilità del nazismo, cioè di un’esperienza altrettanto atroce, ma più breve e quantitativamente meno tragica del gulag staliniano con i suoi oltre venti milioni di morti.
E permettimi di tornare ancora una volta al patto di Hitler con Stalin che io considero uno spartiacque nella storia mondiale. Non voglio più sentir parlare di persone che giustificano quell’alleanza strategica, operativamente aggressiva nei confronti della Polonia, dell’Europa orientale e dei Balcani (senza contare il rinnovo del patto con l’adesione giapponese). Chi lo fa è moralmente responsabile dei crimini congiunti del nazismo e dello stalinismo in quel primo anno e mezzo di guerra, compreso il massacro dell’inerme popolo russo quando partì l’Operazione Barbarossa e i nazisti poterono approfittare della fiducia cieca e stupida che Stalin aveva riposto nel patto. Non solo. Col tempo sono arrivato anche a pensare che senza quel patto scellerato la guerra mondiale probabilmente non sarebbe nemmeno cominciata. Infatti, Hitler non avrebbe avuto la possibilità di aggredire ad occidente se non avesse avuto le spalle coperte ad oriente. Quindi, a Hitler e Stalin congiunti dobbiamo addossare anche la responsabilità del più grande massacro che l’umanità abbia conosciuto.
Per capire come ci collochiamo riguardo alle varie correnti del movimento operaio, va detto che alla base del pensiero di Utopia Rossa c’è il fatto di non accettare neanche la scissione del 1872-74 nell’Associazione internazionale dei lavoratori, cioè della Prima internazionale, di cui la principale responsabilità ricade su Marx. Quella scissione (contro Bakunin e gli anarchici) la consideriamo la prima grande tragedia che ha spalancato la porta a tutte le altre. Con quella scissione è passato il principio che deve prevalere una determinata linea politica, che la si deve accettare per disciplina e che chi non l’accetta se ne deve andare a creare una propria internazionale: cosa che gli anarchici fecero, ma senza grande successo, a differenza di tutte le altre correnti presenti in seno all’Associazione internazionale dei lavoratori: owenisti, saintsimoniani, coooperativisti, proudhoniani, mazziniani, garibaldini, fourieristi, marxisti di vario genere, indipendentisti antizaristi e antiasburgici di vario genere ecc.
Per non farla troppo lunga: quella separazione iniziò a spaccare in due il movimento operaio. Ripeto spesso la frase seguente: con la separazione i marxisti si sono portati via la ragione mentre gli anarchici si sono portati via l’etica. Queste due meravigliose facoltà della specie umana da allora non si sono più incontrate al livello di massa. E ormai, per giunta, i marxisti non hanno neanche più la ragione e gli anarchici non hanno neanche più l’etica. Si è tutto disperso in mille rivoli, partitini, gruppetti, associazioni localistiche ecc. Senza quella separazione probabilmente la degenerazione della socialdemocrazia sarebbe stata diversa, forse sarebbe stata minoritaria e non maggioritaria. Non possiamo sapere. La storia non si fa con i se, ma non c’è dubbio che la separazione favorì il processo di degenerazione statalistica e filocapitalistica della socialdemocrazia. Utopia Rossa non è così folle da pensare di far fare marcia indietro all’umanità che lotta (anche se come sogno non mi dispiacerebbe). Pensa, però, che sia uno dei suoi obiettivi quello di superare quella separazione, certamente sotto il profilo teorico, ma anche nel suo piccolo, sul terreno pratico, con l’esempio e la sua semplice esistenza.
Oggi, dopo la caduta del Muro di Berlino e del «socialismo reale» e, parallelamente, dello slittamento della socialdemocrazia in un social-liberismo hanno ancora senso le categorie interpretative quali socialdemocrazia e stalinismo oppure no?
No. Non hanno senso.
Neanche il trotskismo a questo punto.
No, il trotskismo non è mai stato una categoria interpretativa in senso storico, tranne forse nella fase più cruenta della battaglia contro Stalin. Credo che nemmeno lo stesso Trotsky abbia pensato a questo nel fondare la Quarta nel 1938 e nel prendere atto che non esisteva già più nel 1939. Quindi, tranne la battaglia in quel periodo specifico, il trotskismo (sperando di concordare sul significato del termine) non ha avuto alcuna funzione pratica storicamente significativa. In campo teorico ha invece dei grandi meriti. E comunque su questo terreno nessun’altra corrente può competere con lui. I libri, le riviste, gli intellettuali - da Naville a Mandel, da C.L.R. James a Serge a decine di altre menti prestigiose – stanno lì a dimostrarlo. Per non parlare dei tanti che attraverso il trotskismo sono passati e se ne sono poi allontanati.
Nel momento in cui nego che il trotskismo abbia avuto un ruolo storico concreto nel combattere lo stalinismo, devo però riconoscere che 1) per lo meno lo ha tentato. per decenni e pagando prezzi umani inenarrabili, e 2) nessun’altra corrente ha saputo far di meglio o di più. Anzi, chi ha potuto si è prima o poi accomodato. Pensiamo al Partito socialista italiano…
Come mi hai appena detto, le categorie interpretative come stalinismo, socialdemocrazia e trotskismo non sono più valide. E quelle di riformismo e rivoluzione?
Nemmeno loro. Perché il riformismo non esiste e di fatto come realtà storica non è mai esistito. L’aspirazione alla rivoluzione invece esiste. Ma appunto, è un’aspirazione, un fatto mentale e spirituale, un fatto teorico anche se per alcune persone che conosco, nell’epoca del Web è diventato un fatto essenzialmente virtuale. Credo che nessuno possa considerare riformismo il fatto che determinati partiti stiano nel gioco parlamentare e propongano alcune misure per poter poi vincere le elezioni. Riformismo non è questo. Come ho detto precedentemente, anche su questo terreno ci si è fermati al confronto teorico di inizi del Novecento quando il riformismo sembrò assumere una veste statuale, configurandosi nell’operato della socialdemocrazia tedesca. Ma poi andò come sappiamo, con il voto dei crediti di guerra.
Agli inizi della mia vita politica (seconda metà degli anni ’60) si usava il termine «riformista» come epiteto (offensivo) nei confronti dei socialdemocratici, che riformisti non lo erano per niente. Le riforme le faceva la borghesia. Le grandi nazionalizzazioni in Francia le ha fatte De Gaulle, la nazionalizzazione dell’energia elettrica in Italia l’ha fatta Fanfani. E sono governi a egemonia democristiana che hanno istituito le regioni, adottato lo Statuto dei lavoratori, abolito le gabbie salariali o varato il nuovo diritto di famiglia. Se c’è un riformismo, questo l’ha messo in pratica la borghesia nei paesi in cui ha potuto disporre del surplus sociale per farlo (emblematica, ma limitata nel tempo, l’esperienza ultrariformista del primo governo Perón).
Essere «riformista» è un’aspirazione latente nell’ideologia della borghesia, corrispondente al significato del termine: cioè riformare il sistema. Noi sappiamo, a partire dal primo Novecento - e il marxismo (Rosa Luxemburg in primo luogo) ce lo ha spiegato a iosa - che una riforma strutturale del sistema capitalistico non è più fattibile. Ma l’aspirazione rimane come fatto ideologico e non necessariamente in malafede: il movimento no-global o il mondo teorico della decrescita è pieno di queste aspirazioni alla riforma del sistema capitalistico che ovviamente non hanno nessuna possibilità di realizzazione finché il controllo privato dei principali mezzi di produzione terrà escluso dalle leve decisionali il mondo del lavoro materiale e mentale (e all’interno di questo, in primo luogo il mondo della scienza).
La socialdemocrazia in generale non è stata riformista, anche se a volte ha agitato lo specchietto delle riforme per meglio inserirsi nell’apparato statale e di lì far pagare i prezzi dell’accumulazione o delle crisi capitalistiche ai lavoratori. Noi della ex estrema sinistra, che all’epoca denunciavamo come «riformisti» i partiti comunisti filosovietici (Pci, Pcf, Pce - ancor prima della favola dell’eurocomunismo), sbagliammo. Dove si è mai visto un riformismo staliniano o dei Pc? Qualcuno lo ha visto nel Cile di Allende? O nel governo D’Alema? O con l’Union de la Gauche mitterandiana?
Oggi, quando si usa l’espressione riformista, per esempio nei confronti di Rifondazione comunista, si rasenta il ridicolo, perché questa minicasta, questo apparato elettoralistico, ogni volta che è andata al governo (Comunisti italiani due volte e Bertinottiani una sola volta) vi è andata per fare le stesse cose che facevano gli ex comunisti, gli ex socialisti, nonché i fascisti, la destra e Berlusconi. Non dimenticheremo mai il voto a favore dell’avvio della missione in Afghanistan (luglio del 2006) che vide nei due rami del Parlamento italiano una unanimità che andò dai rautiani ai due senatori della Quarta-Sinistra critica (Turigliatto e Malabarba), passando per comunisti italiani, rifondaroli, verdi, gay, donne e minoranze etnico-linguistiche.
Veniamo al presente. La crisi del sistema economico e sociale del capitalismo d’oggi propone nuovamente dei conflitti. Tra questi il conflitto capitale-lavoro è ancora la contraddizione principale del sistema capitalistico? Se sì, come si rapporta con altri conflitti come ad esempio la questione di genere, quella ambientale o dei diritti civili?
Io ho difficoltà a risponderti perché da molto tempo mi sono liberato del linguaggio hegeliano e di quanto di hegeliano c’è in Marx; quindi l’idea se la contraddizione capitale-lavoro sia la principale oppure no è un linguaggio che fatico a capire. Non so più cosa voglia dire, perché non accetto più questo tipo di terminologia formale e astratta, buona per giochi linguistici di ogni genere o per costruirci sopra le carriere accademiche dei marxologi già ricordati.
Non c’è dubbio che il capitale (cioè la classe borghese imperialistica ancora suddivisa in appartenenze statuali nazionali) domina su scala mondiale e domina tutto: il mondo materiale, spirituale e virtuale. Domina i conflitti di genere, domina le guerre, domina l’economia, domina lo sfruttamento, domina le ideologie e domina soprattutto la crescita esponenziale dei meccanismi onnipervasivi della società dello spettacolo. Su una cosa almeno, non possiamo avere dubbi: il nemico continua ad essere il capitale e non è un fatto virtuale, trattandosi delle persone fisiche che costituiscono la borghesia, anche se difficilmente individuabili dietro le varie forme di aziende (private, miste ecc.) o società di capitale. Questa classe sociale è diventata il nemico principale non più soltanto dei lavoratori, ma di masse sempre crescenti di cittadini della terra, indipendentemente dalla loro collocazione produttiva: membri della specie che possono lavorare o non lavorare, essere poveri o ricchi, maschi o femmine, giovani o vecchi, religiosi o atei - ma che comunque cominciano a sperimentare sulla propria pelle, quindi a vedere che la sopravvivenza del capitalismo mette in pericolo la sopravvivenza della Terra.
La sesta frasetta di UR è non a caso «salvare la Terra, salvare l’umanità». Personalmente, poiché ci credo molto e mi raffiguro fisicamente il concetto di specie (totalmente estraneo e incompatibile con il linguaggio per contraddizioni hegeliane di cui si diceva poco fa), mi aspetto che la specie sia capace per istinto di sopravvivenza di liberarsi del capitalismo. Ma francamente non mi aspetto più che siano solo i lavoratori a toglierci il capitalismo di torno perché l’occasione storica l’hanno avuta, l’hanno dilapidata ai primi del Novecento e hanno consentito che in nome loro la grande speranza del comunismo si trasformasse nel sistema del peggior crimine contro l’umanità che si sia mai visto. Come vedi, si torna sempre allo stalinismo; e purtroppo ci si dovrà tornare ancora a lungo finché l’umanità non lo avrà rigettato, assumendosi così un compito storico che il movimento operaio non è stato capace d’assolvere.
Mi stai dicendo che il soggetto della trasformazione sociale non è più la classe operaia bensì l’umanità intera?
L’umanità quasi intera nelle sue parti consapevoli, anche se io preferisco utilizzare il termine preso dalle scienze biologiche («specie») piuttosto che quello preso dalla filosofia o dalla letteratura («umanità»). Avendo tempo potrei provarmi a spiegare la differenza.
Umanità o specie che sia, diventa interessante a questo punto capire la dinamica, la formazione e la diffusione dei processi di acquisizione di consapevolezza. La crescita di consapevolezza, infatti, procede secondo i princìpi classici dello sviluppo ineguale e combinato (altro grande contributo teorico di Trotsky): a volte è in luogo geografico (tipo la Cuba dei primissimi anni ’60), a volte in un movimento specifico (per es. le collettività della Catalogna nel 1936-37), a volte all’interno di un sesso in una fase determinata (la ripresa del femminismo negli anni ’60), i gay in certi paesi, a volte in certe comunità culturali (penso a esperienze situazioniste, ma anche, perché no, all’attuale Utopia Rossa e alle tante altre esperienze analoghe che sicuramente stanno crescendo a nostra insaputa). L’esperienza mi ha invece dimostrato a iosa che questi processi non vivono mai un’evoluzione positiva nell’esperienza dell’intelletuale isolato e preoccupato solo di se stesso, dei propri libri, della propria carriera, del proprio narcisismo. Non mi viene alla mente neanche un singolo esempio, benché di intellettuali capaci ne abbia conosciuti a bizzeffe in giro per il mondo, a volte veramente capaci, ma non interessati alla costruzione di processi collettivi di acquisizione di consapevolezza…
Scusami se t’interrompo. La consapevolezza di cui parli è stata storicamente la coscienza di classe, oggi, messa nei termini che hai posto, o è una consapevolezza differente?
È una coscienza che deve anzitutto avere un connotato negativo, cioè essere anticapitalistica. Quando, per es., ci impegniamo nel movimento femminista, noi affermiamo che il movimento femminista dovrebbe fondere la critica al maschilismo, all’autoritarismo patriarcale con quella anticapitalistica, benché ciò non si verifichi ancora nella realtà di alcun paese. Il movimento femminista è stato anticapitalistico in alcune sue frange, limitatamente ad alcuni paesi (Usa, Francia, Italia…) e ai suoi inizi (fine anni ’60, inizio dei ’70), ma in senso generale non lo è mai stato, anche se si spera che un giorno arriverà ad esserlo. Quindi, su chi sia il nemico globale, c’è chiarezza: è il capitale. E di questo occorre prendere consapevolezza, nei mille e uno modi possibili offerti dalla «biodiversità» degli esseri umani.
Tuttavia, a questo nemico così chiaramente individuato, non si contrappone più un soggetto sociale unico, portatore nel proprio DNA dei germi per la trasformazione, bensì strati e settori diversi e frammentati nella misura in cui riescono a prendere consapevolezza (il termine «movimenti» andrebbe anche bene, ma non mi piace per l’Italia dove - nella testa di molti - s’identifica con i grandi cortei-spettacolo, con gli scioperi puramente dimostrativi o con momentanee fiammate d’insubordinazione a livello locale determinate per lo più dai problemi dell’acqua, dei rifiuti, degli inceneritori e problematiche affini). Strati e settori che magari non si muovono in termini di lotta (fisica, visibile), ma riescono in qualche modo a evidenziare l’irrisolvibilità di uno o più determinati problemi sociali e/o culturali.
Ci può essere per es. una radicalizzazione di fisici nucleari in uno o più paesi che denunciano sulla stampa o via Web la pericolosità delle nuove centrali nucleari. Non è indispensabile che facciano scioperi o scendano in piazza: è un movimento di opinione che può incidere profondamente in senso anticapitalistico. Lo stesso dicasi per una corrente di magistrati che contesti il carattere antidemocratico e di classe della giustizia. Degli urbanisti che presentino dei libri bianchi sulla speculazione edilizia. Degli editori che smettano di correre dietro alle mode dettate dalla televisione… Dei teleutenti che comincino a spegnere le maledette scatole catodiche… Insomma, una serie di «agitazioni» sociali che sono inevitabilmente destinate a scontrarsi con il sistema del capitale se vogliono essere coerenti con le proprie premesse.
Per il loro sviluppo è fondamentale agli inizi la fase propagandistico-divulgativa (in questo noi editori avremmo delle responsabilità e delle potenzialità gigantesche). Ma appena si muovono i primi passi diventa essenziale il problema della democrazia diretta. Finché questo problema non si risolve, i cosiddetti «capi naturali» di questi movimenti finiranno inevitabilmente sulle liste elettorali delle prossime elezioni amministrative, o nell’organico di qualche sindacato o partito, o nella vetrina televisiva prontamente predisposta dalla società dello spettacolo. Mentre del «movimento» due anni dopo non si ricorderà più nessuno (vedi aeroporto di Vicenza o la Tav in Val di Susa).
Mi fai una lettura della crisi economico-sociale attuale? Quali le cause?
Sul piano teorico, mi riconosco grosso modo in ciò che già diceva Rosa Luxemburg, e cioè che il capitale da tempo non incontra più nuovi terreni di espansione (valorizzazione), né al proprio esterno, né al proprio interno. Penso quindi che a un livello di massima astrazione la si possa definire ancora come una crisi di sovrapproduzione di capitale che si sovrappone talora a una sovrapproduzione di merci (esistendo, però, a volte per quest’ultime la possibilità di nuove dislocazioni). Sono comunque due fonti di crisi strutturalmente distinte e che non sempre coincidono. Mi sento a disagio, comunque, a parlare di questi problemi macroeconomici in poche battute e francamente preferirei rinviare ai due volumi di Michele Nobile già citati (uno del 1993, più attuale che mai, e uno del 2006, nella collana «Utopia Rossa»).
Rispetto alla crisi economica mi situo per tradizione tra gli anticatastrofisti (e siccome sono ormai quasi quarant’anni che predico prudenza in questo campo, mi vado rafforzando nelle mie convinzioni). Se vai a rileggere alcuni documenti della battaglia che facemmo come Terza tendenza internazionale troverai molta polemica contro il catastrofismo economico che furoreggiava nella Quarta degli anni ’70 e che all’epoca faceva capo però direttamente a una grande mente come Ernest Mandel.
Ora, quando leggo i necrologi a breve scritti da gruppetti o singoli pensatori (li chiamo «i da soli ideologici») mi viene solo da sorridere e non sento il bisogno di aprire la polemica. Ci pensa ogni volta il passare del tempo a mostrare di quante carte disponga la borghesia internazionale per risolvere i propri problemi economici finché restino soltanto economici. Mai però che io possa leggere una linea di autocritica da parte delle nuove leve catastrofistiche. Niente, stanno già pensando al prossimo necrologio del sistema e magari ritengono che a un certo punto la crisi risolutiva dovrà pure arrivare. Chissà, magari un giorno finiranno con l’avere ragione; ma al momento stanno solo confondendo i propri sogni con la realtà (a parte il fatto che un crollo del sistema per incapacità a sormontare la crisi economica io non lo sogno per niente - il passaggio dei poteri me lo immagino più dignitoso, più collettivo e più costruttivo).
Vedo l’avvicendarsi delle crisi (e delle riprese) economiche a distanza sempre più breve (come già spiegava la teoria delle onde lunghe di Kondrat’ev, un altro poveraccio assassinato dallo stalinismo e stimato da Trotsky), ma non vedo una conseguente crisi della borghesia internazionale, né in termini politici, né in termini culturali più grave dei decenni passati: possibilmente la vedo meno grave e penso che dalla fine della Seconda guerra mondiale, questo sia il suo momento di massimo splendore. Spero ovviamente che, come accade ai grandi Imperi (quello romano per es.) l’apice del potere e della manovrabilità apra un periodo di nuova ed effettiva decadenza e quindi di grande vulnerabilità del sistema.
La storia del capitale è una storia di crisi su crisi. Il capitale è cresciuto nei secoli attraversando e risolvendo le proprie crisi, per lo più con espedienti non-economici, cioè politici o militari. Del capitale non bisogna sottovalutare la capacità di rigenerarsi ad ogni latitudine del globo e nei più impensabili regimi politici. Il capitale ha la possibilità di scaricare gli effetti delle crisi o con metodi tradizionali: facendole pagare ai lavoratori, facendo le guerre - che sono in primo luogo distruzione di merci, ma anche di forze produttive e che permettono di riavviare il meccanismo economico - o escogitando nuove soluzioni, per es. in campo tecnico-informatico o con un’ulteriore crescita abnorme della società spettacolare. Non mi chiedere come si colloca in tutto ciò la Cina (paese capitalista a dittatura burocratica del partito unico) perché altrimenti non la finiamo più.
Insomma, il capitale ha tutti i margini di manovra possibili e immaginabili, perché non gli si contrappone un avversario credibile. Il movimento operaio non sembra destinato a riprendersi (e ho già detto che non si riprenderà senza preliminarmente un rigetto della mostruosità che è stato anche per lui lo stalinismo), senza contare i nuovi problemi che emergono lungo la strada, come la diffusione dell’integralismo islamico, la crescita esponenziale dei nazionalismi, la diffusione carismatica della società dello spettacolo nei paesi dipendenti e via discorrendo.
A cavallo dell’Ottocento e del Novecento l’avversario della borghesia era apparso in tutta la sua temibilità: ed era il movimento operaio di alcuni paesi chiave in Europa (ma anche negli Usa della Iww, degli Wobblies). Ora l’unico limite alla sua sicumera e manovrabilità dei destini del mondo appare, come ho detto prima, la salvaguardia dell’umanità e della specie.
Il capitale, storicamente, è incapace di far fronte alle problematiche di salvataggio della Terra, in primo luogo perché non ne ha esperienza, come classe. In secondo luogo, globalmente non può far fronte alle esigenze ambientali, perché è per lui una contraddizione in termini: la ricerca del profitto costi quel che costi è incompatibile con la socializzazione dei principali mezzi di produzione su scala mondiale. Oggigiorno, se proprio vuoi ragionare in termini di contraddizione principale, in omaggio alla tradizione hegeliana del marxismo, essa è tra la salvaguardia della specie e il capitale (cioè la gestione privata dei principali mezzi di produzione). E in quanto tale è insanabile. Sempre che la specie non decida di collaborare a risolvergliela, presa da improvviso raptus autodistruttivo. In tal caso essa dimostrerebbe di non essere una specie e che gli scienziati, prima e dopo Darwin, si sono sbagliati.
Nella costruzione di un «altro mondo possibile», per usare una fraseologia dei movimenti antiglobalizzazione degli anni passati, o comunque di un’alternativa di società in generale, le coordinate «rivoluzione» e «internazionalismo» sono ancora valide? Se sì, che tipo di rivoluzione e che tipo di internazionalismo?
Sì, più che mai. Sempre di più in forma crescente. Per la seconda parte della domanda non ho più spazio e rinvio quindi ai contenuti delle risposte precedenti.
Oggi, come può essere riproposto un concetto rivoluzionario?
In negativo, come sempre, è più facile: abolizione del capitale e cioè della proprietà privata dei principali mezzi di produzione su scala mondiale. Questo dev’essere il punto di arrivo di un processo rivoluzionario. Invece, descrivere la rivoluzione in positivo vuol dire essere in grado di costruire un sistema razionale di gestione dell’economia e dei rapporti sociali su scala mondiale. Questa è la novità. Non esiste più la prospettiva di prendere il potere in un paese solo. È impensabile, è retrogrado e tra l’altro irrealizzabile.
Quindi è una di quelle lezioni storiche che abbiamo imparato dall’esperienza della socialdemocrazia e dello stalinismo.
Sì. Chi non l’ha ancora imparato non ha fatto i conti con la storia.
Per tornare al concetto di rivoluzione, io non ho ben chiaro come sarà la rivoluzione, ma dovrà misurarsi forzatamente con l’aspetto in negativo e quello in positivo che ho detto. Tuttavia, sul processo rivoluzionario ti dico una cosa chiara e netta: basta con gli apparati che si sono sostituiti nel passato alle classi sociali ed oggi si sostituiscono alla specie. Non è possibile che degli apparati risultino più bravi socialmente della classe borghese che ha invece dimostrato una bravura storica eccezionale per il conseguimento dei propri interessi in tutti i campi possibili e immaginabili. Il tentativo velleitario di batterla contrapponendole un apparato, già folle quando veniva proposto ai primi del Novecento, è oggi solo e soltanto risibile. Tutto ciò che è estraneo al corpo sociale, che ci si sovrappone o ci si infila di fianco, è negativo e viene comunque vissuto dagli stessi cittadini come qualcosa di estraneo al corpo sociale.
Vuoi che estremizzi il concetto? Ebbene, gli apparati sono tutti negativi, i partiti sono tutti negativi, la loro funzione storica è fondamentalmente negativa: la borghesia l’ha capito da tempo e per questo si serve di apparati e partiti, ma senza identificarvisi. Quando ciò accade (vedi l’ultimo fascismo italiano o il nazismo tedesco) se ne libera con una scrollata di spalle.
Visti in rapporto al singolo obiettivo (il singolo «item» dicevano un tempo i compagni del Swp statunitense, prima di trasformarsi in una centrale propagandistica del castrismo negli Usa) o in rapporto alla soluzione di un problema circoscritto, vale a dire in senso immediato, i partitini e i loro surrogati (come i centri sociali, l’associazionismo di solidarietà con paesi esteri, determinate giunte elette su lista civica ecc.) possono avere anche una funzione momentaneamente positiva: se per es. c’è da aiutare gli immigrati che sbarcano, i giovani della Federazione della sinistra (pochini, in verità) lo faranno probabilmente meglio della Croce Rossa o dei Carabinieri. Idem se bisogna togliere i rifiuti dalle strade o salvare dei giovani dalla droga. Di più, francamente, non vedrei. Invece di danni che vengono fatti da questi partitini e dai loro apparati ne potrei elencare a centinaia. Anzi, li abbiamo elencati in due libri della collana «Utopia Rossa»: nel mitico I forchettoni rossi e ne Le false sinistre.
Con questo non voglio dire che sono contro qualsiasi tipo di organizzazione. Intanto sono a favore del sindacalismo, anche se in termini molto diversi da ciò che vediamo. E in campo politico basta mettersi d’accordo sul principio libertario (niente obblighi programmatici), antigerarchico (niente capi istituzionali, congressi e statuti - anche se vi saranno sempre gradi di maggiore o minore impegno e influenza) e sul volontariato (niente funzionari pagati, nessuna carriera o tornaconto economico). UR ha la presunzione enorme di essere il primo raggruppamento rivoluzionario che sia riuscito a mettere in pratica tre cose che sembravano irrealizzabili: 1) operare collettivamente (per ora come comunità politica internazionale) senza un apparato; 2) far convivere costruttivamente ideologie diverse tra loro, tracciando una linea di demarcazione rivoluzionaria solo sulla base di alcuni principi; 3) porre l’etica al primo posto.
Veniamo alla domanda successiva. Nel concetto di rivoluzione e nella conseguente trasformazione della società in che maniera si pone la questione del potere? Negli ultimi anni, all’interno dei movimenti sociali, abbiamo sentito moltissime volte lo slogan «cambiare il mondo senza prendere il potere». La questione del potere è ancora centrale?
Quello slogan è sospetto ed è suscettibile di varie interpretazioni. Ognuno gli dà il significato che vuole (ora va di moda il concetto di «buen vivir»…). Sicuramente risponde a un’esigenza pacifista molto forte, ma ciò non toglie che sia ambiguo. Io so che il potere reale esiste e ritengo che vada distrutto. Non ci sono dubbi. Non dobbiamo «prendere il potere»: lo dobbiamo distruggere e sostituirlo con l’organizzazione che si danno coloro che partecipano collettivamente a questo processo. Sul tipo di organizzazione per fortuna non ho le idee chiare: guai ad avercele - si entrerebbe in un campo di utopia descrittiva, spesso sciocca, sempre ingenua.
A livello di fabbrica sono senza dubbio per l’autogestione operaia, ma non vuol dire che quella scelta valga anche per il quartiere. Quindi, un decentramento di tante comunità (micro o macro, a seconda dell’oggetto da gestire) che si coordinano in direzione piramidale, arrivando in tal modo a una qualche forma di centralizzazione. Ripeto che non ho chiaro cosa sostituirà l’apparato statale distrutto - certamente non un altro Stato e nemmeno i Soviet, visto come si sono fatti esautorare nel giro di pochi mesi l’ultima volta che essi nacquero e presero il potere.
Su questo terreno credo ancora nella necessità della violenza, anche se mi piacerebbe tanto farne a meno. Ma purtroppo il processo di riconquista della proprietà sociale dei principali mezzi di produzione non sarà pacifico. Lo sarà solamente, come diceva Guevara, per gli ultimi. Non sono un pacifista, ma lo fui in epoca liceale (erano le prime lotte per l’obiezione di coscienza) e ho smesso di esserlo dal 1966 quando, davanti all’ambasciata Usa, i celerini mi massacrarono di botte perché ero seduto a terra, in prima fila, e davo loro le spalle. C’era il Vietnam e l’anno dopo moriva Che Guevara. Come si poteva continuare ad essere pacifisti?
Mi piacerebbe poterlo essere (in tal caso prenderei a modello Gino Strada), ma la non-violenza sarà solo uno slogan finché vi saranno le guerre, parlamentari che le votano e soldati che sono disposti a combatterle anche perché nessuno più dice loro di disertare, ma soprattutto perché come mercenari ricevono un sacco di soldi.
Sul tema dell’internazionalismo che mi dici?
Dal punto di vista individuale la mia vita politica è stata sempre, al cento per cento, quella di un internazionalista. Aderii alla Quarta nel 1966 (avevo vent’anni), ma la frequentavo già da qualche anno perché mia sorella, Rossana Massari, vi era entrata nel 1961.
Espulsi dalla Quarta nel 1975 demmo vita a un’organizzazione internazionale - la Frazione marxista rivoluzionaria - con la sua principale sezione in Germania, e sezioncine in Italia, Austria, Francia, rapporti in Portogallo e in Inghilterra e poco più. Ci autosciogliemmo nel 1980 per non dar vita all’ennesimo partitino internazionale.
Nel 1983 tenni una riunione a Firenze con i pochi compagni che restavano e spiegai perché era finita storicamente l’epoca della Quarta internazionale e si apriva quella della Quinta. Una relazione fiume di cui conservai la registrazione e che ho trascritto e pubblicato di recente, in occasione della nostra discussione come UR sulla proposta fatta da Chávez di dar vita a una Quinta internazionale ad aprile 2010. Decidemmo di partecipare al progetto e gli scrivemmo una lettera documento spiegando che a nostro avviso una Quinta internazionale si sarebbe dovuta costruire sulla base dei nostri 6 princìpi o procedure analoghe. Chávez lasciò cadere la cosa, senza neanche una parola (probabilmente giocò molto l’opposizione nazionalista del governo cubano che non aveva alcuna intenzione di aderire). Mentre noi siamo andati avanti.
Il nostro blog si apre all’insegna della necessità di costruire la Quinta internazionale - un’internazionale composta fondamentalmente di movimenti, associazioni ecc., ma fondata sui princìpi sopra elencati. Per ora ci limitiamo a dare l’esempio che il modello libertario può funzionare. In programma c’è un libro sul tema da scrivere a più voci.
Io ho finito le domande. C’è qualche cosa degli argomenti che abbiamo toccato su cui vuoi ritornare per approfondimenti e precisazioni?
Non abbiamo parlato della società dello spettacolo, che per noi di UR è fondamentale. Mi riferisco sia al libro di Debord del 1967 (che è tra i libri che vendo di più come editore e che è stato curato dal nostro esperto in situazionismo - Pasquale Stanziale), sia all’attualizzazione di quella visione critica della società in cui viviamo. Qui sarebbe lungo spiegarlo, ma la maggior parte di noi in UR ritiene che la società dello spettacolo sia oggi l’arma principale di dominio nelle mani del capitale e che invece, come teoria critica dell’esistente, consenta di spiegare alla perfezione la politica dei partiti/partitini e dei loro capetti. L’esempio del bertinottismo (da me ampiamente analizzato nel libro sui Forchettoni rossi) è da questo punto di vista quasi didattico. La società dello spettacolo è quindi entrata nel bagaglio teorico dell’utopista rosso e chiede pressantemente di essere sviluppata nel contesto della Quinta internazionale.
C’è poi una nuova disciplina su cui abbiamo cominciato a lavorare come UR, chiedendo disperatamente aiuto a professionisti del settore psichiatrico. Mi riferisco alla psicopatologia politica. Abbiamo pubblicato delle schede sulla paranoia, sul narcisismo, sul culto del capo carismatico ecc. e abbiamo cominciato ad applicare queste categorie (questa diagnostica) allo studio del comportamento dei gruppi ideologici, dei partitini, dei loro capetti, dei loro rituali e delle loro gerarchie rassicuranti. Insomma, dopo aver per decenni condotto polemiche teoriche e politiche contro una gruppettistica che si è sostanzialmente dimostrata sorda alle critiche e non-disponibile al dibattito, abbiamo deciso di non analizzare più questi gruppi sulla base della linea politica che propongono (e in cui per lo più non credono), bensì come esempi di psicopatologia politica e cioè disfunzioni della personalità, isterie, paranoie.
Nessuno di noi può escludere che tali patologie si verifichino anche all’interno di Utopia Rossa. Capita che anche tra noi si manifestino questi sintomi e quando accade i nostri criteri libertari, etici e comunitari vengono messi a dura prova. Del resto, sarebbe da illusi pensare che UR sia un’isola di benessere psichico e di igiene mentale, che sfugge alle leggi del capitalismo, della frustrazione sociale e della società dello spettacolo.
Questo tipo di lettura comportamentale è stata per me una grande svolta, anche se già molti anni fa Antonella Marazzi mi spingeva in questa direzione. Era il tempo in cui sapevo tutto sulle linee politiche e la storia dei gruppi, in Italia e all’estero… Da un po’ di anni, invece, ho cominciato a vedere chiaramente che non si tratta di fenomeni politici, ma di disturbi della personalità. Per questi gruppi (nati spesso non si sa come e soprattutto non si sa perché) la presunta «linea politica» o la «teoria leninista del partito» o il «Programma» sono solo delle coperture psicologiche per degli stati d’insicurezza, già analizzati a suo tempo da Wilhelm Reich. L’apparatino, la complicità di gruppo, la disciplina leninista o trotskista, il rito del congresso, sono solo degli espedienti psichici per alleviare il malessere in questa società alienante. Per i più furbi, però, si trasformano in occasioni di carriera. E anche qui gli esempi non mancano.
Resta il fatto che i giovani che vanno a militare nei gruppetti sono persone insicure che sentono il bisogno di essere inquadrate dentro un apparato. Probabilmente hanno problemi con la figura paterna o materna e cercano dei sostituti con delle figure di autorità che non hanno avuto in famiglia. Lì, nel partitino, le trovano (per un certo tempo, ma non per sempre…).
In conclusione, mi dai una definizione di comunismo?
Il comunismo è il movimento, in primo luogo etico e necessariamente collettivo, dei settori più consapevoli dell’umanità che lottano per togliere la proprietà privata dei mezzi di produzione al capitalismo onde salvaguardare la sopravvivenza della specie.
Beh, è una definizione, quindi deve poter contenere solo l’essenziale. Ma mi sembra di non essermi perso nulla d’importante…
Bolsena, 10 aprile 2011
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