A seguito di un blitz dai contorni poco chiari Usāma bin Lādin (n. 1957) non è stato assicurato alla “giustizia” imperialistica, ma assassinato dopo la cattura. Personaggio complesso, per comprenderlo bisogna andare ben al di là della clownesca categoria di “sceicco del terrore” in cui i grandi mezzi di informazione “politicamente corretti” l’hanno opportunisticamente confinato, giacché si omette di spiegare per quali motivi politici e culturali Usāma bin Lādin abbia meritato tale appellativo, oltre a quello – di matrice tipicamente yankee – di “male assoluto”: A meno che non si voglia ridurre tutto all’ambito dell’antropologia criminale.
Al posto delle masse e il fine che giustifica i mezzi
Il nostro personaggio rientra nella foltissima schiera storica di quanti a) hanno ritenuto e ritengono che si possa validamente combattere il nemico creando un’organizzazione di avanguardia (se non addirittura clandestina) non legata alle masse oppresse dalla capacità di interpretarne i bisogni e di attivarne le lotte, bensì solo dalle emozioni in esse suscitate mediante azioni clamorose e in nome di un’ideologia dall’avanguardia stessa elaborata dogmaticamente; b) hanno creduto e credono che il fine giustifichi qualsiasi mezzo considerando il nemico in termini quasi subumani, massacrabile a piacimento prescindendo dal sesso e dall’età.
Da sottolineare però che sotto quest’ultimo profilo appartengono alla stessa schiera anche i nemici di bin Lādin, quand’anche non lo si dica apertamente: infatti - per limitarci a un solo esempio - se l’attacco alle Torri Gemelle è stato un crimine contro l’umanità, lo stesso dovrebbe dirsi per il bombardamento statunitense sui quartieri popolari di Panama quando venne catturato Noriega. Ma quando il crimine è made in Usa, si glissa. Comunque bin Lādin ha combattuto la bestia imperialistica con metodi degni di essa, e i suoi non hanno rispettato nemmeno le vite degli stessi musulmani.
Resta il fatto che inquadrare Usāma bin Lādin in un’ottica etico/criminologica è riduttivo, parziale e non fa cogliere il posto che gli spetta nel quadro della storia del mondo islamico. Lo stesso dicasi per l’ottica del combattente per una causa sbagliata e/o nemica. Sarebbe meglio, invece, visualizzare il personaggio da tre punti di vista: esistenziale, di collegamento con la politica statunitense quando ancora esisteva l’Unione Sovietica, di inserimento nell’Islām contemporaneo.
Visualizzarlo da tre punti di vista
Esistenzialmente bin Lādin è una figura di rispetto: figlio di un autentico multimiliardiario, appena ventiduenne in nome di una causa ideale lascia una vita di agi e va a combattere in Afghanistan contro i Sovietici e il regime di Kabul; dopo la vittoria continua la lotta contro gli Stati Uniti visto come nemico dell’Islām, usa le proprie ricchezze per condurre questa lotta, conduce un’esistenza da braccato senza godere quasi nulla della vita intesa in senso materiale. Come si suol dire, era uno “che ci credeva” e al suo credo ha dedicato e sacrificato tutto, e tutti. Non capita tutti i giorni. Ma è stato anche un personaggio ambiguo nei mezzi usati; poiché parte della sua ricchezza derivava anche da proficui affari conclusi dalla sua famiglia con la famigerata famiglia Bush; ma, si sa, per gli uomini di mondo pecunia non olet (il denaro non puzza).
Dal secondo punto di vista Usāma è stato il frutto diretto della politica estera degli Usa contro i Sovietici, facendo parte di un moderno integralismo islamico alla cui riemersione gli Stati Uniti hanno potentemente operato (grazie anche al governo saudita) con finanziamenti e appoggi di vario tipo, per fare dell’Afghanistan il Viet-Nam dell’Urss ma anche per finire di tagliare l’erba sotto i piedi agli ultimi movimenti arabi laici (così come la nascita di Hamas fu favorita da Israele contro al-Fatāh).
Passiamo ora al terzo e più importante aspetto, partendo dalla seconda “guerra santa” di bin Lādin, dopo la sconfitta sovietica in Afghanistan: la guerra santa contro l’imperialismo occidentale da lui visto come causa di ogni male e di ogni oppressione. In questa lotta – metodi a parte – egli si è schierato su un fronte ben diverso dal nostro, non denunciando il ruolo delle strutture economico/sociali (nello stesso mondo arabo e fuori di esso) e additando la soluzione di tutti i problemi nell’Islām salafita - quindi assolutizzando e adeguandosi a quella che in fondo è una versione/invenzione ideologica moderna e storicamente infondata. In questo Usāma è stato figlio del suo tempo.
La presunta innovazione salafita
Teniamo presente che nell’incontro-scontro fra modernità occidentale e mondo musulmano (iniziato con la conquista napoleonica dell’Egitto) ci sono state due fasi, entrambe all’insegna della frustrazione. Nella prima ha prevalso la spinta imitativa, da cui l’epoca delle riforme modernizzanti e di tipo “laico” (soprattutto in Tunisia, Egitto, Turchia, Siria e Libano): una strada al termine della quale virtualmente non sarebbe stato impossibile collocare riforme socio/economiche socialiste. Questa stagione storica è finita sotto le spinte congiunte degli assi imperialismo/borghesie locali (in abito civile o in uniforme) e imperialismo/sionismo-Israele. Il suo fallimento è andato a vantaggio del tradizionalismo religioso e da qui dell’innovazione detta salafita (poiché pretende di rifarsi ai primi seguaci del Profeta). In realtà si tratta di un’interpretazione coranica di comodo che oltrepassa secoli e secoli di civiltà islamica imponendo sul pensiero umano e sulle dinamiche sociali un ferreo rigorismo legalistico e ritualistico (da cui la visione di un enorme controllo su ogni aspetto della vita sociale) ma senza alcun effettivo progetto alternativo al capitalismo (nemmeno sul piano demagogico o propagandistico).
Tutto ciò corrispondeva forse ai bisogni spirituali e alle fantasie di bin Lādin e di altri come lui, ma non già alle necessità delle masse arabe e islamiche, per quanto la rumorosità del radicalismo islamico e la risonanza mediatica ricevuta in Occidente l’abbia fatto apparire come rappresentativo della protesta del mondo musulmano. Non deve quindi sorprendere che due regimi dittatoriali arabi siano crollati sotto la spinta delle masse, che altri siano sotto tiro e in Libia ci sia stato un embrione di guerra civile senza che sia risuonata una sola parola d’ordine mobilitatrice di natura islamica. Forse sta proprio nella “primavera araba” la grande sconfitta della battaglia di bin Lādin.
Effetti collaterali di una morte annunciata
Che la sua uccisione sia da considerare una grande vittoria imperialistica è dubbio, e anzi per il modo in cui è stata condotta potrebbe accrescere – e non solo in senso integralistico – l’ostilità antioccidentale: Usāma bin Lādin, infatti, ha pagato con la vita la sua sfida all’impero statunitense, a quello che per lui (e non solo) era l’impero “del male”, senza nemmeno la finzione di un processo, certamente pericoloso per gli Stati Uniti. Per assassinarlo i pretoriani dell’impero hanno arrogantemente violato la sovranità di uno Stato indipendente e alleato. E la sua morte non segnerà l’inizio di un vero disimpegno statunitense nelle aree strategiche musulmane occupate con la scusa del terrorismo di al-Qaida. Se e quando gli Usa ritireranno le truppe dall’Afghanistan dipenderà dalla sconfitta militare e politica in cui sono incorsi indipendentemente da bin Lādin.
E da come andranno le cose in quel paese si capirà se Washington deve pagare un prezzo politico al Pakistan per il colpo di mano ad Abbottabad; cioè se l’Afghanistan del dopo-Kharzai tornerà a essere un feudo dei servizi segreti pakistani. In questo caso saranno interessanti le reazioni di Iran e India, entrambi – sia pure per motivi diversi – ostili allo scenario che ne deriverebbe.
Usāma bin Lādin è stato ucciso, ma resta la situazione contro cui aveva creduto di poter combattere efficacemente; e restano i problemi sociali che la sua assolutizzante visione islamocentrica non gli aveva fatto vedere nella loro complessità e nelle loro cause strutturali. Pur non facendo parte del nostro “album di famiglia”, e anzi essendo in definitiva un nemico politico e culturale la cui vittoria avremmo visto in termini totalmente negativi, tuttavia con umana pietas può essere salutato per l’ultima volta non già il jihadista, ma l’uomo che ha dedicato la vita a combattere il nemico imperialista, a modo suo e per fini non condivisibili, ma in buona fede. Si spera che quanto prima altri riprendano la lotta contro l’Arcinemico imperialista, stavolta per finalità di vera liberazione sociale ed economica.
P.S. Il lettore avrà notato che non abbiamo preso minimamente in considerazione i molti dietrologi e complottisti (anche italiani molto noti) che per anni ci hanno spiegato che bin Lādin non esisteva, che era morto, che era un agente della Cia, che gli Usa si distruggono i grattacieli da soli e altre stupidità di questo genere. Costoro dovrebbero solo chiedere scusa ai loro lettori dopo quanto è avvenuto ad Abbottabad. Ma non credo che lo faranno, per via del disagio mentale che sta dietro a questo tipo di paranoie. Anzi, visto che il cadavere non è stato mostrato al mondo, non esiteranno a rilanciare ora il proprio armamentario complottistico in attesa che ci si dimentichi di quanto hanno scritto per anni e che emerga dalle nebbie il sostituto o il fantasma dello “sceicco del terrore”.
Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com