[Primo di una serie di articoli]
Finalmente in parte del mondo arabo sta accadendo quel che prima o poi doveva accadere. Nei mass media di maggior diffusione inviati speciali e opinionisti vanno ripetendo che in Tunisia, Egitto, Libia (ma anche Bahrein, Yemen ecc.) le situazioni sembravano sotto controllo da parte dei corrotti despoti locali e non ci si poteva aspettare che gli eventi d’improvviso sarebbero precipitati. Si tratta di una sonora banalità, per giunta infondata, poiché le sommosse e le rivoluzioni di rado scoppiano nel preciso momento in cui ce le aspettiamo; semmai quando esistono situazioni di “disagio” di massa, al limite della sopportazione (o oltre), si può solo nutrire la certezza (o la speranza) che prima o poi il popolo scenderà in piazza, determinato a non tornare alla vita quotidiana prima del radicale cambiamento delle cose. Di inatteso, quindi, non c’era nulla, al di là dell’ora X. Adesso ci si affanna a cercare di capire cosa potrà avvenire nell’immediato. Al riguardo va detto che ogni ipotesi al momento può essere considerata - per l’appunto - ipotetica, essendo prematuro formulare alcunché di sicuro. Non solo per l’oggettiva fluidità degli eventi in corso, ma anche per le differenze che esistono fra i vari paesi in cui le masse sono scese in campo. Pur tuttavia qualche considerazione – prudenziale – può essere fatta, ragionando sull’esistente.
In primo luogo è importante il fatto che ci si trovi di fronte a rivolte popolari spontanee e massicce, innescate da fatti considerabili come la classica scintilla che dà fuoco al pagliaio. Questa spontaneità era inevitabile a motivo dell’estrema debolezza delle opposizioni politiche classiche in quei paesi. Ci si poteva attendere una rivolta islamista, che invece non c’è stata, e nemmeno si sono visti i radicali islamici mettersi alla testa del popolo in rivolta. Almeno allo stato degli atti. Il che può fare sorgere dubbi sulla incidenza attuale dei “fondamentalisti islamici radicali”. E hanno destato sensazione le immagini della cairota piazza Tahir in cui, negli ultimi giorni della rivolta egiziana, venivano agitati insieme il Corano e la croce copta.
Con ciò non si vuole certo affermare l’inesistenza del pericolo islamista. Semmai ci si chiede se non sia stato ipervalutato, in buona e/o cattiva fede, sia per come si sono sviluppati gli avvenimenti di questi giorni, sia per una considerazione che non pare aver goduto di spazio nei media: già quando alla fine del secolo scorso l’Algeria fu teatro di un’atroce mattanza islamista (a cui si aggiunse quella governativa), nel resto del Maghreb non si verificò nessun contagio significativo, né appoggi di rilievo ai jihadisti algerini.
Al momento si potrebbe quindi parlare di un altro imbroglio diffuso dagli interessati difensori delle dittature arabe: cioè l’aut-aut che pone come sola alternativa a tali dittature l’estremismo islamista. Per come sono andate finora le cose non sembra che sia corretta una lettura degli avvenimenti alla luce della rivoluzione islamica dell’Iran. Ma c’è un “però”: è noto come nel corso degli eventi rivoluzionari spesso si verificano processi accelerati con l’esito di rendere egemoni minoranze prima poco considerate se queste, a differenza degli avversari, si sanno muovere interpretando le esigenze (almeno momentanee) delle masse. In atto, tuttavia, da queste masse non provengono istanze favorevoli a società radicalmente islamizzate. Anzi, in luogo della rivendicazione della sharía, abbiamo richieste di libertà democratiche e giustizia sociale. Sarà un caso che nelle società arabe in rivolta sia consistente la presenza di giovani acculturati e in fondo per vari aspetti inseriti anche nel mondo cultural/tecnologico dei giovani occidentali? Non ci vorrà molto tempo per capire se la domanda è giusta.
Inoltre va demistificata la definizione di “laici” per i regimi diretti da Ben Ali, Mubarak, Bouteflika ecc., se con quel termine si devono intendere regimi impegnati in riforme di struttura per la modernizzazione dei rispettivi paesi e per una maggiore giustizia sociale. Si è trattato invece di regimi tirannici e corrotti, funzionali alle esigenze politico/economiche dell’imperialismo, sostenuti dalla brutalità militare e da borghesie compradoras. E proprio per queste caratteristiche quei regimi avrebbero potuto rappresentare una manna per il radicalismo islamista e i vari jihadisti. Ma, come già detto, non sembra che queste correnti abbiano potuto trarre vantaggi significativi dai movimenti sociali in corso. Ciò, almeno, per il momento. Su questo punto invito a leggere – per il valore di radiografia dell’Egitto di Mubarak – il romanzo di ‘Ala al-Aswani, Palazzo Yacoubian.
Se attualmente mancano i segnali di un bis iraniano, tuttavia molto dipenderà dall’operato dei ceti politici locali e da come si “coniugheranno” con le intromissioni dell’imperialismo, che finora ha visto cadere ben tre dei suoi bastioni nell’Africa settentrionale. Ne cadranno altri? Ovvero, toccherà anche a Marocco e Algeria? Il Marocco sembrerebbe più stabile sul piano istituzionale, seppure non su quello governativo. Traduciamo: lì il popolo vuole il buon governo, ma la monarchia – che peraltro vanta la discendenza dal profeta Muhammad – non parrebbe a rischio. Per cui si tratta per ora di tenere la situazione sotto controllo. Un caso a parte – e di gran lunga più pericoloso – potrebbe essere l’Algeria, nei limiti in cui la società algerina non sia stata davvero decontaminata dal veleno islamista. Ma attualmente c’è scarsità di elementi valutativi.
Pericolosa è invece la situazione libica una volta che si arrivi all’abbattimento del regime dittatoriale che è stato spesso contrabbandato, anche a sinistra, come una rivoluzione antimperialistica e nazionalistica, ispirata dal libretto verde del Gheddafi-pensiero. Infatti il rischio che la Libia diventi una Somalia mediterranea non è del tutto infondato. Non tanto per ragioni religiose (almeno per ora), quanto perché è un mondo ancora fortemente tribalizzato in cui – pur essendo reale la tirannia del colonnello – lo Stato invece è debolissimo, per non dire evanescente. Qui ogni scenario è possibile, nell’eventuale assenza del formarsi di una leadership politica solida (che comunque avrà il suo da fare per costituire uno Stato libico). Un evento da annoverare nel campo delle possibilità è per esempio una secessione della Cirenaica, dalle implicazioni oggi non determinabili.
Dicevamo prima della persistente fluidità degli avvenimenti in corso in Nordafrica, per il semplice fatto che vale sempre il principio per cui abbattere un dittatore non significa instaurazione automatica di regimi di libertà e giustizia. Infatti su questo versante non è chiaro quali saranno gli esiti. In Egitto sono chiaramente i militari in posizione egemone, come è stato dalla caduta della monarchia nei primi anni ’50; e il giorno 18 febbraio circa due milioni di persone hanno manifestato a piazza Tahir sollecitando riforme democratiche tra cui la fine dello stato di emergenza, la liberazione dei prigionieri politici e la formazione di un governo provvisorio più affidabile.
In Tunisia non sono finiti gli scontri di piazza. Volendo fare il punto della situazione – o almeno cercando di farlo – va rilevato che se per rivoluzione politica e sociale s’intende l’abbattimento del ceto dominante (politico ed economico), allora si è in presenza di una fase solo potenzialmente prerivoluzionaria: ma non è detto che si passi alla vera e propria fase rivoluzionaria. È stata abbattuta la parte più putrida dei regimi di Tunisi e del Cairo; ma solo quella. Abbattere il resto dell’edificio non sarà per nulla facile, in mancanza di un progetto che agglutini le masse. E mettiamo poi, tra i fattori di costo, il ruolo degli interessi dell’imperialismo (statunitense, europeo e, soprattutto in Libia, anche italiano). Potrà ancora accadere tutto e il contrario di tutto, tanto più che i ribelli del Nordafrica sono soli con se stessi, stante la sostanziale ostilità del “primo mondo” all’avvento di democrazie popolari nel sud del Mediterraneo.
In queste brevi note ci siamo limitati a parlare solo della parte nordafricana del mondo arabo, rimandando a un successivo intervento i casi della parte asiatica. Qui, infatti – e a prescindere dai problemi del regime degli ayatollah in Iran – è in corso anche una fase ulteriore della “riscossa degli sciiti” contro i musulmani sunniti (che tanto confratelli non sono), non solo nella “Mezzaluna fertile”, ma anche nella penisola araba.