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giovedì 25 novembre 2010

EUROPA: LA CRISI POLITICA DELLA CRISI ECONOMICA, di Pier Francesco Zarcone

La devastante crisi economica in Europa occidentale contiene altresì una crisi politica non indifferente, proprio in quella parte di mondo dove si è formato lo Stato liberal/democratico del capitalismo, poi nel XX secolo accettato a pieno titolo dalle stesse “sinistre” istituzionali (all’epoca dell’auge dello “Stato sociale”), tanto ormai c’era il suffragio universale e in parlamento erano presenti partiti socialisti e comunisti. Il peggio che deve ancora venire già si profila all’orizzonte. Non causalmente su certi media si comincia a definire con un neologismo il regime politico/economico imposto dai centri di potere finanziario transnazionali e dall’Unione Europea, diligentemente fatto proprio dai governi nazionali (ormai tutti dello stesso colore, sfumature a parte): regime “austeritario”. Il termine esprime la fusione fra il concetto di austerità e quello di autoritarismo.
Sulla crisi economico/finanziaria si è scritto tutto e il contrario di tutto, anche sugli aspetti che “non tornano” (almeno per i non specialisti) ma senza fornire adeguati chiarimenti ai lettori-cittadini: ci si riferisce a contemporanei fenomeni di banche sull’orlo del fallimento che hanno richiesto il dispendioso salvataggio statale (a spese della collettività), e di crescita abnorme dei lucri del sistema bancario nel suo complesso. Per esempio, in un paese a rischio come il Portogallo nei primi 9 mesi di quest’anno le quattro maggiori banche private hanno conseguito lucri per 1.222 milioni di euro (4.000.000 al giorno). Sul versante bancario abbiamo poi che varie finanze statali sono sull’orlo del collasso per fare fronte a spese sempre più rilevanti per il salvataggio delle banche in crisi, spese aggravate dal ricorso a prestiti a tassi via via crescenti fino a correre il rischio di una vera e propria bancarotta. Non sempre viene spiegato che alla fine del discorso i veri beneficiari di questi aiuti sono proprio le banche, sia in quanto erogatrici dei prestiti stessi, sia quelle salvate. E con questo ci approssimiamo alla discorso sulla crisi politica.
Nella presente situazione il ruolo primario e assorbente dello Stato risulta essere - in modo ormai del tutto scoperto - quello di mandatario della tutela della riproduzione del capitale; tutto il resto non conta. È un ruolo assunto in termini totalizzanti tali da essere diventato un elemento cardine della crisi politica della crisi economica. Viene colpita in profondità la sostanza medesima della “formula politica” di cui lo Stato liberal/democratico ha assunto di essere espressione. Si potrebbe obiettare che, in fondo, non si tratta di una grande novità, se non per il fatto che ormai è ben difficile sostenere il contrario. Tuttavia siffatta conclusione non è condivisibile, poiché porta a fare grossolanamente di tutt’erba un fascio, un po’ come i massimalisti di una volta per i quali governi fascisti o liberal/democratici erano la stessa cosa; oppure come l’anarchico da barzelletta che per coerenza estrema evita di usare il participio passato del verbo “essere”.

Al riguardo si devono considerare vari aspetti, il primo dei quali è l’essere esistito un tempo (non eccessivamente lontano) in cui il governo del partito X o di quello Y significava aspettarsi la concretizzazione (magari imperfetta) di un determinato programma politico ed economico/sociale. L’esempio classico è stato il voto ai laburisti nella Gran Bretagna del secondo dopoguerra, dietro il quale c’era una data consapevolezza e volontà. E poi esiste un fattore da considerare nella giusta misura: è da un pezzo che nell’Europa continentale quando si parla di Stato non ci si riferisce più né al modello prussiano né a quello zarista. Non solo, ma l’organizzazione statale era entrata in processi di sviluppo di una certa ampiezza con l’esito di avere acquisito funzioni ulteriori rispetto al passato, sovente in senso più sociale e non sempre negative. Senza dilungarci troppo diremo che – sia pure sulla spinta di specifiche caratteristiche congiunturali – erano entrate a fare parte delle nuove funzioni la redistribuizione dei redditi attraverso apposite politiche fiscali progressive e, soprattuto, la regolazione dei cicli economici mediante interventi diretti nell’economia, anche con l’assunzione del ruolo di imprenditorie.
Che in una prospettiva di compiuta rivoluzione sociale rimanga sempre valido e necessario indicare gli obiettivi dell’abbattimento dello Stato e della sua sostituzione con un assetto fondato sulla democrazia socialista è un altro discorso. Fino a quel momento vale il vecchio aforisma di Malatesta sull’essere ovvio che anche un anarchico chiami la polizia se rapinato. Tra i comunisti anarchici maggiormente avveduti (ma sconosciuti ai più) è da tempo condiviso la consapevolezza del non essere lo Stato il nemico primario, bensì la borghesia (quella vera, s’intende, e non i patetici imitatori salariati); e che cosa succederebbe in una società senza Stato ma senza totale cambiamento dei rapporti proprietari, di produzione e di sfruttamento in genere, già ce lo hanno detto i fautori dell neoliberalismo radicale: dominio sfrenato del capitale e, di conseguenza, ferreo controllo poliziesco e repressivo della società.
Nell’odierno radicale cambiamento del quadro politico, la regressione del ruolo dello Stato trova il suo aspetto più appariscente nel solco incolmabile che separa le politiche realizzate dagli Stati e i programmi presentati dalle classi politiche alla cittadinanza per ricevere i suffragi e governare: quindi fra volontà popolare e azione di governo. Il che vuol dire crisi ormai patologica della rappresentatività democratico/borghese, poiché - indipendentemente dalla scelte effettuate dai corpi elettorali sulle politiche presentate sulla carta – a stabilire cosa bisogna fare sono i portavoce e gli esecutori del mercato privato della globalizzazione. A costoro è passato in modo visibile l’esercizio della sovranità. Il nesso fra azione di governo e opzioni effettuate dagli elettorati si è alterato di fronte all’assunzione da parte dei governi europei di impegni di gran lunga più forti di quelli assunti con i cittadini, sacrificabili con politiche economiche tahnto antisociali quanto recessive. Con questo si sancisce anche formalmente il carattere fisiologico – cioè irrimediabile - delle disparità sociali.
Per inciso una notazione linguistica: l’uso del termine “mercati” è mistificante, giacché fa pensare a una realtá impersonale e, nel suo operare, assimilabile a fenomeni naturali rientranti nella sfera della “necessità”. In concreto cela un gruppo di multinazionali finanziarie private di cui si sanno i nomi, come pure si sanno i nomi (e volendo anche gli indirizzi) dei loro maggiori azionisti.
La scompaginazione della presenza pubblica nel sociale (per quanto insoddisfacente per i suoi limiti e suscettibile di critiche) e la recessione economica che ne deriva, hanno l’effetto di fare apparire sempre più vuoto e formale lo status di cittadino, privato in concreto della possibilità di partecipare realmente alla vita sociale, politica e culturale della società di appartenenza. Con nocumento per l’esercizio delle libertà civiche, giacché come si fa a essere liberi – e quindi a partecipare – se ci si trova abbandonati a sé stessi nella precarietà, per molti anticamera dell’indigenza? Se Luigi XIV poteva dire “lo Stato sono io” oggi, in rapporto ai soggetti denominati “i mercati” e i loro esecutori nazionali, si deve dire “lo Stato sono loro”, e i cittadini sono tornati sudditi. Ovvia conclusione è il ridursi delle Costituzioni a polverosi orpelli di un passato da irridere come velleitario.
Un deficit di democrazia, quindi, che contribuisce alla realizzazione di una deriva autoritaria voluta e programmata. Infatti sarebbe sciocco pensare che fautori e autori di brutali misure economiche ignorino che l’effetto sarà di forte recessione della domanda interna, e quindi delle condizioni di vita. Tutto questo “lor signori” lo sanno e lo vogliono, si chiamino conservatori, liberali o socialisti. Se è dai tempi della deregulation di Reagan che si fa in modo di arricchire sempre di più i ricchi e impoverire i lavoratori, oggi anche in Europa si comincia ad attaccare pesantemente le classi medie (i disastri provocati in America latina dalla stessa politica non costituiscono una lezione storica di fronte alle esigenze del capitale). E anche qui non è possibile credere che i governanti abbiano dimenticato che proprio le classi media sono il più sicuro sostegno dello Stato liberal/democratico: almeno fino a che le cose vanno in certo modo. Dopo saranno le prime a chiedere un “salvatore” autoritario che sia ben più autoritario.
Nell’ottica del dover essere è innegabile che si avrebbe bisogno di una rivoluzione culturale, concentrata innanzi tutto sui feticci del momento. Se il sistema capitalista è fisiologicamente tale che – laddove e quando non trovi ostacoli – fa del male anche a se stesso, se ne deve ricavare una conclusione alla luce del buon senso (magari dottrinariamente poco ortodossa): finché non si riesce ad abbatterlo, tutti gli sforzi politici e sociali devono essere rivolti a governarlo rigidamente e finalisticamente. Conclusione poco entusiasmante, ma – al di là dei vari dogmatismi – è un dato che, senza la contro-azione della “mano pubblica”, i guai arrivano fino alla catastrofe sociale. Se agli inizi il sistema capitalista vinse grazie al contributo dello Stato moderno, è necessario che una rinnovata cultura dello Stato contemporaneo spinga perché esso contribuisca ad affrontare la presente crisi.
Abbiamo detto che nell’attuale corso degli eventi non c’è nulla di “naturale”, tant’è vero che le contromisure sono individuabili, e tali da portare fuori dallo schema “o rivoluzione o niente”; anche perché dietro l’angolo non c’è nessuna rivoluzione (non foss’altro per la mancanza di un presupposto “tecnico” fondamentale: la debolezza o il collasso degli apparati repressivi, i quali appaiono più forti e attrezzati che mai). In un’Europa in cui anche su media niente affatto radicali ormai abbondano critiche e controcritiche ai mercati, non ha più senso limitarsi ad auspici e raccomandazioni per un capitalismo “migliore” (grande ossimoro) e dal volto umano. Al punto in cui si è arrivati (per non parlare di quello che si prospetta) chi se ne frega se le possibili contromisure alternative non aprirebbero la via alla rivoluzione sociale, e restano nella sfera delle tamponature. Il fatto è che ridurre tutto a “riformismo” – attribuendo a questo termine una valenza negativa – non significa proprio niente, se non per i seguaci dell’idolatria dottrinaria. La pratica riformatrice può assumere connotazioni varie, fino a ricomprendere riforme socialmente indispensabili (semprecché si abbia a cuore la sorte delle persone) non escludendo quelle idonee a fare esplodere contraddizioni di fondo all’interno del sistema.
Al di lá della bugia circa l’incompatibilità fra politiche sociali e globalizzazione, in ordine alle alternative possibili si pensi - tanto per fare alcuni esempi - a una forte imposizione sulle cosiddette grandi fortune (per lo meno quelle superiori a 1.500.000 euro) e sui guadagni bancari; all’istituzione di organismi pubblici di credito non speculativo con tassi agevolati per le inziative di rilievo sociale; a una massiccia ed effettiva azione contro il lavoro nero e l’evasione fiscale; alla modifica degli attuali modelli per il consumo energetico (con riduzione dei costi di importazione d’energia); al controllo e alla fiscalizzazione dei movimenti di capitali, con limitazione delle attività speculative del sistema bancario; azione sulle spese pubbliche mediante la loro razionalizzazione; fissazione di limiti precisi al debito pubblico.
A questo si potrebbe aggiungere la battaglia per ottenere la democratizzazione dei vertici dell’Unione Europea, la formazione di una fiscalità europea, la creazione di un regime monetario intraeuropeo (sul modello dei “bancor” a suo tempo proposti da John Maynard Keynes), l’attribuzione alla Banca Centrale Europea del compito di finanziare gli Stati dell’Unione a tassi di interesse più che ragionevoli, la regolamentazione dell’ingerenza delle agenzie di valutazione finanziaria, la creazione di una Banca di Compensazione per coordinare i prestiti fra paesi europei. Nonché, e non da ultimo, la lotta per la rifondazione (quanto meno) dell’Unione Europea su altre basi e con altri obiettivi..
Ma obiettivi siffatti trovano ostacoli in alcuni dati di fatto, di cui il primo è che il sistema non ha alcuna intenzione di lasciar passare spontaneamente anche una minima parte, perché se lo facesse si metterebbero in discussione le sue strutture e quelle dello Stato borghese nell’attuale fase di sviluppo del capitalismo; giacché la cosiddetta crisi del sistema capitalista attuale è effetto dell’essere libero di agire il sistema capitalista medesimo.
Tuttavia c’è vita oltre l’economia di mercato. Dopo il fracasso dell’ideologia che propagandava i grandi e sicuri benefici sociali derivabili dall’arricchimento dei super-ricchi (che invece hanno collocato somme enormi in paradisi fiscali, e hanno investito in settori finanziari altamente speculativi da cui l’economia reale non trae stimoli di crescita), visibilmente il “re è nudo”, ma alla base resta da far capire a livello diffuso che non riuscirà mai a vestirsi e tale resterà; che lo slogan “socialismo o barbarie” mantiene del tutto la sua validità; e che celava un grande inganno il detto di Deng Tsiao Ping sull’ininfluenza del colore del gatto purché acchiappi i topi, poiché un certo tipo di gatto piglia i topi solo per sé.
Da un altro lato esiste la barriera data dall’evidentissima crisi delle sinistre europee, termine che comprende sia gli epigoni dei partiti comunisti sia le socialdemocrazie. Le sinistre parlamentari (laddove ancora esistono), se e quando elaborano proposte in qualche modo alternative alle attuali politiche dette “anticrisi” – ma che in realtà sono pro-crisi, a motivo dei loro sicuri e pesanti effetti recessivi – ormai per prassi si limitano a dibatterle nelle aule parlamentari (dove si sa che non passano) e a farne oggetto di articoli sui fogli di partito. La coscienza è salva e con militanti e simaptizzanti si fa una bella figura). Non pare che finora sia passato per la mente di farne oggetto di massicce campagne di propaganda e mobilitazione politica di massa, che all’inizio avrebbero l’effetto di far capire, oltre cerchie ristrette e già convinte, che i progetti governativi non sono gli unici possibili né sono determinati dalla necessità.
Il deficit di azione della sinistra diventa un elemento del deficit di democrazia che abbiamo di fronte. Non ci si può rifugiare dietro alla tesi per cui alle sinistre parlamentari si devono riconoscere i limiti derivanti dalla loro collocazione (cioè dal fatto di essere parlamentari), poiché l’elementare buon senso ci diceche c’è modo e modo di fare le cose quando non vada nel dimenticatoio quanto deve essere fatto. Talché la collocazione istituzionale non va chiamata a discolpa. Il fatto è che si tratta di sinistre (socialdemocratiche e comuniste) accomunate dal fatto di non esseri mai battute – nemmeno quando erano al governo - affinché al popolo spettasse anche un minimo di potere decisionale (oltre la sfera dell’elettoralismo per gli organismi pubblici assembleari o i vertici dello Stato) per dimensionare la sfera della cosiddetta “democrazia economica”: vale a dire l’ambito delle scelte sul merito della produzione nazionale e sul modo di essere dei rapporti sociali produttivi. di mercato e il suo Stato.
Non è difficile delineare oggi la situazione di queste sinistre. I partiti comunisti (siano o no rappresentati in parlamento) si concentrano sul perseguimento di interessi elettoralisti, tutto sommato di piccolo cabotaggio, e in linea di massima – con l’alibi di condizionare sinistra i socialdemocratici – sono felici di andare al governo con essi, salvo poi contare ben poco e subire perdite elettorali. E oggi una presenza più o meno vivace degli epigoni comunisti si ha solo in Germania e Portogallo.
In termini numerici ancora è diverso il caso dei partiti socialdemocratici, ma il panorama politico è desolante. Sono transitati sulla sponda del neoliberalismo i partiti francese, spagnolo, portoghese tedesco, italiano, inglese e – cosa in genere poco sottolineata – sono stati e sono presenti ai vertici dell’Unione Europea con correità piena. Un elettore di quei partiti può anche prendersela con l’Ue, il patto di stabilità e quant’altro, ma deve ricordarsi dei socialdemocratici Jean-Claude Trichet nientedimeno che governatore della Banca Centrale Europea, nonché di Pedro Solbes, Joaquín Almunia, Dominique Strauss-Khan e via dicendo. La corresponsabilità della socialdemocrazia è totale a ogni livello: nazionale e sovranazionale.
È quindi comprensibile, di fronte a questa deriva opportunistica - che sarebbe più esatto definire “tradimento” - la progressiva uscita di campo di moltissimi militanti delusi. Si deve però fare un’osservazione, da cui peraltro non deriva una discolpa: in vari paesi questo tradimento è avvenuto con la complicità delle stesse classi lavoratrici di riferimento; il che ha facilitato le cose. Con lo “Stato del benessere”, vale a dire, laddove si era meglio sedimentata una cultura (o dimensione mentale) socialista di massa, la resistenza all’ondata neoliberale è stata maggiore (per quanto oggi si avvertano falle); mentre nei paesi in cui più forti erano le idee della classe dominante, il conseguimento di maggiori margini di benessere (ma spesso anche la sola apparenza di averli raggiunti) ha avuto come conseguenza che molti lavoratori pensassero di avere effettuato il salto sociale che li inseriva pleno iure nella classe media, abbracciando anche formalmente le idee della parte più conservatrice di esse. In questo modo attestando che in precedenza si erano limitati ad aderire a un socialismo dell’invidia, in luogo del socialismo della giustizia.
La resa all’ideologia neoliberale ha comportato un contributo di tutto rispetto al radicale e diffuso mutamento di cultura socio/politico/economica rispetto al periodo precedente. L’esaltazione del privato e delle privatizzazioni a scapito dell’intervento pubblico è stata facilmente metabolizzata dal corpo sociale, diventando una specie di “patrimonio comune” nelle nostre società e oggetto di spettacolarizzazione. Un mix di interessi forti, mala fede, opportunismo e ignoranza ha fatto sì che passasse sotto silenzio (o inavvertito) il fatto delle rilevanti perdite patrimoniali subite da ogni collettività a seguito della svendita a privati di beni pubblici, senza averne esiti minimamente vantaggiosi.
Alla crescente disaffezione degli elettori di sinistra dobbiamo aggiungere – per le paure indotte dalla crisin economica – il transito, sovente massiccio, di voti da partiti di sinistra a quelli di destra. Poiché nessuno è perfetto, non stupisce che persone scarsamente acculturate si sentano (o dalla propaganda siano indotte a sentirsi) minacciate dalla mano d’opera immigrata confluendo anche nel razzismo più becero. La conclusione è che nel quadro del capovolgimento politico/culturale delle funzioni dello Stato contemporaneo, favorito e spesso attuato dalle forze di sinistra, la regressione dello Stato a guardiano del mercato deregolato è ormai un dato di fatto con un certo grado di sedimentazione.
Nel mondo del lavoro qualcosa si sta muovendo, come si è visto in Grecia, Francia e in Portogallo. E si può dire che queste ondate di scioperi e manifestazioni oggi hanno il valore politico di una forte rivendicazione democratica nei confronti di scelte sociali imposte non solo da governi ormai autisti e privi di rappresentatività sostanziale, ma altresì da istituzioni europee che la rappresentatività non l’hanno mai avuta, e non l’hanno, neppure formalmente. È il concetto stesso di “contratto sociale”, o di patto politico fondamentale, a finire alle ortiche. In certi paesi i sindacati sono costretti a svegliarsi un po’, e a dare luogo a manifestazioni in comune superando tradizionali divergenze: ne è esempio lo sciopero generale del 24 novembre in Portogallo, con la novità di vedere insieme la comunista Cgtp e la socialdemocratica Ugt.
Iniziative del genere dovrebbero segnare l’inizio di un nuovo ciclo di lotte, innanzi tutto a livello continentale, poché il tempo lavora in favore del nemico di classe: infatti, l’aumento della precarizzazione lavorative non è stata certo idonea a fare crescere la consistenza numerica dei sindacati tradizionali, né ad aumentare la loro forza sociale e politica. Ancora manca un primo e indispensabile passo per quanto tardivo sia: un impegno serio e programmato - a partire dalla forza attuale derivante dai settori lavorativi protetti e sindacalizzati - in favore dei settori non tutelati. Ma ancora si tratta di un’aspettativa, sperando solo che non sia solo una scommessa. Inoltre, se per i giovani non si intravede futuro, il tempo sta giocando a sfavore per i lavoratori protetti, a cui non si prospetta una gran vita sia dentro sia fuori dal lavoro. Non si può escludere che – sindacati o no – questi due ordini di tragedie umane e sociali esplodano e si saldino. Le mie conoscenze più immediate riguardano il Portogallo in cui vivo, ebbene – per quanto la notizia sia stata silenziata dai grandi organi di informazione, il 10 novembre è accaduto che due organizzazione di precari con circa due anni di vita si sono unite e nel quadro del loro slogan “precari ci volete, ribelli ci avrete” mediante l’occupazione del call-center del Banco Espírito Santo (cioè di uno dei più importanti organismi finanziari del paese) dopo aver realizzato inziative del genere. Un altro dato sintomatico delle preoccupazioni esistenti nelle sfere governative è dato dalla fretta con cui si vanno comprando mezzi blindati da usare nelle manifestazioni più calde, e la pubblicità di cui è diventata improvvisamente oggetto - come se nel paese si trattasse di una novità - una certa abbondanza di armi nei quartieri riservati ai meno abbienti e/o emarginati (i bairros sociais).
A questo punto una riflessione personale con inerente assunzione di responsabilità. Per il momento i lavoratori greci e francesi non hanno vinto. In Grecia le recenti elezioni amministrative hanno registrato un’astensione enorme, il partito comunista (Kke) è arrivato al 10%, ma il socialdemocratico Pasok ha avuto più voti degli altri, e quindi ha vinto di nuovo. In Francia la riforma delle pensioni è stata varata dal parlamento. A questo punto si può essere pensati da una domanda di fondo sulla possibilità di azione dei movimenti e delle proteste dal basso. Ciò tenuto conto che in base alle regole del gioco istituzionale – proteste o no – le leggi le fanno i parlamenti, e poi c’è la polizia antisommossa a reprimere nelle strade i protestatari. E altresì si può essere pensati dalla domanda su cosa accadrebbe se si riuscisse a convogliare buona parte dell’astensione (che ha un segno ben preciso) su un’entità di sinistra diversa da quelle attuali, in ragione del fatto che (finora almeno) la conquista di un partito dall’interno, ad opera di una base scontenta della deriva della sua dirigenza, non si è rivelata fattibile. E per il momento ci fermiamo qui.
Staremo a vedere cosa accadrà in Irlanda a seguito del programmato smantellamento dello Stato sociale che fa pagare ai poveri l’enorme buco di bilancio per salvare le locali banche; e vedremo anche, in seguito, che accadrá della grande protesta greca – ora in stato di quiescenza - con le ulteriori strette finaziarie del governo greco, poiché è fuori discussione che alla scadenza dei prestiti ottenuti la Grecia non sarà in grado di restituirli.
Certo, ribellioni popolari non sono totalmente da escludere ma, al di là del discorso sulla repressione, potrebbero esserci anche effetti effimeri vanificati dal corso delle cose. Sarà pure una fissazione di chi scrive, ma la devastazione neoliberista dell’America latina è un brutto precedente attestante che l’impoverimento di massa non porta alla rivoluzione sociale ma alla micro e macrocriminalità diffusa. Che il tempo stringa – e siano necessarie lotte durissime, e da vincere – lo dimostrano fatti molto semplici: il recente comportamento di Angela Merkel pare fatto apposta per fare fibrillare i mercati a danno dei paesi europei deboli, e accreditati esponenti del mondo finanziario sostengono che l’uscita dall’euro di Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna costituisce a scadenza più breve che media un evento realistico. Molto suadentemente si fa presente che non si tratterebbe di catastrofe per i fuorusciti giacché essi – con le loro risorte vecchie monete, o con nuove create ad hoc, tutte dallo scarso potere di acquisto – si troverebbero favoriti nel turismo e nelle esportazioni.
In realtà gli effetti sarebbero catastrofici, e ancora una volta in modo particolare per le masse popolari. Quei signori non dicono che lo scenario verrebbe caratterizzato da monete nazionali svalutate all’origine, crescita immediata e pesante dei tassi di interessi sui debiti, impennata dell’inflazione, innalzamento dei costi delle importazioni (ovviamente se ne avvantaggerebbero in primis le esportazioni tedesche), caduta del potere di acquisto dei salari, e per quanto concerne le esportazioni i fuoriusciti dall’euro finirebbero col fare concorrenza ai pesi del terzo mondo. Detto in altre parole, siamo sull’orlo dell’abisso. E possiamo davvero escludere l’avvento di regimi politici autoritari nel senso massimo del termine?