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Nel quadro di una più ampia polemica con Habermas, Hirsch, O'Connor e Offe, lo scomparso Riccardo Parboni collocò il «marxismo italiano» nella più ampia classe del «marxismo sovrastrutturale», per il quale
«la crisi del capitalismo non dipende dalla dinamica delle forze produttive e dei rapporti di produzione, ma dal venir meno di quei meccanismi omeostatici di carattere politico e ideologico che avevano garantito la tenuta sotto controllo delle tendenze alla crisi nei decenni passati»1.
Vent'anni dopo, il libro di Cristina Corradi sui «marxismi italiani» e la discussione che ne è seguita hanno confermato quel giudizio, e con ben altra ricchezza d'argomenti: quello italiano è un «marxismo senza Capitale» (con poche e relativamente recenti eccezioni), un «marxismo» che ha fatto a meno di sviluppare criticamente la teoria marxiana del valore, indirizzandosi verso lo sraffismo, il keynesismo, o la dissoluzione dell'oggettività socio-economica dello sfruttamento nel comando politico dello Stato, variamente combinando i termini precedenti2.
La ricostruzione di Corradi, pregevole e indispensabile, resta però nell'ambito della ricostruzione della «storia dei «marxismi» basata sul modello delle storie della filosofia, della «storia delle idee». Il punto è che questo approccio non solo esclude la produzione condotta da marxisti non-filosofi o che, comunque, non si presta ad un discorso d'ordine filosofico, ma sottovaluta la dialettica tra la riflessione teorica e l'ambiente politico nella quale la prima si inscrive e dal quale è influenzata per le vie più diverse e sottili, dall'orizzonte strategico e ideologico alla pratica quotidiana, dalla costruzione dell'identità ai rapporti e alle carriere personali.
È per questa ragione che restano inevase alcune domande cruciali. Cosa ha permesso a quella tradizione «senza Capitale» di riprodursi per così tanto tempo? Quali sono le caratteristiche differenziali del «marxismo italiano» rispetto a quello di altri paesi? Quali, precisamente, i rapporti tra teoria e politica? È indifferente, per la storia dei «marxismi italiani», la partecipazione di «comunisti» ad un governo imperialistico e l'assenza di una reazione indignata da parte degli intellettuali marxisti? Non rivela nulla sulla sinistra «marxista» nazionale?
Il meglio della letteratura marxista internazionale è, in questo paese, semplicemente ignoto o irrilevante. L'editoria di sinistra italiana preferisce importare selettivamente quel che politicamente rende e fa moda nella propria nicchia di mercato; preferisce le generalizzazioni pseudo-filosofiche e superficialmente sociologiche alle analisi che utilizzano concetti marxisti, che sembrano un lusso per specialisti, tanto più se fanno i conti con il capitalismo reale impiegando dati e tabelle, piuttosto che Spinoza o l'illustre filosofo-sociologo di turno.