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lunedì 21 ottobre 2024

GLI ERRORI MORTALI DI YAHYA SINWAR E DI HAMAS

di Piero Bernocchi


ITALIANO - ENGLISH


Leon de Winter è uno scrittore olandese che, oltre ai suoi libri, svolge una presenza social-politica costante, con articoli pubblicati su vari giornali e riviste europee. A proposito di Sinwar ha scritto in un articolo su Neue Zurcher Zeitung, quotidiano svizzero con quasi tre secoli di storia: "Yahia Sinwar aveva trovato l'arma con cui sconfiggere gli ebrei e manipolare il mondo: la morte dei suoi stessi connazionali. Invita gli ebrei ad uccidere il suo popolo e gli israeliani non possono sottrarsi alla lotta contro Hamas. Sinwar sapeva come stremare gli ebrei, ricattarli e metterli gli uni contro gli altri". Effettivamente, il piano strategico di Sinwar, culminato nell'orrendo massacro del 7 ottobre, aveva una sua tragica grandezza strategica, che però, contrariamente alla lettura datagli da De Winter, è stata annullata da una catena di errori e di valutazioni, su possibilità non realizzatesi, commessi dal leader di Hamas e rivelatisi tragici e mortali per il popolo palestinese quanto per lo stesso Sinwar: catena di valutazioni erronee che qui proverò ad analizzare e commentare.

 

Il fallimento del tentativo di coinvolgere l’intero mondo islamico nell’attacco frontale a Israele

 

Sono in circolazione oramai da mesi attendibili documentazioni di varia e credibile provenienza che spiegano come il massacro del 7 ottobre fosse stato pianificato, magari con dettagli non identici, probabilmente da almeno un paio di anni e che fosse stato più di una volta rinviato, in attesa di scenari generali più favorevoli. C’è ampia concordia tra gli “addetti ai lavori” anche sui motivi, almeno due dominanti, che alla fine hanno fatto scegliere, a Sinwar e alla leadership interna a Gaza, la data del 7 ottobre. Tornerò più avanti sul secondo motivo, per soffermarmi qui su quello a mio avviso più rilevante e decisivo: e cioè l’assoluta necessità/obbligo di far naufragare l’ampliamento degli Accordi di Abramo (che avevano normalizzato i rapporti tra Israele, gli Emirati Arabi e il Bahrein) con l’inclusione dell’Arabia Saudita e forse pure del Qatar, e con la formazione di un assai influente blocco di paesi sunniti guidati dalla maggior potenza di tale mondo islamista, quella Arabia Saudita, grande e storica (fin dall’avvento degli ayatollah al potere a Teheran) avversaria dell’Iran sciita. Tra le intuizioni strategiche di Sinwar, quella di inserirsi come un cuneo che disgregasse il nascente schieramento favorevole alla normalizzazione dei rapporti con Israele e, nel contempo, saldasse definitivamente l’anomalia di un rapporto stretto, con conseguenti copiosi finanziamenti e sostegno bellico, tra un’organizzazione del radicalismo sunnita più estremo come Hamas e la roccaforte iraniana del mondo sciita (anomalia assoluta fino a qualche anno prima, laddove sunniti e sciiti si scannavano  quotidianamente in tutto il mondo islamico, con percentuali di vittime ben superiori a quelle dei conflitti con cristiani, “occidentali” ed ebrei), è stata forse la più notevole e, almeno potenzialmente, quella in grado di aprire nuovi e inattesi scenari ai monumentali e apparentemente folli piani di distruzione totale di Israele.

Per giungere però ad attivare un tale scenario, ci voleva un’azione così terrificante, sconvolgente e spietata, manifestantesi nelle forme più barbariche possibili, che fosse in grado di scatenare una risposta almeno altrettanto selvaggia, brutale e stragista da parte del governo Netanyahu, contando sulla colossale umiliazione imposta all’intero apparato bellico e militare israeliano ma pure sullo smacco planetario inflitto ad un capo di governo, ultra-ambizioso, senza scrupoli e senza remore, come Netanyahu che, pur di cancellare dalla scena l’ANP e Fatah, si era fatto ingannare da Sinwar,  favorendone per anni l’ascesa al potere a Gaza, con una posizione dominante su tutti i palestinesi. Ritengo, conseguentemente, che gli orrori del 7 ottobre non siano stati dovuti alla barbarie spontanea e alla epidermica orgia senza freni di voglia di vendetta da parte delle migliaia di armati palestinesi coinvolti, ma che fosse stata pianificata e voluta da Sinwar e i suoi (e per tale ragione documentata ed esibita platealmente con video, foto e registrazioni sonore quanto più raccapriccianti possibili) proprio per rendere irrealistica e di fatto impossibile una risposta solo “moderata” da parte del governo israeliano, provocato a tal punto da spingerlo a una risposta quanto più feroce, distruttiva e impopolare possibile. La scommessa di Sinwar, certo massimamente cinica e spietata, ma non pazzesca in linea di principio, e anzi potenzialmente foriera di successo, è stata appunto quella di spingere Netanyahu ad attaccare Gaza con una forza distruttiva smisurata e senza precedenti, che provocasse  il maggior numero di vittime possibili tra i civili (più volte Sinwar ha ammesso senza imbarazzo di essere disposto a sacrificare anche un numero spropositato di suoi concittadini/e non in armi pur di creare le condizioni per la sconfitta e la distruzione di Israele), in modo da suscitare da una parte la più diffusa indignazione mondiale  contro Israele (e in generale contro la presenza di uno Stato ebraico in Palestina, da liberare dal “fiume al mare”), e che dall’altra spingesse tutto il mondo islamico, sunnita o sciita, ad entrare in campo militarmente, contribuendo in maniera decisiva alla distruzione di Israele.

Malgrado la mia avversione politica, ideologica, culturale e morale all’islamismo da Guerra Santa e ai regimi dittatoriali come l’orrenda teocrazia iraniana e ad organizzazioni oscurantiste, reazionarie, ultra-misogine e omofobe come Hamas, Hezbollah, non posso negare che tale piano strategico aveva, almeno in potenza, quella che ho chiamato una tragica grandezza. E nella realtà di questo anno, tale piano il primo obiettivo lo aveva effettivamente raggiunto, cioè quello di suscitare una vastissima ondata di indignazione internazionale anche in ambienti fino a ieri insospettabili che, con grande rapidità, hanno accantonato gli orrori del 7 ottobre (che, anzi, hanno sovente salutato come un “riscatto” del popolo palestinese dopo decenni di sopraffazioni e umiliazioni, o come addirittura “l’inizio della Rivoluzione palestinese”), per reagire con una mobilitazione pressoché permanente contro il massacro in corso a Gaza, dove, indiscriminatamente, ai miliziani di Hamas uccisi dall’esercito israeliano si è accompagnato quasi ogni giorno un numero almeno altrettanto elevato di vittime civili, senza alcuna distinzioni tra uomini, donne, bambini.

Quello che però non è avvenuto, rivelandosi nei fatti il principale punto debole di tale  ambiziosissima strategia e il più grande errore di previsione di Sinwar e di chi ne ha condiviso la strategia, è stato il generale fallimento del tentativo di coinvolgere l’intero mondo islamico, sunita e sciita, nell’attacco frontale a Israele. A posteriori, Sinwar ha dimostrato una sorprendente misconoscenza della variegata e ambigua complessità di tale mondo (più avanti vedremo come analoghi e altrettanto esiziali  – per lui e per i palestinesi – errori di valutazione e previsione Sinwar li ha commessi anche nell’analisi della società israeliana e della psicologia dominante tra gi ebrei di Israele).

Sorprende, tanto per cominciare, che il leader indiscusso di Hamas abbia davvero creduto ai roboanti proclami bellici e agli appelli per la distruzione della “entità sionista” (come i dittatori teocratici iraniani amano definire Israele, per non doverne fare neanche il nome in segno di massimo disprezzo) di due affabulatori e incantatori di massa come Khamenei e Nasrallah. Meraviglia che una mente così attenta ad ogni sfumatura del pensiero della radicalità islamista abbia potuto davvero credere che il regime teocratico e Hezbollah avrebbero deciso di mettere a repentaglio il proprio potere e dominio nei rispettivi paesi sottomessi, l’Iran e il Libano, e persino la sopravvivenza dei propri regimi, per entrare in campo accanto ad Hamas nello scontro frontale con Israele, ben conoscendo la propria inferiorità sul piano militare, ma anche la fragilità del proprio dominio interno, di fronte a due società in maggioranza ostili, in aperta rivolta come nell’Iran dell’ultimo biennio o sottomessa ma non consenziente e collaborativa come quella libanese, incapace di impedire la progressiva dominazione della minoranza sciita sul paese ma fondamentalmente desiderosa di una sua possibile débacle bellica.

In verità, nei comportamenti di quasi tutti i paesi arabi e dell’Iran nei confronti della tragedia palestinese, c’è sempre stata una profonda strumentalità di fondo che Sinwar e i suoi avrebbero dovuto ben conoscere. Falliti i tentativi della Lega araba di sconfiggere militarmente Israele e di espellere la comunità ebraica dalla Palestina, la gran parte dei paesi arabi circostanti ha usato cinicamente il popolo palestinese e la sua lotta solo per creare le maggiori difficoltà possibili a Israele, per tenerla sotto costante pressione e per attivare la più diffusa solidarietà internazionale contro l’“entità sionista”. Solo che a questo cinico e strumentale disegno non si è mai accompagnata una reale solidarietà con il popolo palestinese, né in termini di significativi aiuti materiali né in quanto a dignitosa accoglienza ai profughi, almeno all’altezza dei proclami tonitruanti di circostanza. Figuriamoci se Hezbollah e la teocrazia iraniana potevano essere disposti a sfidare davvero, militarmente e in uno scontro aperto senza mediazioni, Israele, con la realistica possibilità di essere non solo travolti sul campo, ma anche di consentire alle diffuse opposizioni interne di saldare finalmente il conto alle insopportabili dominazioni ultra-decennali.

Ma Sinwar ha commesso un altro errore di valutazione, altrettanto inspiegabile per chi, in tanti anni, aveva avuto modo di studiare dettagliatamente, e verificare da vicino e con massima cognizione di causa, di contatti e di legami, i complessi e contorti, ambigui e mutevoli rapporti tra le varie statualità e comunità islamiche mediorientali. Il leader di Hamas parrebbe aver preso sul serio, e massimamente sopravvalutato, il profondo legame che era riuscito a stabilire  - fin da quando ancora era in galera in Israele e riusciva a corrompere le guardie carcerarie, così potendo colloquiare senza limiti non solo con i suoi “sottoposti” a Gaza, ma persino con il regime iraniano - fin dal 2011 con il regime degli ayatollah. Certo, l’anomalia di un’alleanza, così stretta, impegnativa e senza precedenti significativi, tra sunniti e sciiti, solitamente in guerra permanente tra loro da parecchi secoli, può aver contribuito a fuorviare le percezioni di Sinwar, al punto da fargli scambiare un accordo tattico (utilissimo per l’Iran per mettere in un angolo il progetto di una vasta parte del mondo sunnita di normalizzare i rapporti con Israele in nome dei comuni interessi economici) per una generale e permanente collaborazione strategica. Ma il grosso del mondo sunnita non ha mai digerito il rapporto quasi “intimo” tra la parte combattente del mondo sunnita palestinese con l’Iran, e ancor meno il grande potere acquisito da Hezbollah, altro portabandiera del minoritario mondo sciita e anch’esso grande alleato di Hamas: e quanto questa ostilità fosse viva, malgrado il sostegno comunemente sbandierato per i palestinesi durante i massacri a Gaza, si è potuto verificare apertamente con i festeggiamenti in tanti paesi arabi sunniti alla notizia dell’uccisione di Nasrallah: mentre, al contempo, non pare proprio che l’uccisione di Sinwar abbia suscitato in questi paesi grandi ondate di solidarietà e cordoglio.

 

Gli errori di valutazione di Sinwar sull’attuale popolo ebraico di Israele

 

Seppur meno eclatante, anche il secondo, catastrofico errore di valutazione di Sinwar ha avuto effetti dirompenti sul monumentale progetto strategico destinato a mettere in ginocchio Israele: laddove il leader di Hamas ha dimostrato un’altra grave défaillance di analisi sociale e politica, tanto più sconcertante per chi la società israeliana aveva avuto tutto il tempo e modo di studiare in dettaglio, avendone frequentato pure a lungo persino le carceri. Al proposito, la seconda parte del commento di De Winter citato all’inizio ( quel “Sinwar sapeva come stremare gli ebrei, ricattarli e metterli gli uni contro gli altri”) si è rivelata fallace. Sinwar credeva di sapere “come stremare gli ebrei”, ma assai probabilmente faceva i conti con i vecchi ebrei e non con quella realtà, che va ben oltre il sionismo d’antan, che è il popolo ebraico di Israele oggi. Effettivamente, almeno sulla carta, non aveva torto il leader di Hamas a ritenere favorevole, per l’invasione stragista del 7 ottobre, la profonda divisione nella società israeliana provocata dalla politica interna reazionaria e ultrautoritaria del governo Netanyahu, dominato, o comunque fortemente condizionato, dall’estrema destra oscurantista, teocratica e razzista, intenzionata a non concedere nulla, anzi a togliere ulteriormente ai palestinesi. Lo scontro interno alla comunità israeliana, prima del 7 ottobre, aveva effettivamente raggiunto un’intensità senza precedenti, provocando divisioni, conflitti e ondate di odio quali Israele non aveva mai conosciuto all’interno del mondo ebraico, mettendo in bilico la stessa permanenza in carica del governo. E, cosa rilevantissima al fine del successo del progetto strategico di Sinwar/Hamas, tale divisione aveva raggiunto la struttura militare, l’esercito, i servizi segreti e l’intero apparato combattente, difensivo e aggressivo, di Israele, che appariva altrettanto lacerato e diviso.

Quello che però Sinwar non aveva calcolato, prevedendo anzi l’esatto contrario di quanto poi successo, ha riguardato quale sarebbe stato l’effetto del pogrom, terrificante e barbaricamente eseguito contro le comunità prossime alla Striscia, sulla popolazione israeliana tutta, scopertasi improvvisamente indifesa e vulnerabile, e in generale sul mondo politico e militare del paese. In un paese “normale”, con una popolazione “normale” e con un leader “normale”, molto probabilmente si sarebbero avverate le previsioni di Sinwar, e cioè che un attacco così sconvolgente - in grado di mettere a nudo la fragilità del sistema di contenimento dei settori dell’estremismo islamista che considerano la morte in guerra contro gli “infedeli” evento glorioso – avrebbe accentuato a tal punto le divisioni interne da farle arrivare fino alla rottura sociale più ampia e alla paralisi degli apparati politici e militari. Ma la società israeliana ebraica non è “normale”, ossia riconducibile alla norma di una qualsiasi società occidentale che non abbia dovuto subire secoli, anzi millenni, di sopraffazione, pogrom, persecuzioni costanti, stragi innumerevoli e sottomissioni, fino al mostruoso Olocausto nazista. L’immagine dell’ebreo agnello sacrificale, incapace di reagire e vittima di qualsivoglia potere costituito, è stata sostituita in pochi decenni da quella dell’ebreo acerrimo e spietato combattente, con un apparato militare, guerresco ma anche investigativo, di primissimo livello, immerso in un paese che, fin dalla nascita, si sente assediato e che, in particolari circostanze, accetta che si faccia di tutto, atrocità comprese, per la sopravvivenza di Israele.

Cosicché, il 7 ottobre ha provocato l’esatto contrario di quanto previsto dalla strategia di Sinwar: il progressivo compattamento della società intorno all’unico leader disposto a tutto, nessun orrore escluso, pur di schiacciare Hamas (e a seguire, Hezbollah, fino allo scontro diretto con l’Iran, se necessario). Mettendo in conto pure una marea di vittime civili, adulti e bambini indifferentemente - che Hamas riteneva di poter usare come scudi umani che la proteggessero dallo sterminio programmato dei loro miliziani - giorno dopo giorno, un leader screditato, corrotto, ultrautoritario e apertamente osteggiato dalle componenti passabilmente democratiche e laiche (che pur esistono in Israele e che per più di un anno avevano messo in minoranza nella società il capo del governo, arrivando a un passo dal provocarne la destituzione), ha finito per prevalere e per tacitare ogni opposizione. Poi, la catena di uccisioni “eccellenti” di Haniyeh, di Nasrallah e dello steso Sinwar, in condizioni che pareggiano le più fervide fantasie di uno sceneggiatore cinematografico, ha non solo riabilitato la clamorosa défaillance dei servizi segreti del 7 ottobre, ma ha finito per convincere anche buona parte degli oppositori di Netanyahu che la strategia di risposta all’orrore del 7 ottobre con un terrore moltiplicato per dieci o per venti, che non si ferma di fronte ad alcuna “convenzione internazionale”, è quanto di più pagante, almeno nel qui ed ora, per la difesa di Israele. Insomma, l’esatto opposto di quanto Sinwar pensava di ottenere.

 

I fallaci scudi difensivi della protesta internazionale e degli ostaggi israeliani

È indiscutibile che almeno un risultato acclarato la strategia di Sinwar lo abbia raggiunto, quello che poi era uno dei principali obiettivi del massacro del 7 ottobre: creare a livello internazionale un'ondata di ostilità nei confronti del governo Netanyahu e più in generale contro Israele, e al contempo una forte corrente di simpatia e di sostegno ai palestinesi e nei confronti di Hamas. Solo che, anche da questo punto di vista, tale strategia, pur potente sulla carta, si è accompagnata con clamorosi errori di valutazione che ne hanno provocato il fallimento generale. Perché tale ondata di avversione nei confronti di Israele e di simpatia per palestinesi e Hamas non ha avuto la minima influenza sul comportamento del governo Netanyahu e sull’andamento della guerra a Gaza: anzi, per certi versi ha incattivito ulteriormente l’azione di un governo e di un apparato militare che di spietatezza e di assenza di scrupoli avevano già dato abbondanti dimostrazioni. Via via che la campagna d’odio verso Israele montava a livello internazionale, ha avuto facile gioco il leader israeliano a sostenere che essa non fosse solo il prodotto della solidarietà con i palestinesi ma che includesse pure un più generale moto antiebraico (il termine “antisemitismo” non è corretto, perché l’origine semitica è comune anche ad una parte significativa delle popolazioni arabe del Medio Oriente), elencando una serie di azioni effettivamente antigiudaiche messe in opera a livello internazionale soprattutto da parte di forze di estrema destra, nostalgiche della plurisecolare “caccia all’ebreo”. Insomma, Netanyahu è riuscito a neutralizzare, almeno all’interno, l’effetto del generale moto di solidarietà con i palestinesi, trasmutandolo in una riedizione dell’antigiudaismo; e, facendo leva sull’effetto vittimistico di chi si sente perseguitato dal mondo intero, ha ulteriormente compattato il fronte interno e ha potuto fregarsene alla grande non solo degli interventi dell’Onu, che ha anzi sbeffeggiato apertamente e platealmente, ma anche delle pressioni “moderatrici” della presidenza Usa, già azzoppata di suo dopo il pensionamento di Biden e resa ancor più debole dall’incalzare di Trump, schierato con Netanyahu e in cerca del voto ebraico a novembre.

Anche l’altra arma sulla quale molto contava Sinwar, e cioè lo “scudo” protettivo offertogli in linea di principio dagli ostaggi israeliani, si è rivelata spuntata e si è sommata all’elenco degli altri irreparabili errori di valutazione fin qui elencati. Mano a mano che passava il tempo, il numero degli ostaggi si è ridotto e le condizioni dei pochi/e liberati/e si sono rivelate, come prevedibile, disastrose, lasciando intendere che chi è rimasto nei tunnel di Gaza, qualora fosse liberato lo sarebbe comunque in drammatiche condizioni fisiche e mentali pressoché irreversibili. Cosicché, via via che alla distruzione di gran parte della struttura militare di Hamas, si sono aggiunti i successi delle uccisioni “eccellenti”, l’attenzione di gran parte della popolazione israeliana verso la sorte degli ostaggi è andata affievolendosi fino a ridursi quasi solo alla pressione, sempre più disperata e isolata, dei parenti degli ostaggi. L’estrema destra israeliana ha avuto buon gioco, dunque, nel sottolineare come, in definitiva, gli ostaggi non potevano avere un trattamento migliore da parte del governo rispetto alle centinata di giovani israeliani/e uccisi in combattimento a Gaza dall’ottobre 2023, e andavano in qualche modo considerati/e anche loro vittime di guerra. E ancor più semplice è stato per l’estremismo messianico di significative componenti della società israeliana rinfacciare a Netanyahu lo scambio - divenuto negli ultimi mesi impopolarissimo (mentre allora venne salutato positivamente dalla grande maggioranza degli israeliani), promosso nel 2011 dal leader israeliano in cerca di recupero di popolarità - tra mille detenuti palestinesi e un solo israeliano, il soldato Gilad Shalit, tenuto prigioniero a Gaza: mille detenuti tra i quali c’era il futuro leader supremo di Hamas, Yahya Sinwar, oltre a vari altri combattenti dell’organizzazione che, una volta scarcerati, hanno ripreso l’attività bellica, e molti dei quali hanno partecipato al massacro del 7 ottobre, sono stati braccati per mesi e buona parte poi rimasta vittima delle uccisioni mirate dell’esercito e dei servizi segreti israeliani.

 Conseguenze e prospettive

 Resta da valutare quali saranno le conseguenze dell’uccisione di Sinwar non solo sulla guerra Israele/Palestina ma anche sui più generali equilibri della conflittualità bellica nell’area mediorientale. Un titolo di un quotidiano, dopo la morte del leader di Hamas, fotografava in questo modo il suo ruolo: “Hamas era un’orchestra, Sinwar l’ha trasformato in uno show da solista”. In effetti, in una dozzina di anni Sinwar ha guadagnato una centralità inamovibile e senza precedenti per Hamas, a mio parere persino superiore a quella di Nasrallah per Hezbollah o Khamenei per il regime iraniano. E non tanto e non soprattutto per il carisma di una personalità, intransigente quanto spietata, in primissima fila nel confronto bellico e nell’odio sistematico per Israele, senza mai abbandonare il fronte di Gaza, persino feroce (l’epiteto brutale di “macellaio di Khan Younis” pare che non gli sia stato attribuito dagli israeliani ma dagli stessi palestinesi, in ragione della sua pratica di torturare e uccidere con le proprie mani presunti traditori e/o collaboratori di Israele): quanto piuttosto per una lunga serie di intuizioni innovative e strategiche che, nel giro di pochi anni, hanno elevato il livello di influenza di Hamas sull’intera area. Ancor prima di uscire nel 2011 dalle carceri israeliane, Sinwar era già riuscito a trovare il canale giusto per avviare, lui rappresentante di un’organizzazione sunnita, un imprevedibile rapporto di alleanza organica con l’Iran, paese dominante del mondo sciita. È stato l’inventore del progetto di educazione/indottrinamento dei giovanissimi scolari, per i quali inventò i campi-studio, per educarli all’ostilità e odio nei confronti di Israele; e più in generale, il costruttore di un tentativo, in buona parte riuscito, di identificazione tra Hamas e la popolazione di Gaza per connettere qualsiasi cittadino/a con l’organizzazione combattente, grazie alla decisione di occuparsi non solo delle questioni militari e politiche, ma anche dell’assistenza sociale, della formazione ideologica e culturale degli abitanti della Striscia, al fine di legarli strettamente e irreversibilmente ad Hamas, estendendo a livelli senza precedenti il reclutamento e pure l’addestramento militare, coinvolgendo la gran parte dei cittadini nel conflitto con Israele (o nelle azioni belliche o come vittime). E infine, è stato l’inventore del progetto strategico incentrato sulla strage del 7 ottobre che ha, di punto in bianco, cambiato il ruolo di Hamas non solo in Palestina ma sullo scacchiere mondiale. Ha scritto Michael Milshtein, uno dei maggiori esperti israeliani sul mondo palestinese: “Sinwar è un radicale, un estremista, è lontano da ogni compromesso, si sente un Saladino. Ma questo non vuole dire che non ragioni per obiettivi realistici: sapeva bene che il 7 ottobre non avrebbe distrutto Israele. Infatti, non ambiva a questo, voleva distruggere la fiducia dello Stato ebraico in se stesso, voleva rompere la società israeliana e il suo patto interno, porre fine al dialogo sulla coesistenza”. Il che è potuto avvenire soprattutto perché Sinwar – e questo forse è stato il suo maggiore successo – era riuscito a far credere a Netanyahu e alla leadership politica e militare di Israele che Hamas avesse smesso di essere un pericolo mortale, fornendo una paradossale immagine di un’organizzazione oramai intenzionata ad abbandonare i progetti di distruzione di Israele. “Quando parliamo di fallimento dell’intelligence – è ancora Milshtein – parliamo del fallimento di un’opinione basata sulla falsa immagine che Sinwar era riuscito a creare, che ha influenzato tutto il modo in cui Israele prendeva le decisioni politiche e militari… Era stato scambiato per uno con cui negoziare. Era stato abile nel creare questa immagine di leader attento alla politica”.

Tuttavia, malgrado questa inusitata centralità e indispensabilità in un’organizzazione che aveva per anni funzionato come “un’orchestra”, pensare che l’uccisione di Sinwar sia sufficiente a disgregare Hamas, fino alla sparizione o comunque alla massima emarginazione, non mi pare realistico. Personalmente, da anni ritengo che l’unica speranza di un futuro positivo per i palestinesi necessiti della fine dell’egemonia di Hamas sui palestinesi e di Netanyahu e dell’estrema destra su Israele. Ma le valutazioni, che si stanno diffondendo a livello internazionale tra commentatori e addetti ai lavori, sugli effetti dell’uccisione di Sinwar e della drastica riduzione degli effettivi militari di Hamas (tra le oltre 40 mila vittime del massacro di Gaza, osservatori vari calcolano che almeno la metà siano combattenti di Hamas che dunque avrebbe perso circa il 60% dei propri miliziani sul campo), in base a cui si sarebbero create le condizioni per l’emarginazione delle ali più estreme dei due schieramenti, mi sembrano esageratamente ottimiste (per chi la pensa come il sottoscritto, e che cioè tale emarginazione bilaterale sarebbe fondamentale per trovare una via di uscita dal conflitto) e comunque  “consolatorie” e illusorie, almeno allo stato delle cose attuali. Se è vero che la figura di Sinwar non sembra riproducibile e la sua morte persino più grave per Hamas di quanto sia stata quella di Nasrallah per Hezbollah e di quanto sarebbe persino quella di Khamenei per la dittatura degli ayatollah iraniani, la massima centralizzazione (che poi voleva anche essere l’affermazione della centralità di chi era restato a Gaza a combattere in prima linea rispetto ai leader rifugiati in assai più confortevoli collocazioni in Qatar o in Turchia) imposta da Sinwar è stata l’eccezione non la regola gestionale di Hamas, costruita al contrario per non dare al nemico precisi punti di riferimento, e dunque con vari centri di comando, maggiori o minori. Esistono ancora vari leader di medio livello che operano relativamente al sicuro, ben lontani da Gaza e in generale ben protetti (le uccisioni di Ismail Haniyeh a Teheran e di Saleh Al Arouri a Beirut non sono la regola), ove raccolgono la gran parte dei finanziamenti e degli armamenti, oltre a mantenere i contatti con sponsor e sostenitori, statali e non. Queste basi esterne hanno consentito ad Hamas di vivere e prosperare a Gaza e, per quel che si riesce a capire da varie fonti analitiche internazionali, sono ancora per lo più operanti: e in quanto alla parte combattente in loco, se è vero che le perdite sono state pesantissime, è pure vero che non si intravede chi possa credibilmente sostituire l’egemonia di Hamas sul campo; per cui non pare impossibile la ricostituzione, almeno parziale, pure della struttura interna, una volta calati di intensità bombardamenti e massacri.

D’altra parte, mi sembra ancor più irrealistica, almeno al momento, l’emarginazione di Netanyahu e dell’estrema destra al governo in Israele. Ho l’impressione che gran parte delle valutazioni sugli sviluppi del conflitto tra israeliani e palestinesi avvengano senza tener conto del fatto fondamentale delle ultime settimane: e cioè che il conflitto è andato ben oltre i confini di Israele e Palestina e si è esteso, parrebbe irreversibilmente, non solo al Libano, ma minacci anche la Siria e sia sul punto di raggiungere quello che ne sarebbe il punto focale, e il più foriero di immani rischi distruttivi persino oltre il Medio Oriente: e cioè il confronto diretto tra i due nemici-chiave, Israele e Iran, prospettiva che l’eventuale vittoria di Trump nelle elezioni di novembre potrebbe rendere ancora più esplosiva a breve. In un quadro geopolitico del genere, troverei davvero sorprendente che colui il quale, recupero degli ostaggi a parte, ha ottenuto sul campo (con le tre uccisioni “eccellenti” ancor più che con i massacri a Gaza e con la distruzione di gran parte dell’apparato combattente di Hamas) buona parte dei risultati che si era prefisso, venisse accantonato e sostituito. Tanto più che, tornando all’epicentro della guerra dell’ultimo anno, resta esplosiva e irrisolta la questione di chi e come gestirà Gaza e la Cisgiordania. Fin da quando ho iniziato a partecipare attivamente (oramai ben più di mezzo secolo fa) alle mobilitazioni a fianco e in sostegno della lotta dei palestinesi, ho sempre scritto e detto che la soluzione dei “due popoli e due Stati” mi pareva fragile e assai difficilmente realizzabile positivamente, per lo squilibrio di forze tra le due eventuali entità: e che, seppur apparentemente idealistica e futuribile, almeno in nuce la prospettiva migliore sarebbe stata quella dell’evoluzione di Israele verso uno Stato laico, multiculturale, aperto a tutte le componenti etniche e religiose (non solo quella ebraica e quella palestinese, ma anche la arabo/islamica che, oltretutto, al momento conta almeno tanti cittadini/e quanto la componente palestinese) e dotato di istituzioni democratiche inclusive. Ovviamente, al momento un’evoluzione del genere appare fantascientifica: ma anche quella dei due Stati, federati o meno, non sembra davvero più realistica e attuabile. Cosicché, qui ed ora non si intravede alcuna soluzione che possa garantire, non solo una pacificazione militare, ma anche il riconoscimento dei diritti fondamentali del popolo palestinese. Insomma, l’uccisione di Sinwar mi pare non l’episodio che determinerà l’esaurirsi del conflitto, ma solo una tappa, seppur di grande rilievo, una “stazione”, cruciale ma non decisiva e conclusiva, di un calvario bellico non destinato ad esaurirsi ma che, anzi, minaccia di raggiungere vette di ancor maggior tragicità ed esplosività.

 Piero Bernocchi


ENGLISH


THE DEADLY MISTAKES OF YAHYA SINWAR AND HAMAS  

by Piero Bernocchi


Leon de Winter is a Dutch writer who, in addition to his books, maintains a constant socio-political presence with articles published in various European newspapers and magazines. Regarding Sinwar, he wrote in an article in the Neue Zürcher Zeitung, a Swiss newspaper with almost three centuries of history: "Yahya Sinwar had found the weapon with which to defeat the Jews and manipulate the world: the death of his own people. He invites the Jews to kill his people, and the Israelis cannot escape the fight against Hamas. Sinwar knew how to exhaust the Jews, blackmail them, and turn them against each other." Indeed, Sinwar's strategic plan, culminating in the horrific massacre of October 7th, had its own tragic strategic grandeur. However, contrary to de Winter's interpretation, it was undone by a series of mistakes and misjudgments regarding unrealized possibilities, committed by the Hamas leader, which proved tragic and fatal for the Palestinian people as well as for Sinwar himself. This chain of erroneous evaluations, which I will try to analyze and comment on here.


The Failure to Involve the Entire Islamic World in a Direct Attack on Israel

For months now, credible documentation from various reliable sources has circulated explaining how the massacre of October 7th was planned—perhaps with not identical details—likely for at least a couple of years and had been postponed multiple times, waiting for more favorable general scenarios. There is broad agreement among insiders about the reasons, at least two dominant ones, that ultimately led Sinwar and Gaza's internal leadership to choose the date of October 7th. I will return to the second reason later, but here I will focus on what I consider the most relevant and decisive: the absolute necessity to thwart the expansion of the Abraham Accords (which normalized relations between Israel, the United Arab Emirates, and Bahrain) with the inclusion of Saudi Arabia and possibly Qatar, and with the formation of a very influential bloc of Sunni countries led by the most powerful nation of the Islamist world, Saudi Arabia—a great and historic adversary of Shiite Iran since the rise of the Ayatollahs to power in Tehran.

One of Sinwar’s strategic insights was to wedge himself into this emerging alignment, favorable to the normalization of relations with Israel, and at the same time, to cement the anomaly of a close relationship, with consequent copious funding and military support, between an organization of extreme Sunni radicalism like Hamas and the Iranian stronghold of the Shiite world. This was an absolute anomaly just a few years earlier when Sunnis and Shiites were slaughtering each other daily across the Islamic world, with casualties far exceeding those in conflicts with Christians, “Westerners,” and Jews. This anomaly may have been the most remarkable and potentially capable of opening new and unexpected scenarios for the monumental and seemingly insane plans for the total destruction of Israel.

However, to activate such a scenario, an action was needed that was so terrifying, shocking, and merciless, manifesting itself in the most barbaric forms possible, that it would provoke an equally savage, brutal, and massacring response from the Netanyahu government. Sinwar counted on the colossal humiliation imposed on the entire Israeli military apparatus and on the global disgrace inflicted on an ultra-ambitious, unscrupulous leader like Netanyahu, who, in his desire to erase the PNA and Fatah from the scene, had been deceived by Sinwar and had long facilitated his rise to power in Gaza, giving him a dominant position over all Palestinians.

Consequently, I believe the horrors of October 7th were not due to spontaneous barbarism or an uncontrolled orgy of vengeance by the thousands of armed Palestinians involved, but rather were planned and intended by Sinwar and his followers (and for this reason, documented and exhibited with the most gruesome videos, photos, and audio recordings) precisely to render a merely “moderate” response from the Israeli government unrealistic and, in fact, impossible. Sinwar's gamble, cynical and merciless but not crazy in principle and potentially successful, was to push Netanyahu to attack Gaza with an unprecedented level of destructive force, causing the highest possible number of civilian casualties. Sinwar had repeatedly admitted, without embarrassment, that he was willing to sacrifice an exorbitant number of his own unarmed compatriots to create the conditions for Israel’s defeat and destruction.

The aim was to provoke both widespread global indignation against Israel (and, more generally, against the presence of a Jewish state in Palestine, to be liberated “from the river to the sea”) and to push the entire Islamic world, both Sunni and Shiite, to militarily intervene, contributing decisively to Israel's destruction. Despite my political, ideological, cultural, and moral aversion to holy war Islamism, dictatorial regimes like the horrific Iranian theocracy, and obscurantist, reactionary, ultra-misogynistic, and homophobic organizations like Hamas and Hezbollah, I cannot deny that this strategic plan had, at least in potential, what I called a tragic grandeur. In reality, this plan had indeed achieved its first objective: to provoke a vast wave of international outrage, even in previously unsuspected quarters, which quickly set aside the horrors of October 7th (often celebrated as a “redemption” for the Palestinian people after decades of oppression and humiliation, or even as “the beginning of the Palestinian Revolution”) to mobilize in an almost permanent protest against the ongoing massacre in Gaza, where Hamas militants killed by the Israeli army were accompanied almost daily by an equally large number of civilian casualties, with no distinction made between men, women, and children.

However, what did not happen—revealing itself as the main weakness of this highly ambitious strategy and Sinwar's greatest miscalculation, along with those who shared his approach—was the general failure to involve the entire Islamic world, both Sunni and Shia, in a frontal assault on Israel. In hindsight, Sinwar demonstrated a surprising lack of understanding of the diverse and ambiguous complexity of this world. (As we will see later, Sinwar made similar and equally fatal errors of judgment—both for himself and for the Palestinians—in his analysis of Israeli society and the prevailing psychology among Israel’s Jews.)

It is astonishing, to begin with, that Hamas's undisputed leader truly believed the bombastic war proclamations and the calls for the destruction of the 'Zionist entity' (as the Iranian theocratic dictators like to refer to Israel, refusing to even name it out of utmost disdain) from two mass rhetoricians and crowd-enchanters like Khamenei and Nasrallah. It is surprising that such a keen observer of every nuance in the thinking of Islamist radicalism could actually believe that the theocratic regime and Hezbollah would be willing to jeopardize their power and dominance in their respective controlled countries—Iran and Lebanon—and even risk the survival of their regimes, to join Hamas in a direct confrontation with Israel. They were well aware of their military inferiority, as well as the fragility of their internal rule, faced with two societies that are largely hostile: one in open revolt, as seen in Iran over the last two years, or subdued but non-compliant and non-collaborative like the Lebanese one, which has been unable to prevent the gradual domination of the Shiite minority over the country but fundamentally hopes for its possible military downfall.

In truth, in the behavior of almost all Arab countries and Iran toward the Palestinian tragedy, there has always been a deep instrumentalism that Sinwar and his associates should have been well aware of. After the Arab League's failed attempts to militarily defeat Israel and expel the Jewish community from Palestine, most of the surrounding Arab countries have cynically used the Palestinian people and their struggle only to create as many difficulties as possible for Israel, to keep it under constant pressure, and to activate widespread international solidarity against the 'Zionist entity.' Yet this cynical and instrumental plan was never accompanied by genuine solidarity with the Palestinian people, neither in terms of significant material aid nor in the dignified reception of refugees, at least on a level consistent with the thunderous proclamations of the time. Imagine Hezbollah and the Iranian theocracy seriously challenging Israel in open, unmediated military confrontation, with the realistic possibility of not only being overwhelmed on the battlefield but also allowing widespread internal opposition to finally settle the score with their intolerable decades-long domination.

But Sinwar made another misjudgment, just as inexplicable for someone who, over many years, had had the opportunity to study closely, with maximum awareness of contacts and links, the complex, convoluted, ambiguous, and changing relations between the various Islamic states and communities in the Middle East. The Hamas leader seems to have taken seriously—and vastly overestimated—the deep bond he managed to establish, since he was still in Israeli prisons (where he was able to bribe prison guards, thus enabling him to communicate freely not only with his 'subordinates' in Gaza but even with the Iranian regime) as early as 2011, with the ayatollahs' regime. Certainly, the anomaly of such a close, demanding, and unprecedented alliance between Sunnis and Shias, usually in permanent war against each other for centuries, may have misled Sinwar’s perceptions, to the point of mistaking a tactical agreement (very useful for Iran to sideline the project of a vast part of the Sunni world to normalize relations with Israel in the name of common economic interests) for a general and permanent strategic collaboration. But the majority of the Sunni world never digested the almost 'intimate' relationship between the militant Sunni Palestinian faction and Iran, let alone the great power acquired by Hezbollah, another standard-bearer of the Shia minority and also a close ally of Hamas. How alive this hostility was, despite the commonly broadcasted support for the Palestinians during the Gaza massacres, was openly visible in the celebrations in many Sunni Arab countries at the news of Nasrallah's death, while at the same time, the killing of Sinwar hardly seems to have provoked great waves of solidarity and mourning in these countries.


Sinwar’s Miscalculations Regarding the Current Jewish Population in Israel

Though less striking, Sinwar's second catastrophic miscalculation had equally disruptive effects on the monumental strategic project aimed at bringing Israel to its knees: the Hamas leader demonstrated another severe failure in social and political analysis, even more puzzling given how much time he had had to study Israeli society in detail, having even spent a long time within its prisons. On this point, the second part of De Winter's comment, quoted at the beginning ('Sinwar knew how to wear down the Jews, blackmail them, and pit them against each other'), has proven to be flawed. Sinwar believed he knew 'how to wear down the Jews,' but he was likely accounting for the old Jews, not the reality that goes far beyond old Zionism: the Jewish people of Israel today. Indeed, at least on paper, the Hamas leader was not wrong in considering favorable, for the brutal invasion of October 7, the deep division in Israeli society caused by the reactionary and ultra-authoritarian domestic policies of the Netanyahu government, dominated, or at least strongly influenced, by the extreme right, theocratic and racist forces, intent on conceding nothing, and indeed taking even more away from the Palestinians. The internal conflict within the Israeli community, before October 7, had indeed reached unprecedented intensity, causing divisions, conflicts, and waves of hatred that Israel had never known within the Jewish world, even jeopardizing the government’s very survival. And, highly relevant to the success of Sinwar/Hamas’s strategic plan, this division had reached the military structure—the army, the intelligence services, and the entire Israeli combat, defense, and offensive apparatus, which appeared equally torn and divided.


What Sinwar failed to calculate, predicting instead the exact opposite of what ultimately happened, concerned the effect of the terrifying and barbaric pogrom carried out against the communities near the Strip on the entire Israeli population, which suddenly found itself defenseless and vulnerable, and in general on the political and military world of the country. In a 'normal' country, with a 'normal' population and a 'normal' leader, Sinwar's predictions would probably have come true: such a shocking attack, able to expose the fragility of the containment system against sectors of Islamist extremism that consider death in battle against 'infidels' a glorious event, would have exacerbated internal divisions to the point of widespread social rupture and the paralysis of political and military institutions. But Jewish Israeli society is not 'normal,' that is, it cannot be reduced to the norm of any Western society that has not had to endure centuries—indeed millennia—of oppression, pogroms, constant persecutions, countless massacres, and subjugations, culminating in the monstrous Nazi Holocaust. The image of the Jewish sacrificial lamb, unable to react and a victim of any established power, has been replaced in just a few decades by that of the fierce and ruthless Jewish fighter, with a military, warlike, but also investigative apparatus of the highest level, immersed in a country that, since its inception, feels besieged and, in particular circumstances, accepts that anything, including atrocities, may be done for the survival of Israel.

Thus, October 7 provoked the exact opposite of what Sinwar's strategy envisioned: the gradual unification of society around the only leader willing to do whatever it takes, no horror excluded, to crush Hamas (and subsequently Hezbollah, leading up to a direct confrontation with Iran if necessary). Even accounting for a massive number of civilian casualties, adults and children alike—whom Hamas thought it could use as human shields to protect itself from the planned extermination of their militants—day by day, a discredited, corrupt, ultra-authoritarian leader, openly opposed by the moderately democratic and secular components (which still exist in Israel and had, for over a year, marginalized the prime minister, coming close to his ousting), has managed to prevail and silence all opposition. Then, the chain of 'high-profile' assassinations—of Haniyeh, Nasrallah, and even Sinwar, under conditions reminiscent of the most vivid fantasies of a movie screenwriter—has not only rehabilitated the shocking failure of the intelligence services on October 7 but has also convinced a significant portion of Netanyahu's opponents that the strategy of responding to the October 7 horror with terror multiplied ten- or twenty-fold, disregarding any 'international conventions,' is currently the most effective approach, at least in the here and now, for defending Israel. In short, the exact opposite of what Sinwar intended to achieve.


The flawed defensive shields of international protest and Israeli hostages  

It is undeniable that at least one of Sinwar’s strategies has achieved a clear result, which was one of the main objectives of the massacre on October 7: to create a wave of hostility towards Netanyahu’s government and, more generally, against Israel on an international level, while simultaneously generating a strong current of sympathy and support for the Palestinians and for Hamas. However, even from this perspective, such a strategy, although powerful on paper, was accompanied by glaring miscalculations that led to its overall failure. This wave of aversion towards Israel and sympathy for Palestinians and Hamas had no influence whatsoever on Netanyahu’s government or the course of the war in Gaza. On the contrary, in some ways, it further embittered the actions of a government and military apparatus that had already demonstrated abundant ruthlessness and lack of scruples. As the campaign of hatred towards Israel grew internationally, the Israeli leader had an easy time arguing that it was not merely a product of solidarity with the Palestinians but also included a more general anti-Jewish sentiment (the term “antisemitism” is incorrect since Semitic origins are shared by a significant portion of the Arab populations in the Middle East), listing a series of genuinely anti-Jewish actions carried out on the international level, particularly by far-right forces nostalgic for the centuries-old “Jew hunt.” In short, Netanyahu managed to neutralize, at least internally, the effects of the general wave of solidarity with the Palestinians by transforming it into a re-edition of anti-Judaism. By leveraging the victimhood effect of those who feel persecuted by the entire world, he further united the domestic front and was able to thoroughly disregard not only UN interventions, which he openly and blatantly mocked, but also the “moderating” pressures from the U.S. presidency, which had already been weakened after Biden’s retirement and rendered even more fragile by Trump’s rise, who sided with Netanyahu and sought the Jewish vote for November.  

Even the other weapon Sinwar relied heavily on—the protective "shield" provided in principle by the Israeli hostages—turned out to be blunt and added to the list of irreparable miscalculations already outlined. As time passed, the number of hostages dwindled, and the conditions of those few who were released turned out to be, as expected, disastrous, suggesting that those who remained in Gaza’s tunnels, if ever freed, would be in equally dire, likely irreversible physical and mental conditions. Thus, as the destruction of much of Hamas’s military structure was compounded by the successes of “high-profile” killings, most of the Israeli population's attention towards the fate of the hostages diminished, leaving only the increasingly desperate and isolated pressure from the hostages’ relatives. The Israeli far-right had an easy time emphasizing that, ultimately, the hostages could not be given better treatment by the government than the hundreds of young Israelis killed in combat in Gaza since October 2023 and that they, too, should be regarded as war victims. Furthermore, it was even easier for the messianic extremism of significant sectors of Israeli society to remind Netanyahu of the now immensely unpopular (though at the time it was positively received by the majority of Israelis) exchange in 2011, promoted by the Israeli leader seeking a popularity boost, of a thousand Palestinian prisoners for one Israeli soldier, Gilad Shalit, held captive in Gaza. Among those thousand prisoners was Yahya Sinwar, the future supreme leader of Hamas, along with several other fighters from the organization, who, once released, resumed military activities, many of whom participated in the massacre on October 7 and were subsequently hunted down, with many becoming victims of Israeli army and intelligence services’ targeted killings.

  

Consequences and prospects  

What remains to be assessed are the consequences of Sinwar’s death not only on the Israel/Palestine conflict but also on the broader balance of military conflicts in the Middle East. A newspaper headline, following the death of the Hamas leader, captured his role in this way: “Hamas was an orchestra; Sinwar turned it into a solo show.” Indeed, in just over a decade, Sinwar gained an immovable and unprecedented centrality within Hamas, in my opinion even surpassing that of Nasrallah for Hezbollah or Khamenei for the Iranian regime. And not so much for the charisma of a personality, as intransigent as ruthless, always at the forefront of military confrontation and systematic hatred for Israel, never abandoning the Gaza front, even brutal (the epithet “butcher of Khan Younis” was reportedly not attributed to him by the Israelis but by the Palestinians themselves due to his practice of personally torturing and killing alleged traitors and/or Israeli collaborators). Rather, his role was more about a long series of innovative and strategic insights that, within a few years, elevated Hamas’s influence throughout the region. Even before his release from Israeli prisons in 2011, Sinwar had already managed to find the right channel to initiate, as a representative of a Sunni organization, an unexpected alliance with Iran, the dominant country of the Shia world. He was the creator of the indoctrination project for young students, for whom he invented study camps to educate them in hostility and hatred towards Israel; more broadly, he was the architect of a largely successful attempt to identify Hamas with the population of Gaza, connecting every citizen with the militant organization by addressing not only military and political matters but also social welfare, ideological and cultural education of Gaza’s inhabitants, with the aim of binding them closely and irreversibly to Hamas. This led to unprecedented levels of recruitment and military training, involving most citizens in the conflict with Israel, either through warfare or as victims. Finally, he was the architect of the strategic project culminating in the massacre on October 7, which abruptly changed Hamas’s role not only in Palestine but on the global stage. As Michael Milshtein, one of the top Israeli experts on the Palestinian world, wrote: “Sinwar is a radical, an extremist, far from any compromise, seeing himself as a modern-day Saladin. But that doesn’t mean he doesn’t pursue realistic goals: he knew well that October 7 wouldn’t destroy Israel. In fact, that wasn’t his aim; he wanted to destroy the Jewish State’s self-confidence, fracture Israeli society, and break its internal pact, ending the dialogue on coexistence.” This was achieved because Sinwar—perhaps his greatest success—had managed to make Netanyahu and Israel’s political and military leadership believe that Hamas was no longer a mortal danger, providing a paradoxical image of an organization supposedly willing to abandon its plans to destroy Israel. “When we talk about an intelligence failure,” Milshtein continues, “we are talking about the failure of a view based on the false image that Sinwar managed to create, which influenced the way Israel made political and military decisions… He was mistaken for someone with whom negotiations were possible. He was skilled in crafting this image of a leader attentive to politics.”  

However, despite this unprecedented centrality and indispensability within an organization that had operated for years like an “orchestra,” thinking that Sinwar’s killing is enough to dismantle Hamas, leading to its disappearance or at least marginalization, seems unrealistic. Personally, for years I have believed that the only hope for a positive future for the Palestinians lies in the end of Hamas's hegemony over the Palestinians and of Netanyahu and the far-right over Israel. Yet the international evaluations among commentators and experts on the effects of Sinwar's death and the drastic reduction of Hamas’s military forces (among the over 40,000 victims of the Gaza massacre, various observers estimate that at least half were Hamas fighters, meaning the group has lost about 60% of its militants on the ground) seem overly optimistic (for those who, like me, believe that this bilateral marginalization is fundamental for finding a way out of the conflict) and ultimately “comforting” and illusory, at least given the current state of affairs. While it is true that Sinwar’s figure does not seem reproducible, and his death is even more detrimental to Hamas than Nasrallah’s would be to Hezbollah or Khamenei’s to the Iranian dictatorship, the extreme centralization imposed by Sinwar (which was also intended to affirm the centrality of those remaining in Gaza fighting on the front lines compared to leaders in more comfortable positions in Qatar or Turkey) was the exception, not the operational rule of Hamas. Hamas was designed, on the contrary, not to give the enemy precise reference points, with various command centers, large or small. Several mid-level leaders remain relatively safe, far from Gaza, and generally well-protected (the killings of Ismail Haniyeh in Tehran and Saleh Al-Arouri in Beirut are not the norm), where they gather most of the funding and weapons and maintain contacts with state and non-state sponsors and supporters. These external bases have allowed Hamas to live and thrive in Gaza, and, based on what various international analytical sources suggest, they are still largely operational. As for the combatant forces on the ground, while the losses have been heavy, it is also true that there seems to be no credible alternative to Hamas’s dominance on the ground, making it not impossible for the internal structure to partially rebuild itself once the intensity of bombings and massacres diminishes.  

On the other hand, the marginalization of Netanyahu and the far right in the Israeli government seems even more unrealistic, at least for now. I have the impression that many assessments regarding the developments of the Israeli-Palestinian conflict fail to take into account the key fact of recent weeks: that the conflict has extended far beyond the borders of Israel and Palestine and has spread, seemingly irreversibly, not only to Lebanon but also threatens Syria, and is on the verge of reaching what would be its focal point, posing immense destructive risks even beyond the Middle East. This focal point is the direct confrontation between the two key enemies, Israel and Iran, a prospect that Trump’s potential victory in the November elections could make even more explosive in the near future. In such a geopolitical context, I would be truly surprised if Netanyahu, who, apart from the hostage recovery, has achieved much of the goals he set out (with the three “high-profile” assassinations even more than the massacres in Gaza and the destruction of much of Hamas’s military apparatus), were to be sidelined and replaced. 

Furthermore, returning to the epicenter of the past year's war, the explosive and unresolved issue remains: who will manage Gaza and the West Bank, and how? Since I first started actively participating (now well over half a century ago) in mobilizations supporting the Palestinian struggle, I have always written and said that the “two peoples, two states” solution seemed fragile and very difficult to achieve positively, due to the imbalance of forces between the two potential entities. And that, though seemingly idealistic and futuristic, the best prospect, at least in principle, would have been the evolution of Israel into a secular, multicultural state, open to all ethnic and religious groups (not just the Jewish and Palestinian ones, but also the Arab/Islamic population, which, at present, counts at least as many citizens as the Palestinian population) and endowed with inclusive democratic institutions. Obviously, such an evolution appears far-fetched at the moment, but even the two-state solution, federated or not, no longer seems realistic or achievable. Thus, at present, there seems to be no solution in sight that could ensure not only military pacification but also the recognition of the fundamental rights of the Palestinian people. 

In conclusion, the killing of Sinwar does not seem to be the event that will bring the conflict to an end, but rather just one stage—albeit a highly significant one, a “station”—crucial but neither decisive nor conclusive, in a military ordeal that is not likely to end but instead threatens to reach even greater levels of tragedy and explosiveness. 

 

Piero Bernocchi



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