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domenica 24 settembre 2023

UN CAMBIO MUNDIAL, COMENZANDO POR LA ONU

por Tito Alvarado


Hace muchísimos años, cuando era niño, recuerdo haber leído algo que se hacía en el Egipto antiguo, la conclusión era que no había nada nuevo bajo el sol, pues eso también se hace en nuestro tiempo. Si de recuerdos se trata también recuerdo haber escrito que la OEA es una basura, de esto ya hay bien unos veinte años, luego un destacado líder latinoamericana escribió en similar sentido, no diré su nombre para que no se preste a malos entendidos. Lo cierto es que lo que había que decir, se dijo y coincide con los resultados de algo que El Che definiera como el ministerio de colonias del imperio.

Cada año tenemos el show de los presidentes leyendo discursos para poca gente, hay momentos en que el amplio local de conferencias, está casi vacío, dicen sus cosas con o sin importancia y quedan como monos o como héroes, todo depende del cristal con que miremos.

Está en pleno desarrollo la no sé cuánto Asamblea General de las Naciones Unidas. Nombre para llorar o para reír, lo que más han hecho los seres humanos, aparte de producir basura, es estar desunidos, siempre en lucha con otros y en ambos casos este organismo no ha servido ni sirve, para nada más que no sea elaborar informes y declaraciones de buena voluntad, eso con que se pavimenta el camino del infierno.

¿Qué problemas tiene el mundo actual? O ellos nada saben (los asistentes a la asamblea), pues nada dicen o es preferible no hablar de asuntos tan álgidos, lo cierto es que cada año esta reunión agrega más al circo que a implementar acuerdos en pro de las soluciones. Ahora todo indica que muchos presidentes están descubriendo el agua tibia unos y el hilo negro otros, hablan de remozar, transformar, actualizar etc., una organización que nunca, lo que es nunca, ha servido para los pueblos del mundo.

Una nota periodística a la rápida, dice: “El reto del organismo es seguir siendo un instrumento eficaz para la paz entre los pueblos, en medio de los profundos cambios mundiales” Son todas palabras conocidas, pero juntas y en relación a ese engendro denominado Naciones Unidas no se pueden reconocer como coherentes, esto o es un eufemismo o es un Fake News: Seguir siendo un instrumento, sí, lo ha sido, pero precisamente para lo contrario de lo que asegura la nota. Habla de profundos cambios mundiales y ¿qué es esto?. Los pobres siguen buscando una salida a su situación de constante miseria, de África se van a Europa, una Europa en bancarrota, de América latina se van a Estados Unidos, un país que tiene más de cincuenta millones de pobres en las calles. Los ricos siguen amasando fortunas en cifras moralmente inaceptables.

La cereza en el pastel viene ahora, la nota copia algo expresado por algunos medios de prensa,”Más de 40 muertos y 158 detenidos en protestas contra la misión de Paz de la ONU en República Democrática del Congo.”Levántate Patricio Lumumba y esgrime tus razones mostrando que una fuerza de paz que mata, no sirve a los pueblos, aunque quienes dispararon no sean los de la misión de paz, ellos son parte del problema, nunca de la solución.

Este organismo no debe ser reformado ni transformado, debe ser disuelto y en su reemplazo, los pueblos libres, conformar otro que no sea parte del circo ni responda a los intereses hegemónicos de los dueños del mundo, sino una autoridad con poder de implementar soluciones globales. ¿Qué falta para algo así?, lo primero es no ser charlatanes de feria, sino auténticos representantes del sentir y las necesidades de sus pueblos, lo segundo es no ir a escuchar sus voces, sino a buscar lo que realmente funcione para todos. ¿Se podrá algo así?, la respuesta es no, si continuamos con el actual modo de vida: sacar la mayor ganancia al menor tiempo posible. Es hora de pensar la humanidad toda en lo urgente necesario, pensarla en términos de priorizar lo que funcione, la ONU no funciona ni el modo capitalista ni los ejércitos ni priorizar a unos en desmedro de otros. Que cada cual asuma su lugar, el mío está con el Sur.


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sabato 23 settembre 2023

NAPOLITANO: UNA VITA CONTRO GLI OPERAI

Partito comunista dei lavoratori

La storia vera di Giorgio Napolitano, il «comunista» preferito di Kissinger

In queste ore la memoria di Giorgio Napolitano è omaggiata a reti unificate. Non è un caso. 

La sua biografia riassume storia e deriva della sinistra italiana tra prima e seconda Repubblica. Dallo stalinismo al liberalismo borghese. La massima coerenza nel trasformismo. La massima coerenza contro gli operai. 


Da dirigente stalinista del Partito Comunista Italiano, promosso nel Comitato Centrale col fatidico VIII Congresso (1956) si guadagnò i galloni dorati di Togliatti partecipando attivamente al plauso dei carri armati di Mosca contro gli operai ungheresi. Un bagno di sangue che Napolitano, appena trentunenne, salutò come «difesa del socialismo» e «contributo decisivo alla pace mondiale». 


Negli anni '60, responsabile del PCI per il Mezzogiorno al posto del vecchio Li Causi, e pupillo prediletto di Giorgio Amendola, inaugurò la propria carriera nell'ala destra della burocrazia PCI, quella che chiedeva una politica di apertura al governo del centrosinistra, e in particolare al partito socialista, in funzione di una promozione istituzionale del PCI. Fu il celebre congresso del 1966, con la dialettica interna all'apparato stalinista tra la posizione movimentista di Ingrao e la destra amendoliana. L'ambizione di Napolitano era quella di succedere a Luigi Longo quale segretario del partito. Ma la sua posizione di confine nella dialettica d'apparato non giocò a suo favore. La nomina di Berlinguer fu per lui uno smacco che si appuntò al dito. 


Negli anni '70, aperti dall'autunno caldo e conclusi con l'unità nazionale, Napolitano giocò un ruolo importante. Al fianco dell'anziano Giorgio Amendola combinò la massima diffidenza verso le lotte dei lavoratori e “il ribellismo del '68” con la massima postura governista.

L'allentamento delle relazioni del PCI con Mosca sancito dal «franco dissenso» sull'invasione della Cecoslovacchia (agosto 1968) e al tempo stesso, e soprattutto, l'ascesa di massa che attraversava il paese spinsero i settori decisivi della borghesia italiana (Carli, Agnelli, La Malfa) ad aprire al PCI per una sua corresponsabilizzazione di governo. Era l'unica via per fermare la classe operaia e ricondurla all'ovile. Napolitano fu un uomo di punta dell'operazione. Attivo sostenitore del compromesso storico di Berlinguer, in omaggio alla tradizione togliattiana del dopoguerra, Napolitano fu il principale elaboratore della politica di austerità e sacrifici che accompagnò la politica dei governi di unità nazionale tra il 1976 e il 1978 (prima manomissione della scala mobile, apertura alle privatizzazioni, esaltazione della produttività...). Il "Piano a medio termine" del PCI, che razionalizzò l'austerità, fu scritto da Giorgio Napolitano, quale responsabile economico del partito. 

Ma il suo ruolo e scopo principale da allora divenne un altro: quello di legittimare il PCI quale partito di governo presso la diplomazia dell'imperialismo USA. Napolitano fu il primo dirigente del PCI ospitato a Washington. Kissinger, appena reduce dal golpe fascista di Pinochet, chiamò Napolitano «il mio comunista preferito» (1978). Una onorificenza meritata. 


Negli anni '80, gli anni del declino del PCI, Napolitano fu il capofila della cosiddetta ala migliorista del partito, il settore della burocrazia maggiormente legato alle amministrazioni locali, quello più aperto verso le socialdemocrazie europee e in Italia verso il PSI di Bettino Craxi. 

Quando il governo Craxi varò il decreto di San Valentino del 1984 contro la scala mobile, costringendo Berlinguer a replicare col referendum per tutelare il peso negoziale del PCI, Napolitano capeggiò l'ala della burocrazia più refrattaria a ogni forma di conflitto col PSI. Ebbe dalla sua anche Luciano Lama, che si allineò a Berlinguer solo per disciplina. Dopo la morte di Berlinguer, quando si aprì nella burocrazia la lotta per la successione, Napolitano puntò a rilanciare una propria candidatura: ma la sua posizione di confine nell'apparato ancora una volta gli precluse quello sbocco, aprendo la via prima a Natta e poi a Occhetto. 


Fu solo negli anni '90 che Napolitano cominciò finalmente ad andare all'incasso dei meriti acquisiti in precedenza presso la borghesia italiana (e non solo italiana). 

In prima fila nello scioglimento del PCI alla Bolognina, dopo la caduta del Muro di Berlino, Napolitano incrociò il crollo della prima Repubblica e l'avvio della seconda. 

Eletto Presidente della Camera nel 1992, fu sufficientemente abile per evitare di restare sotto le macerie del craxismo e al tempo stesso sufficientemente spregiudicato per puntare in prima persona a ruoli di governo. 

Quando nacque il primo governo Berlusconi, nel 1994, intervenne in Parlamento per censurare ogni opposizione pregiudiziale. Berlusconi andò platealmente a stringergli la mano. Napolitano divenne il primo ministro degli Interni di estrazione PCI, nel governo di Romano Prodi (1996-1998), quello che con i voti della Rifondazione di Bertinotti, Ferrero, Rizzo, varò il lavoro interinale e il record delle privatizzazioni in Europa. Da ministro degli interni di scuola Pecchioli, Napolitano contribuì col varo di una legge che per la prima volta istituiva la detenzione amministrativa dei migranti (legge Turco-Napolitano), la legge antesignana dei futuri CPR. Una legge infame. Erano gli anni del tentato blocco navale contro l'”invasione” degli albanesi, quello con cui nel 1997 si speronò e affondò nel mare d'Otranto un barcone con più di cento migranti. Un crimine impunito. Il ministro degli Interni Napolitano gestì e coprì l'operazione, e la sua cancellazione successiva dalla memoria nazionale della sinistra. 


Ma la carriera di Napolitano nella sua seconda vita era appena iniziata. Nel 2006, forte del suo prestigio, venne nominato Presidente della Repubblica. Da Presidente della Repubblica, collaborò prima col secondo governo di Romano Prodi tra il 2006 e il 2008 (quello che col voto di Rifondazione detassò i profitti passando l'IRES dal 34% al 27,5%), poi col terzo governo Berlusconi (2008-2011), di cui coprì per “responsabilità istituzionale” tutta la legislazione ad personam, le leggi contro il lavoro, la controriforma Gelmini contro la scuola pubblica, firmando e controfirmando tutte le peggiori schifezze. 

Quando nel 2011 precipitò la crisi della maggioranza che sorreggeva Berlusconi, cercò di fare l'impossibile per cercare di garantirgli la sopravvivenza. Lo mollò solo sotto la pressione del capitale finanziario nazionale e internazionale con lo spread a 575 punti. Ma invece di convocare le elezioni, patrocinò il governo di unità nazionale di Mario Monti e la sua politica di lacrime e sangue contro i salariati, a partire dalla famigerata legge Fornero. Una politica sostenuta dal PD e consentita dalla CGIL – con la pubblica benedizione di Napolitano – che spianò la strada all'ondata populista tra i salariati. 
Rieletto nel 2013 per mancanza di alternative, Napolitano sospinse il tentativo di riforma reazionaria delle istituzioni con un esplicito appello al Parlamento italiano nel nome della governabilità. Fu Matteo Renzi a raccogliere il mandato di Napolitano. La sua gestione personalistica dell'operazione la condannò, com'è noto, alla rovina. Napolitano fu abile ancora una volta a sottrarsi alle macerie di quel renzismo che aveva sospinto, e poi a concludere la propria carriera con un ritiro onorato. 


Napolitano uomo delle istituzioni? Certamente. Un servitore fedele dello Stato borghese in tutte le vite che ha attraversato. Sempre dall'altra parte della barricata di classe. Sempre contro i lavoratori. 

La borghesia giustamente lo acclama, col coro unanime di tutti i partiti. Landini ha parlato in queste ore, vergognosamente, di «uno di quei padri di cui possiamo sempre andare fieri» (testuale). A noi allora il compito di ricostruire tra i lavoratori la memoria vera di un loro ostinato avversario.


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giovedì 14 settembre 2023

L’ESERCITO DEL SELFIE, I «SOCIAL MEDIA» E L’IMPEGNO POLITICO

di Piero Bernocchi


Sostengo da tempo, con alterne fortune, l'enorme influenza del protagonismo individuale, in teoria illimitato, sui social media e i suoi effetti negativi sul protagonismo collettivo, in particolare su quello politico extra-istituzionale, di base, di movimento. In tale mio impegno, ad esempio ho provato, in particolare in riunioni e assemblee COBAS Scuola  e convegni CESP, a dare una spiegazione non convenzionale di un fenomeno descritto negli ultimi tempi da parecchi insegnanti: e cioè l'ossessiva e apparentemente maniacale necessità della quasi totalità degli studenti di avere con sé in permanenza, e in consultazione continua, il proprio smartphone, al punto da manifestare una specie di "crisi da astinenza" se ne vengano separati per qualche ora durante le lezioni (pare che, in tal caso, tanti studenti guardino gli armadietti, in cui sono provvisoriamente chiusi gli smart, come se ci fosse imprigionato un animaletto amatissimo in sofferenza). 

In tali consessi, ho espresso la mia opinione che non si trattasse dell'effetto di semplice rincoglionimento collettivo e di effetti "decerebranti" dei social, ma di qualcosa di più complesso e profondo, attinente ad un bisogno spasmodico di protagonismo individuale. Per spiegarmi meglio, ho fatto un paragone con un'analoga necessità, seppur su livelli di protagonismo apparentemente ben più motivati e "produttivi", dei leader politici, e in generale dei politici in carriera, di restare in permanenza collegati con i social e di dare in continuazione segnali della propria presenza nelle quotidiane baruffe e polemiche politiche. E ho posto la domanda: seppur su piani apparentemente non confrontabili per importanza, appare così inverosimile che la stessa frenesia di protagonismo social del politico in carriera, o dell'intellettuale famoso o del sindacalista celebre o del protagonista del mondo dello spettacolo o sportivo, colpisca anche milioni di giovani e meno giovani che sentono un'analoga necessità di segnalare la propria presenza nell'agone sociale, amicale, familiare? Con il conseguente bisogno frenetico di non perdere manco una battuta del dialogo incessante con i propri follower o più semplicemente con gli "amici di tastiera", con i gruppi sociali e amicali con i quali sono, attraverso le innumerevoli chat, in collegamento permanente? 

Davvero i due piani non sono paragonabili? A smentire una considerazione del genere, apparentemente di buon senso, potrei richiamare il successo cosmico non tanto di influencer, dotati comunque di particolari abilità o conoscenze di moderni "galatei" o modelli di comportamento (sullo stampo delle Chiara Feragni, per intenderci), ma anche di "giovani qualunque". Come quel Khaby Lame, nato In Senegal e in Italia dall'età di un anno, che dal nulla del suo lavoro precario perso nel 2020 a venti anni, ha  guadagnato in tre anni oltre cento milioni di follower in tutto il mondo semplicemente sbeffeggiando su Tik Tok, e senza parlare (si auto-definisce dislessico), la banalità dei video di altri frequentatori del social, di certo meno furbi e sagaci, divenendo infine oggi una star mondiale del mondo dello spettacolo a 360 gradi. Possiamo anche sottovalutare l'effetto imitativo di questi casi, sempre più numerosi, di improvviso successo planetario di persone che, senza alcuna particolare abilità, professionalità o conoscenze, riescono a raggiungere una notorietà globale e universale, superiore di gran lunga a quella della gran parte dei politici conosciuti. Ma dovremmo però almeno prender atto che milioni di giovani e meno giovani si accontentano pure di una notorietà assai più limitata, fosse anche circoscritta in una ristretta cerchia di amici, familiari, colleghi di lavoro o di studio, conoscenze e "amicizie virtuali" accumulate nei social, ritenendo comunque indispensabile uscire dal totale anonimato a cui erano destinati, prima del trionfo dei social, milioni (anzi, miliardi) di individui che non svolgevano attività politiche, economiche o sociali di una qualche rilevanza. E per guadagnarsi tale, seppur circoscritta, notorietà, essi/e devono competere quotidianamente con un impegno indefesso, che rende indispensabile aver sempre a portata di mano l'"attrezzo da lavoro" mediatico, che non può stare, di conseguenza, neanche per qualche ora confinato in un armadietto. In alcuni casi, tale desiderio di comparire, di essere notati anche oltre la cerchia amicale, porta addirittura ad imprese scellerate e autolesioniste, come pubblicare dei video di violenze compiute, aggressioni, stupri, uccisioni di animali, torture o persecuzione di portatori di handicap: video che poi diventano la prova provata dei crimini stessi e si ritorcono contro gli autori, individuati e condannati proprio grazie a quei video..  

Queste mie considerazioni mi sono state confermate durante gli ultimi mesi da quello che potrei chiamare il trionfo dell'"esercito del selfie" (devo l'espressione al titolo di un ironico hit musicale di Tagagi&Ketra, alias Alessandro Merli e Fabio Clemente, di qualche tempo fa) a livello universale. Ovviamente non sto scoprendo l'acqua calda, il successo straripante dei selfie non è certo di oggi (d'altra parte Tagagi&Ketra lo sbeffeggiavano appunto già nel 2017). Purtuttavia, essermi trovato a poche settimane di distanza prima in un paese dominato dalla cultura islamica più integralista - ove la quasi totalità delle donne locali circolano bardate in palandrane nere, che non si possono togliere neanche quando al mare provano ad entrare in acqua (e chi tenta di "denudarsi" modello-Occidente viene travolta dalla riprovazione generale), e con almeno il capo coperto se non pure buona parte del viso - e poi, in un paese culla del cosiddetto "pensiero occidentale", mi ha sbattuto in faccia l'imprevedibile e impensabile, fino a ieri, elemento unificante di luoghi e contesti così distanti ed estranei: il culto supremo del selfie. Ho visto integralisti islamici e cristiani ortodossi, atei e credenti, giovani e anziani, ragazzi/e dal corpo modellato in palestre e scuole di danza e fisici sformati fino all'inverosimile, vicini ai 150 chili, usare con la stessa ossessività e onnipresenza il selfie, indipendentemente dalla bellezza o insignificanza del posto, con esclusivo soggetto, dunque, il proprio corpo nelle pose più pagliaccesche e grottesche, con veri e propri auto-servizi fotografici su se stessi, in perfetta solitudine e della durata anche di ore. 

La qual cosa, stante che oltretutto entrambi i paesi sono punto di raccolta di un turismo planetario, con cittadini/e di tutti i paesi e continenti, ha rafforzato la mia convinzione di quanto sia dilagante - e superi confini e differenze di luoghi, tradizioni, religioni, etnie, modelli culturali e stili di vita, caratteristiche estetiche, studi e professioni - il desiderio di emergere in qualche modo dall'appiattimento universale, di aver il famoso "quarto d'ora" di notorietà pubblica preconizzato da Andy Wahrol, o almeno di ottenere l'approvazione e la curiosità degli altri/e, fosse pure nelle proprie cerchie amicali, professionali o sociali, su se stessi qualche giorno o mese. Non dunque semplice e banale narcisismo, cosa possibile per chi ha un fisico da modello/a e spera magari che qualcuno/a che conta nel mondo dell'immagine lo noti, ma non certo per chi non può avvalersi di niente del genere fisicamente, o per integraliste islamiche con il 90% del corpo occultato da un abbigliamento “monastico”: ma piuttosto, una confluenza universale di centinaia di milioni di esseri umani uniti/e da un fortissimo desiderio di dare un segno di sé, di lasciare una traccia, quand'anche nelle piccole conventicole delle proprie chat. Però, oltre la spontanea riprovazione per il fenomeno globale , riprovazione che credo di condividere con tutta la generazione dei militanti politici degli anni ’60 e ’70, mi sono domandato se del tentativo - che per i “selfisti” assume sovente aspetti grotteschi se non addirittura ripugnanti (i video di imprese crudeli e criminali) - di emergere, di farsi comunque notare, noi fossimo del tutto estranei durante il nostro protagonismo collettivo degli anni del Decennio rosso, ripensando ad esempio a tanti dei nostri interventi, modello’68, nelle interminabili assemblee dell'"anno mirabilis", a base di "nella misura in cui.." e con il lodevole intento di "portare avanti il discorso..". O se, oltre alla sincera volontà di contribuire al successo della lotta collettiva, non contribuisse al nostro impegno permanente anche un desiderio di farsi notare, di emergere nella massa, di diffondere, insomma, un proprio "selfie politico-sociale". Certo, la differenza nell’espressione di questo desiderio resta enorme perchè nei casi citati d'antan si contribuiva comunque ad un progresso e ad una avanzata sociale collettiva: seppure resta da domandarsi quanto di quel protagonismo individuale abbia poi contribuito alla disgregazione gruppettara dei movimenti negli anni successivi, con l'esplodere di sigle e siglette divise spesso da bizantinismi incomprensibili ai non addetti ai lavori, a cui non fu estraneo – direi oggi - il desiderio di emersione e visibilità individuale e di gruppo.

C'è in più da sottolineare come, rispetto al secolo scorso, dopo l'esplosione e il dilagare dei social, l'impegno collettivo, politico e sociale sia divenuto assai più arduo  e molto più facilmente dissolvibile nel protagonismo individuale, a causa non tanto di repressioni o politiche ostative dei poteri politici ed economici, quanto soprattutto dell'incredibile capacità assorbente dell'apparato mediatico mainstream, in perfetta sintonia con il trionfo, apparentemente molto democratico, della possibilità di ognuno/a, tramite i social, di parlare come singolo/a - senza bisogno di organizzazioni, partiti o strutture collettive - alle "masse". Al punto da farmi domandare quanto sarebbe durato il '68 o il Decennio rosso se, invece di un apparato mediatico e politico ottuso e respingente, avessimo dovuto affrontare l'incredibile potere avvolgente e suadente degli attuali media, mainstream o social. Basti pensare, per fare un esempio, alla sorte del movimento climatista, a partire dalla sua componente di maggior successo, Fridays for Future e dalla sua fondatrice Greta Thumberg. Dopo un prima fase di dilagante e universale successo, il movimento è stato letteralmente divorato da una corale discesa in campo non solo di tutti i media che contano ma di qualsiasi impresa economica, commerciale, industriale, fino all'ultima delle sigle alimentari o del più piccolo supermercato: che hanno fatto il verso ai temi del movimento, martellando quotidianamente con pubblicità tutte invitanti a salvare il pianeta grazie a questo o quell'acquisto, a questo o quella modalità di comportamento individuale quotidiano. Cosicché, in breve tempo l'impegno collettivo è stato sovrastato dalla richiesta di milioni di impegni individuali per salvare un proprio ipotetico piccolo pezzo di mondo. Rendendo affannosi, tanto per fare un esempo, i tentativi di Ultima generazione, la più recente versione del movimento climatista, di richiamare l'attenzione sul cambio climatico con gesti eclatanti, (e per il "volgo mainstream" contestabili e condannabili), che finiscono purtroppo per disperdersi nella cacofonia interessata dell'intero sistema che quotidianamente bombarda i cittadini/e con inviti a comportamenti virtuosi individuali per salvare il pianeta.

In contemporanea, infine, l'impegno diretto e collettivo è stato sostituito per milioni di persone da un impegno "da tastiera",  individuale e virtuale, assai più riposante, che si esplica con le continue esternazioni, più o meno indignate, contro questo o quel misfatto della politica sociale quotidiana, che sia l'ultima decisione governativa fascistoide di Meloni o le sparate omofobe, misogine o razziste del suo entourage, condensando nella virtualità social quello che ieri avrebbe richiesto ben altro impegno fisico, culturale e politico nella vita in diretta. Ora, questo non significa certo l'impossibilità di far rinascere un impegno collettivo diretto, sociale e politico, che è poi il tentativo in cui noi COBAS e varia altra non dispersa militanza politica, sindacale e sociale ancora crediamo e per cui ci impegniamo quotidianamente. Solo che per condensare un tale attivismo non basta più il desiderio individuale di protagonismo e neanche una sincera volontà personale di cambiare le cose. Bisogna che si raggruppino e si addensino bisogni materiali pressanti, convergenti e unificanti, ai quali però si sappia anche offrire una soluzione positiva, che non sia semplicemente gli alti lai contro il cambio climatico o l'ingiustizia sociale ed economica, ma che sappia indicare una strategia, una tattica e un gruppo di obiettivi su cui sia possibile portare a casa successi anche parziali, ma immediati, per ricostruire - sostituendo al selfie individuale una vasta galleria di "foto" collettive - la fiducia in trasformazioni sociali ed economiche che, pur risultando di fatto addirittura più necessarie che nei passati decenni di grande impegno politico collettivo, appaiono al momento ben più lontane di allora.


SUL TESTO DI PIERO BERNOCCHI

di Michele Nobile

 

Anni fa, entrando nella Basilica di santa Maria Maggiore di Bergamo, dal fondo della navata e nel suggestivo ambiente semibuio mi trovai di fronte allo spettacolo di una moltitudine di mani levate e quasi congiunte, rivolte verso l’altare in quello che appariva come un gesto d’adorazione. Ma quel che più mi colpì fu che lo spazio tra le mani di ciascuno sfavillava di luce. 

Un miracolo? No, tanti fra i presenti levavano in alto i loro luminosi cellulari per scattare fotografie, in un gesto che mi appariva un nuovo rituale, di cui non ricordo più quale fosse l’occasione. Stavo facendo un reportage per Città alta e feci una serie di scatti a cui diedi il nome I nuovi credenti. Credenti in cosa poi, in quell’atto estraneo alla liturgia cristiana, se non in se stessi? Se non per poter poi affermare, nella virtuale relazione ad altri, «io ero lì, dunque sono»?

L’articolo di Piero Bernocchi parte da un esempio della medesima fenomenologia, che è parte usuale del nostro vivere quotidiano: gli onnipresenti selfie, visti come sintomo ed espressione della necessità di un protagonismo individualistico opposto a quello collettivo. 

Anche nel movimento collettivo viveva l’individualità e il desiderio d’essere visibili e riconosciuti, ma in questo caso la componente narcisistica poteva essere subordinata, regolata o controllata dalla comunicazione razionale e dall’esperienza comune. Quell’esperienza comunicativa collettiva e razionale, che in qualche modo bene o male faceva o comunque poteva fare i conti con fatti materiali dei quali si condivideva la realtà, pur in una molteplicità d’interpretazioni, è regredita in modo spaventoso. 

Ebbene, l’articolo di Bernocchi tocca un problema da cui dipende il futuro di qualsiasi politica liberatoria, emancipativa, rivoluzionaria. Non voglio anticipare altro dell’articolo di Piero ma, se non si riesce a superare la logica del protagonismo individualistico e del presenzialismo virtuale o dell’opinione incontrollata in cui svanisce la realtà fattuale, la «sinistra» (qualunque cosa s’intenda col termine) è condannata a sopravvivere in un mondo essenzialmente virtuale, forse gratificante, forse portatore d’una rendita elettorale, sicuramente irrilevante nel corso storico del mondo reale. 

Non so quanto Bernocchi sia d’accordo, ma è mia convinzione che per gran parte di quel che resta della sinistra che si vuole radicale, anticapitalistica e antimperialistica si sia attuata una profonda mutazione psichica dai gravi effetti concreti e ideali. 

Si possono rintracciare le condizioni genetiche di questa mutazione nella miseria della strategia politica, nella sconfitta del «lungo 1968» e nell’accumularsi delle sconfitte successive, nelle trasformazioni strutturali del capitalismo e della sfera della comunicazione, nella mancata elaborazione del lutto per la fine dei regimi pseudosocialisti: ma ora siamo ben oltre i presupposti e la genesi di qualcosa la cui formazione ha impiegato decenni, a cavaliere dei secoli XX e XXI. Adesso la mutazione è compiuta, si avvita su se stessa, marcia sulle proprie gambe.

Ciò che caratterizza questa mutazione è un problema a un tempo cognitivo ed emotivo, in cui la razionalizzazione discorsiva esprime qualcosa d’inconscio, la cui comprensione richiede gli strumenti della psicologia: la selettiva assenza d’empatia pur di fronte all’evidenza materiale della sofferenza

Anche in passato si verificavano casi apparentemente simili, ma allora entravano in gioco primariamente l’ideologia e la fiducia nel partito. Era una condizione che non escludeva la possibilità che, prima o poi, l’idea si scontrasse violentemente col fatto che la contraddiceva, che si ci si potesse rendere conto della realtà e modificare o abbandonare l’idea. Adesso, invece, risulta invertito il rapporto tra consapevole razionalizzazione discorsiva e capacità d’umana empatia. Il primato della necessità di mantenere la stabilità psicologica è diventato assoluto. Il discorso è diventato la mera razionalizzazione d’una condizione psichica che rifiuta di fare i conti con i fatti. 

L’evento che per la sua enormità è certo rivelatore di questa condizione è stato l’atteggiamento di fondo durante la pandemia di Covid-19, con quei presunti «oppositori radicali» (i no-vax di vario genere) che si sono persi nella sottovalutazione, se non nell’esplicita negazione della gravità della malattia e della realtà della pandemia con i suoi milioni di morti. Dei dettagli dei provvedimenti governativi si doveva – e si deve ancora - discutere, ma resta sbalorditiva la mancanza d’umana empatia al cospetto di decine e centinaia di migliaia e milioni di malati gravi e di decessi (al 6 settembre 2023, in Italia 191.370 decessi, almeno 7 milioni nel mondo), di cui siamo stati testimoni oculari o quasi. Erano eventi tragici verificabili nell’esperienza quotidiana, ma nascosti sotto la copertura d’astrusi ragionamenti circa lo «stato d’eccezione» in cui si perdeva il fatto realissimo d’una crisi sanitaria mondiale senza precedenti che non poteva non richiedere misure straordinarie. Che dovevano essere quanto più tardive e brevi possibili, perché l’imperativo dei governi è sempre stato ed è il ritorno alla normalità della produzione e circolazione delle merci. 

Ovviamente, il modo per evadere la realtà consiste nel costruirne una alternativa, infarcita di paranoia complottistica, che consente di affermare egocentricamente la propria identità virtuale

In fin dei conti, per chi si ispira a Marx questo non è motivo di stupore. Viviamo da decenni in un’atmosfera politica e culturale che - sbrigativamente - può dirsi postmoderna, in cui trionfa l’immagine e lo spettacolo di sé, il tutto tremendamente rafforzato dal digitale e da circoli telematici autoreferenziali. Perché mai la «sinistra» dovrebbe essere esente dall’influenza di questa atmosfera, di questa logica?

E allora come uscirne?

Intanto raccogliendo gli stimoli lanciati dal testo di Piero e poi andando ad approfondire l’analisi della realtà «reale» in cui viviamo, senza più complessi o rimorsi riguardo a categorie interpretative che per quanto più o meno valide siano state nel passato, sono oggi totalmente obsolete a fronte dei mutamenti intervenuti nella struttura del mercato mondiale e dei regimi postdemocratici.



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venerdì 1 settembre 2023

LA NUEVA PRESENCIA RUSA EN CUBA

por Samuel Farber


ESPAÑOL - ENGLISH 


 

A principios de este año, Rusia firmó un acuerdo con el gobierno cubano comprometiéndose a aumentar significativamente su participación en la economía de la mayor de las Antillas, más de treinta años después que colapsó la URSS y por ende de su gran influencia y estrecha asociación que tuvo ésta con Cuba. Sin duda alguna, esto constituye otro esfuerzo de Putin y sus asociados para expandir el poder de la Federación Rusa, una potencia que ha perdido hegemonía en el tablero internacional, en parte por el surgimiento de China como la rival principal de los Estados Unidos. 

Durante las últimas décadas, Rusia ha tratado de expandir su poder e influencia en los países fronterizos como Chechenia, Georgia, Bielorrusia, Kazajistán y Moldavia, y en algunos países más distantes como Siria y Libia. Sus recientes acuerdos con Cuba son quizás el producto de la gran resistencia de Ucrania a la invasión rusa iniciada en el 2022 y de las sanciones impuestas en su contra por los Estados Unidos y otras potencias occidentales que han dañado su economía--aunque no al grado tan extenso que muchos observadores habían anticipado. Estos pueden haber sido un nuevo incentivo y motivación para extender al hemisferio occidental los planes de Putin para incrementar la influencia rusa en el exterior.

Pero la invasión de Ucrania ha resultado sumamente costosa para Rusia, con bajas masivas sufridas por sus tropas con estimados que varían de 40 a 70 mil soldados muertos (The Economist, 18 de julio de 2023). A estas pérdidas de estos soldados, hay que sumar las cuantiosas pérdidas de armamentos incluyendo más de dos mil tanques entre muchos otros tipos de armas y equipos militares. Estas pérdidas han debilitado significativamente la estabilidad del sistema político ruso encabezado por Vladimir Putin, lo cual quedó ampliamente demostrado por el frustrado golpe de estado organizado por Yevgeny Prigozhin, dirigente del ejército mercenario Wagner con su largo historial de combate no solamente en el este de Ucrania sino también en varios países de África. La ausencia de una resistencia militar significativa al golpe organizado por Prigozhin puede considerarse como un síntoma del malestar que reina entre la oficialidad militar rusa causado por los problemas y las fallas que la invasión de Ucrania ha expuesto con respecto a la dirección militar y la falta de preparación y coordinación entre las tropas rusas. Así, por ejemplo, el General Mayor Iván Popov, ex comandante del 58 ejército de las Fuerzas Armadas de Rusia que opera en la región suroriental de Zaporiyia, públicamente criticó los graves errores del mando militar ruso que resultó en un gran número de bajas entre sus tropas.