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giovedì 10 agosto 2023

Ucraina 25: GLI OBIETTIVI DI GUERRA DI PUTIN E LA GRANDE GUERRA PATRIOTTICA 1941-5


di Michele Nobile

 

«E se tutti gli altri accettavano la menzogna che il Partito imponeva - se tutti i documenti ripetevano la stessa narrazione -, allora la menzogna entrava nella storia e diventava verità. “Chi controlla il passato,” recitava lo slogan del Partito, “controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato.” Eppure il passato, benché per sua natura alterabile, non era mai stato alterato. Qualunque cosa fosse vera adesso era vera da sempre e per sempre. Era molto semplice. Era necessaria solo una infinita serie di vittorie sulla memoria. “Controllo della realtà,” lo chiamavano: in parlanuovo, “bipensare”».

George Orwell, 1984.

 

Putin e la retorica nazional-imperiale della Grande guerra patriottica 1941-5

Per giustificare l’aggressione al popolo d’Ucraina, Putin ha delineato un quadro storico e ideale di «scontro di civiltà» che in Russia ha radici profonde. Innanzitutto, ha utilizzato una sorta di presupposto «teologico» d’antica data, che fonda l’identità nazionalista-imperiale russa: l’idea che, come la santa Trinità, la nazionalità russa sarebbe una nella sua natura e trina nelle sue persone che, in questo caso, sarebbero quelle dei grandi-russi, dei piccoli-russi (gli ucraini) e dei russi bianchi (i bielorussi). Tuttavia, nella realtà storica questo ha sempre significato la subordinazione di piccoli-russi e russi bianchi alla signoria grande-russa e l’assimilazione alla cultura russa. Sicché si può dire che, in pratica, essendo il «Padre» grande-russo la superiore verità delle altre «persone» trinitarie, la concezione «cristologica» della nazionalità russa è più vicina all’eresia dell’arianesimo che al credo niceno-costantinopolitano.

La mistica idea «teologica» della nazionalità russa è un presupposto necessario ma tuttavia non sufficiente a legittimare la guerra all’Ucraina. A questo scopo Putin utilizza l’eredità ideologica e psicologica staliniana e post-staliniana circa la Grande guerra patriottica (in russo: Великая отечественная войнаcontro l’invasore durante la Seconda guerra mondiale, tedesco ancor prima che nazista. 

Il richiamo alla Grande guerra patriottica è esplicito negli obiettivi di guerra dichiarati dal Presidente russo nel febbraio 2022. In effetti, il riferimento all’invasione subita nel 1941 costituisce la motivazione dell’aggressione su vasta scala (dopo quella iniziata nel 2014) all’Ucraina nel 2022: si tratta di un attacco preventivo per conseguire gli obiettivi della smilitarizzazione e della «denazificazione» dell’Ucraina, uno Stato in cui «i neonazisti di oggi che hanno preso il potere», gli eredi delle «bande dei nazionalisti ucraini, i complici di Hitler, che uccisero persone indifese durante la Grande Guerra Patriottica», costituiscono un pericolo esistenziale per la Russia. 

Inoltre questi obiettivi bellici, che potremmo definire locali, sono da Putin posti in un contesto più ampio: innanzitutto di polemica contro «i principali Paesi della Nato [che], al fine di raggiungere i propri obiettivi, sostengono in tutto i nazionalisti estremisti e i neonazisti in Ucraina» e hanno voluto l’espansione della Nato in Europa orientale, addirittura colonizzando i «territori a noi adiacenti, nei nostri stessi territori storici», così minacciando «l’esistenza stessa del nostro Stato, la sua sovranità». La polemica si completa con l’affermazione che «i risultati della Seconda guerra mondiale, così come i sacrifici fatti dal nostro popolo sull’altare della vittoria sul nazismo, sono sacri»1. In questi passaggi Putin implicitamente rievoca anche l’accusa sovietica a Francia e Regno Unito di non aver voluto allearsi con l’Unione Sovietica nel 1939 e di aver invece inteso spingere Hitler ad attaccare l’URSS, argomento portato come giustificazione del Patto di non-aggressione fra Hitler-Stalin dell’agosto 1939, in effetti il detonatore dell’esplosione della Seconda guerra mondiale. 


Al tempo dell’Unione Sovietica, la celebrazione della vittoria sull’invasore tedesco saldava la legittimazione interna del potere del Partito unico alla fondazione del dominio sovietico nell’Europa centrale ed orientale e, quindi, allo status di grande potenza mondiale dell’Unione Sovietica, consacrato dal seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Mentre la rivoluzione del 1917 arretrava gloriosamente nel passato remoto, nel dopoguerra crebbe progressivamente l’importanza della mitografia e della ritualità commemorativa della Grande guerra patriottica, con apogeo nei decenni tra il 1964 e il 1982, quando al potere era Leonid Brežnjev2. Specialmente quando declinata come lotta per l’esistenza nazionale e guerra in difesa della civiltà contro la barbarie, del socialismo sovietico come forma più alta di umanismo, era fondamento attuale ed efficace, in quanto più ampiamente vissuto e condivisibile, della legittimità interna ed internazionale del potere della burocrazia sovietica e dei partiti comunisti dei Paesi satelliti.  

La mitografia della Grande guerra patriottica era per l’imperialismo sovietico l’equivalente funzionale di quel che negli Stati Uniti del XIX secolo si diceva il «Destino manifesto» - la missione civilizzatrice dell’espansione continentale - e di quel che divenne la dottrina Monroe (il cui significato originario era tutt’altro3): la pretesa di una legittima sfera d’influenza nel Mediterraneo americano, tra il bacino caraibico e l’America centrale, considerato come il «cortile di casa» degli Stati Uniti. L’Ucraina è la parte più importante del «cortile di casa» dell’imperialismo russo. 

Tuttavia, esiste una basilare differenza politico-ideologica tra l’imperialismo sovietico e il nuovo imperialismo russo, coerente con le differenti matrici sociali, in un caso basate sull’integrale statalizzazione dell’economia, nell’altro sul capitalismo oligarchico. La dottrina Brežnjev della sovranità limitata dei Paesi dell’Europa centrale-orientale (in realtà già operante prima di Brežnjev) presupponeva i risultati geopolitici della Seconda guerra mondiale ma fondava la pretesa d’intervento armato sovietico nei membri Paesi del Patto di Varsavia e del Comecon sulla difesa della «democrazia popolare» dalle (presunte) forze della controrivoluzione (per l’invasione dell’Ungheria nel 1956), o sul contrasto delle deviazioni dalle (presunte) «leggi generali dello sviluppo socialista» - cioè dalla riforma del sistema, sgradita a Mosca – che, così sostenevano, avrebbero portato a restaurare il capitalismo (per l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968)4.        

Dopo il crollo dello pseudosocialismo sovietico e della sua religione di Stato marxista-leninista, per giustificare l’interventismo negli affari interni dei nuovi Stati ex-sovietici la nuova Russia del capitalismo oligarchico non può più ricorrere ad argomenti che, in qualche modo, possano dirsi universalisti e orientati verso il futuro, come le suddette deviazioni dalle «leggi generali dello sviluppo socialista». Al contrario, le risorse da valorizzare sono quelle etnico-culturali evocative della passata grandezza statale, militare e geopolitica degli imperi russo e sovietico: del cosiddetto «mondo russo», coincidente con le aree della colonizzazione russa e della russofonia, a suo tempo imposta ai popoli colonizzati; della pretesa speciale missione geopolitica della civiltà della Russia, a cavallo tra Europa ed Asia; della mistica «trinitaria» della nazionalità russa, che nega l’indipendenza delle nazionalità bielorussa e ucraina. 

Emozioni, miti e riti della Grande guerra patriottica sono ancora oggi l’ancoramento più forte per definire un senso generale dell’esistenza individuale e di un’identità russa, tuttavia nella sua versione più nazionalista ed etnico-culturale, svuotata di contenuto sociale e universale, che nella tradizione sovietica era la dimostrazione della superiorità del socialismo e del leninismo, respinto da Putin come causa delle tendenze nazionaliste che portarono alla disgregazione dell’Unione Sovietica. Combinando la legittimazione dei «sacri risultati» geopolitici della Grande guerra patriottica mediante il sangue versato nella guerra contro l’invasore (nazista ma anche germanico e «occidentale») con la mistica «trinitaria» della nazionalità, il risultato è un pasticcio ideologico tra simbologia militarista sovietica e qualcosa che ricorda il motto nazista Blut und Boden. E, benché durante la Seconda guerra mondiale gli ucraini abbiano versato più sangue (das Blut) dei russi, è un pasticcio che si presta alla giustificazione della riconquista delle presunte «terre ancestrali» (der Boden) della Russiae che può riscuotere consenso tanto tra i nostalgici dello zarismo e tra i fascistoidi quanto tra gli antiamericanisti nostalgici dell’Unione Sovietica di Stalin e Brežnjev. 

Fanatici e imbecilli a parte, il fatto veramente importante è che la Grande guerra patriottica e i suoi «sacri risultati» sono ora il fondamento ideologico del tentativo di ricostruire una identità nazionale russa di tipo imperiale, di un «centrismo conservatore»5 di massa che si è fatto progressivamente più ambizioso e aggressivo, ideologicamente reazionario e politicamente repressivo, il campo ideologico in cui si fondono politica interna e internazionale, legittimazione interna del potere dell’odierna oligarchia statale ed economica russa e interessi espansionistici dell’imperialismo russo.      

Il modo in cui Putin ha formulato i suoi obiettivi di guerra non è mera retorica. Va preso molto sul serio perché ha conseguenze molto concrete per la condotta della guerra, per definire le condizioni della pace dal punto di vista russo, per la politica interna della Federazione Russa.  

 

 

Gli obiettivi di guerra di Putin e la Grande guerra patriottica 1941-5, ovvero dell’impossibile pace 

In primo luogo, poiché col male assoluto del nazismo non si può venire a patti e la stessa esistenza di un’Ucraina indipendente è una creazione artificiale di Lenin (così dice Putin), la smilitarizzazione e la (presunta) «denazificazione» dell’Ucraina sono obiettivi non-negoziabili. Conseguirli implica la guerra totale fino all’annientamento del nemico, l’imposizione di un governo-fantoccio, l’organica inclusione dell’Ucraina nella sfera russa, la totale sottomissione del popolo ucraino, da sottoporre a un programma totalitario di «purgazione» politica e di «rieducazione» ideologica. Quel che Putin non può dire apertamente viene invece detto in modo chiaro e consequenziale dai suoi interpreti nei mezzi di comunicazione di massa russi6

È per questo motivo che dal punto di vista del vertice russo la guerra non può terminare semplicemente con un negoziato che, infine, stabilisca la neutralità dell’Ucraina. Non è questo che vuole Putin. Non può terminare neanche con il riconoscimento delle annessioni, cioè della mutilazione territoriale dell’Ucraina, attuate da Putin con la scusa di proteggere il Donbas dal presunto genocidio dei russofoni da parte dei «nazisti» ucraini. Le annessioni sono per Putin un mezzo, non il fine della guerra, che è cancellare l’indipendenza dell’Ucraina. Deve essere assolutamente chiaro che con l’annessione alla Russia dei territori ucraini occupati Putin si è deliberatamente privato della possibilità di una soluzione pacifica del conflitto. Come Hernán Cortés quando mosse alla conquista del Messico, Putin ha bruciato le sue navi. Ora non può più utilizzare quei territori occupati come «mezzi di scambio» senza perdere la faccia, con possibili gravi conseguenze all’interno della Russia; né gli ucraini possono negoziare sulla base del previo riconoscimento delle annessioni. Questa è anche la ragione per cui annettere un territorio prima di un trattato di pace è prassi illegale ai sensi del diritto internazionale. Quindi, al di là della propaganda russa e russofila circa la disponibilità a negoziare, la decisione di annettere i territori occupati corrisponde a una dichiarazione d’indisponibilità di Putin a una mediazione reale. 

Per lo stesso motivo, Putin non può neanche accettare una seria garanzia internazionale dell’indipendenza di un’Ucraina neutrale - dal 2014 ha già stracciato il Memorandum di Budapest del 1994 - perché a questo punto, che l’Ucraina sia fuori o dentro la Nato, in pratica una garanzia internazionale non potrebbe che essere rivolta contro l’espansionismo russo7.

La propaganda putinista e fintopacifista si sforza di sminuire le capacità militari dell’Ucraina, sorvolando sui fatti fondamentali: sul fallimento di quella che, nelle aspettative dei vertici russi, doveva essere una guerra lampo, fallimento che può ricondursi in parte a errori operativi russi ma ancor più all’accanita volontà di indipendenza del popolo ucraino, nonostante la netta e persistente inferiorità di mezzi militari; e sul fatto che gli ucraini sono riusciti a mantenere l’iniziativa, erodendo la forza militare d’invasione e riconquistando ampie parti del territorio nazionale occupato dai russi. Lo scopo di questa campagna propagandistica è fermare gli aiuti militari all’Ucraina con gli argomenti che non è possibile sconfiggere la Russia (contro l’evidenza sul campo e l’esperienza internazionale) e che quindi non avrebbero altro risultato che di prolungare la guerra. Questo fintopacifismo intende la pace come resa dell’Ucraina e serve allo scopo di Putin: i fatti dimostrano che Putin non ha rinunciato all’obiettivo massimo della sottomissione dell’Ucraina. Lo ha solo spostato nel tempo, preparandosi a una guerra prolungata. Fallita l’operazione iniziale, l’obiettivo intermedio della dirigenza russa è ora la distruzione delle condizioni materiali della resistenza e dell’indipendenza ucraina, prolungando la guerra e devastandone il territorio e le infrastrutture civili e terrorizzando la popolazione con i bombardamenti sulle città: l’annessione dei territori occupati dei quattro oblast di Cherson, Donets’k, Luhans’k, Zaporižžja, oltre che della Crimea, significa già privare l’Ucraina di gran parte della sua industria, di miniere, di terre agricole e di porti per il commercio estero. La distruzione della diga di Kachovka è il maggior disastro ambientale nel continente europeo dopo quello dell’impianto nucleare di Čornobyl: l’auto-sabotaggio da parte dei russi è dovuto all’esigenza d’ostacolare un’offensiva ucraina ma è pure coerente con la strategia di distruzione del Paese. Lo stesso può dirsi per il sabotaggio russo dell’11 giugno 2023 della diga sul fiume Mokri Yaly a sud di Staromalynivka, lungo la linea della controffensiva ucraina nel Donets’k occidentale, al bordo con l’oblast di Zaporižžja. 

In secondo luogo, poiché il vero significato della «denazificazione» è la negazione dell’identità nazionale e dell’indipendenza politica del popolo ucraino, a lungo dominato e colonizzato dalla Russia, questo obiettivo afferma simultaneamente un’identità statale fondata sul nazionalismo imperiale grande-russo, necessariamente autoritario e reazionario. Conseguentemente, sul piano interno la guerra totale all’Ucraina comporta l’assimilazione degli avversari di Putin e della sua guerra ad agenti al soldo del nemico «nazista»: con la repressione delle manifestazioni contro la guerra, il regime di Putin è, oramai, una dittatura con connotati ideologici e pratici di estrema destra. In questo contesto le correnti tollerate dal regime sono ultra-nazionaliste e brutalmente guerrafondaie, con caratteristiche fascistoidi. Non è un caso che la figura emergente fosse Evgenij Viktorovič Prigožin, ex criminale comune negli anni Ottanta del secolo scorso (per rapina e frode), oligarca, capo di una grande compagnia militare privata (il Gruppo Wagner), legato all’estrema destra russa,che si è creato un proprio spazio politico con i duri attacchi demagogici al ministro della difesa, al sindaco di Pietroburgo e a parte dell’oligarchia intorno a Putin - ma non al Presidente russo - accusati d’incompetenza e d’incoerenza nel sostenere lo sforzo bellico della Russia. In quanto autoproclamato portavoce della brutalità selvaggia e fautore dell’integrale subordinazione della società russa alla vittoria in guerra, Prigožin incarna una linea d’ulteriore involuzione del regime putiniano o una delle alternative nel caso di crisi dello stesso8

In terzo luogo, il richiamo a quelli che Putin definisce i sacri «risultati della Seconda guerra mondiale» segna apertamente la rinascita dell’imperialismo russo. Benché durante la catastrofe socioeconomica degli anni Novanta i dirigenti della Federazione Russa non ne avessero i mezzi e neanche esistevano le condizioni politiche interne, almeno dalla seconda metà del decennio essi aspiravano a riaffermare lo status della Russia quale potenza mondiale e a ricostituire in forma nuova una sfera d’influenza russa, inizialmente nella forma debole della Comunità degli Stati indipendenti. All’inizio del nuovo secolo, grazie al boom dei prezzi del petrolio e del gas, Putin ha creato le condizioni politiche interne e la forza militare per tentare di concretizzare quelle aspirazioni. Tuttavia, l’imperialismo russo non ha neanche lontanamente la forza d’attrazione economica degli imperialismi statunitense, tedesco o cinese: è da questa relativa debolezza economica dell’imperialismo russo che consegue la sua aggressività politica e militare. A differenza dell’imperialismo detto occidentale, quello russo deve valersi essenzialmente di mezzi non-economici: è questo che, in definitiva, spiega il fatto che abbia deliberatamente scatenato la più grande guerra europea dalla Seconda guerra mondiale. 

C’è qualcosa di avventuristico, velleitario e contraddittorio in questo, che ricorda l’avventura hitleriana. La partecipazione dell’Ucraina alla Comunità degli Stati indipendenti fu sempre molto limitata e in pratica si ritirò dall’organismo dopo l’aggressione russa del 2014 (formalmente nel 2018), preceduta dalla Georgia, aggredita dalla Russia nel 2008; la Moldavia è sul punto di ritirarsi, a causa dell’appoggio russo ai secessionisti della Transnistria, mentre la politica a favore dei «compatrioti all’estero» nel «mondo russo» suscita diffidenza e reazioni negative nei Paesi dell’Asia centrale. Nessuno degli Stati della Csi e dell’Unione eurasiatica ha votato contro le risoluzioni dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite di condanna dell’invasione russa e di richiesta di immediato e incondizionato ritiro delle truppe d’invasione: tutti si sono astenuti o non hanno partecipato alle votazioni, in sostanza dissociandosi dall’aggressione di Putin. 

Infine, si ricordi che secondo Putin l’Ucraina indipendente e integrata nel cosiddetto occidente costituisce una minaccia esistenziale per la Russia. Il rovescio di questa tesi è che la guerra contro l’Ucraina è indispensabile per rafforzare il regime interno alla Russia. In questo quadro, il richiamo ai miti e ai riti della Grande guerra patriottica occupano una posizione ancora più forte che nel passato recente, sia come giustificazione dell’aggressione all’Ucraina sia come ultima legittimazione del regime di Putin, baluardo contro la pretesa minaccia esistenziale alla Russia e al suo «spirito». 

 

La narrazione della Grande guerra patriottica come ideologia 

Il postulato fondante, necessario e assolutamente indiscutibile della narrazione legittimante della Grande guerra patriottica è che l’Unione Sovietica avesse le mani pulite nei confronti del nazismo, verità che nella narrazione è santificata dal mare di sangue versato nella guerra di liberazione dall’invasore. Tuttavia, il postulato è falso, e da questo conseguono altre falsità e deformazioni. Nei confronti di Hitler l’autocrate sovietico Stalin si insozzò non solo le mani ma anche le braccia e oltre. Se la politica anglo-francese di appeasement era stata un cedimento nei confronti di Hitler, nell’illusoria speranza d’evitare una nuova orrenda grande guerra continentale, la politica sovietica tra l’agosto 1939 e il giugno 1941 fu di attiva collaborazione, con tanto di congratulazioni, con le aggressioni e le conquiste del Terzo Reich. Politica che, infine, si ritorse in modo catastrofico contro i popoli dell’Unione Sovietica. 

Si noti il fatto macroscopico che, mentre per il resto del mondo la Seconda guerra mondiale inizia il primo settembre 1939, in Unione Sovietica e ancora nella Federazione Russa la Grande guerra patriottica copre il periodo tra il 22 giugno 1941 e l’otto maggio 1945. Eppure, quella guerra fu un fatto veramente mondiale e prodotto della sinergia e combinazione di più conflitti: proprio per questo motivo, è ragionevole l’argomento che ne retrodata lo scoppio alla guerra sino-giapponese nel 1937, quando non dall’occupazione giapponese della Manciuria nel 1932. Nella guerra sino-giapponese fu coinvolta direttamente anche l’Unione Sovietica: i numerosi «incidenti» fra truppe sovietiche e giapponesi sfociarono in una guerra aperta su piccola scala nel 1938-9, culminante nella battaglia Khalkhin Gol (maggio-settembre 1939) vinta dai sovietici sotto il comando di Žukov, il futuro maresciallo dell’Unione Sovietica. E se si vuol essere pignoli, si deve dire che la Seconda guerra mondiale terminò per l’Unione Sovietica il 15 agosto 1945, giorno del discorso in cui l’imperatore Hirohito annunciò la resa del Giappone o, meglio, il due settembre 1945, giorno in cui essa venne formalizzata e sottoscritta anche dal generale sovietico Kuz’ma Derevianko, bordo della Uss Missouri

Dunque, già nella definizione dei suoi termini temporali la narrazione della Grande guerra patriottica definisce una prospettiva fortemente ideologica e sovietico-centrica, quando non proprio russo-centrica. Il motivo è tanto semplice quanto fondamentale: l’Unione Sovietica deve apparire come Stato «amante della pace» e che combatte solo per difendersi. Tutte le aggressioni di Stalin tra il settembre 1939 e il 1941 sono trasfigurate in mosse difensive o pacifici accordi d’incorporazione nell’Unione Sovietica. 

Viceversa, mettere correttamente a fuoco le relazioni fra Terzo Reich e Unione Sovietica fra l’estate del 1939 e il giugno del 1941 fa crollare il dogma su cui poggia la costruzione della narrazione: che Stalin avesse le «mani pulite» nei confronti di Hitler. In effetti, l’Unione Sovietica entrò nel conflitto continentale il 17 settembre 1939 quando, su sollecitazione di Berlino e in linea con quanto concordato poche settimane prima nel Protocollo segreto allegato al cosiddetto Patto di non-aggressione con il Terzo Reich, l’Armata Rossa varcò la frontiera con la Polonia, tagliando la ritirata dell’esercito polacco e occupando l’Ucraina e la Bielorussia occidentali, allora parti dello Stato polacco. Le operazioni militari sovietiche durante la seconda guerra mondiale continuarono con l’aggressione alla Finlandia (30 novembre 1939-13 marzo 1940), guerra vinta ma a carissimo prezzo (quasi 130 mila soldati sovietici uccisi e circa 250 mila feriti o inutilizzabili per congelamento o malattia), e con l’occupazione dei tre Paesi baltici. Parte della Polonia, Finlandia e Paesi baltici rientravano nella sfera d’influenza sovietica concordata con la Germania nazista. Questo, insieme alla comune «proposta di pace» dell’Unione Sovietica e del Terzo Reich a Francia e Regno Unito e ai rifornimenti sovietici all’industria bellica tedesca, fecero di Stalin un alleato di fatto di Hitler, fino al giugno 1941. 

Lo scoglio su cui naufraga la narrazione della Grande guerra patriottica è dunque il Patto di non-aggressione fra Terzo Reich e Unione Sovietica e l’allegato Protocollo segreto firmati il 23 agosto 1939 da Vjačeslav Molotov e Joachim von Ribbentrop, alla presenza del sorridente Stalin. Il Protocollo segreto definiva le sfere d’influenza del Terzo Reich e dell’Unione Sovietica ed era la sostanza politica del Patto, in realtà un accordo aggressivo nei confronti dei popoli vicini - polacco, lituano, lettone, estone, finlandese - e il detonatore della Seconda guerra mondiale. Questa è la ragione per cui l’esistenza del Protocollo segreto dell’agosto 1939 («segreto di Pulcinella» nel resto del mondo) fu negata fin quasi alla fine dell’Urss. 

Di tutti i crimini di Stalin e soci contro l’umanità, i popoli e il socialismo questo è quello dalle più grandi conseguenze per la storia del mondo e, direi, quello più vivo, nel senso che vive come tragedia nella memoria dei popoli che ne furono immediate vittime. L’atteggiamento nei confronti dell’accordo hitlero-staliniano costituisce un sicuro indice della posizione nei confronti del totalitarismo sovietico. Del Patto e del Protocollo e di alcuni significativi (non di tutti) buchi neri o vuoti di memoria della narrazione della Grande guerra patriottica dirò, ancora una volta, in altro articolo9. Ora mi concentro sul significato e sui caratteri generali di questa mitografia patriottica. 

Qui non è in discussione il fatto che la guerra nell’Europa centrale ed orientale abbia avuto una qualità diversa dalla guerra sul fronte occidentale e che i popoli sovietici abbiano pagato un enorme prezzo umano (tra gli oltre sette milioni e mezzo di vittime civili i russi furono poco meno di due milioni, gli ucraini più di tre milioni) e, in percentuale sulla popolazione, i polacchi molto più dei sovietici, i lituani quanto i sovietici e poco meno estoni e lettoni. La guerra nazista sul fronte orientale, che comprendeva ma anche oltrepassava il teatro bellico russo e sovietico, non era solo volta a sottomettere popoli e Stati al Terzo Reich. Fu guerra coloniale nel senso più forte e feroce, per cui la conquista territoriale era un mezzo per conseguire lo specifico obiettivo di ristrutturare la composizione demografica dei territori occupati, così da ampliare lo «spazio vitale» oggetto di colonizzazione da parte della «razza eletta». Quella fu una guerra intrinsecamente e programmaticamente genocida, durante la quale venne messo in atto il progetto di sterminio del popolo ebraico e di generale ridimensionamento demografico e di riduzione a condizione servile della restante popolazione autoctona di diverse nazionalità. La stima finale delle perdite umane dell’Unione Sovietica è l’enorme cifra di 27 milioni, con 1.700 città e oltre 70.000 villaggi distrutti o comunque gravemente devastati. 

Prima ancora che per lo Stato sovietico, la ferocia dell’aggressione nazista fece della resistenza all’invasione letteralmente questione di vita o di morte, innanzitutto per le decine di milioni di persone dei territori occupati; nel maelstrom del conflitto furono coinvolti anche i milioni delle più remote terre asiatiche dell’Unione Sovietica, in veste di soldati, operai, agricoltori. E nel complesso, in combattimento, in prigionia o per altre ragioni, i soldati che perirono sul fronte orientale furono circa 14 milioni, di cui nove milioni sovietici, quattro milioni tedeschi, circa un altro milione tra gli alleati del Terzo Reich. 

L’efficacia della narrazione della Grande guerra patriottica dipendeva dal fatto che essa poggiava su qualcosa di reale: sulla memoria delle atroci sofferenze dei popoli sovietici durante la guerra di conquista coloniale nazista, della resistenza all’annientamento e sulla vittoria finale sul Terzo Reich, e conferiva un senso al vissuto che segnava profondamente i sentimenti 

dei cittadini sovietici.

Tuttavia e nello stesso tempo, la narrazione ufficiale della Grande guerra patriottica disumanizza quella terribile esperienza e la sua memoria, piegandola al fine della celebrazione dello Stato e della legittimazione del potere politico, ieri sovietico, oggi putiniano, costituendo il nucleo ideologico intorno al quale possono ricostruirsi uno Stato centralizzato e autoritario e l’identità nazional-imperiale della Russia come grande potenza dotata di una sfera d’influenza, il «mondo russo». È un paradosso che la guerra di liberazione dal nazismo sia usata per giustificare il dominio imperiale, ma è un fatto reale, come altri paradossi «occidentali». 

Smontare la narrazione ideologica di Stato non significa sminuire il costo umano della guerra e il valore dei combattenti. Al contrario, è il modo in cui si può restituire la verità della dimensione umana della guerra in tutta la sua complessità, fatta di luci e di ombre, d’eroismo ma anche d’orrori, di liberazione e d’oppressione. Si tratta di ragionare sulle ragioni della catastrofe del 1941 e sulle ragioni che consentirono ai sovietici di resistere e di passare alla controffensiva. Una questione cruciale è per questo quella della soggettività: dell’atteggiamento dei cittadini sovietici di fronte all’invasione nazista e nei territori occupati, delle motivazioni e delle aspettative per cui combattevano i soldati dell’Armata rossa. 

Il modello narrativo della Grande guerra patriottica è quello religioso del martirio e del trionfo della fede: è la guerra santa, ideologicamente perfetta, nella quale l’Unione Sovietica appare come Stato «amante della pace» ma colpito a tradimento e di sorpresa nel modo più crudele da un perfido nemico, come una lotta tra il Male e il Bene in cui il Bene, vittoriosamente superando i tormenti del supplizio, rivela al mondo la verità e la forza della vera fede. Mark von Hagen ha scritto che 

 

«L’obiettivo generale di questa storiografia, ristretta e costretta com’era dalla censura e dall’autocensura del Partito e dei militari, era di elaborare le “fonti della vittoria” e quindi, di aiutare a legittimare vari aspetti del regime stalinista e, in seguito, post-stalinista»10

 

A causa del controllo statale per decenni esercitato sulla ricerca storiografica e sull’insegnamento storico in Unione Sovietica e ora in Russia, e della riduzione al silenzio o all’autocritica delle voci occasionalmente scomode, il messaggio trasmesso dalla Grande guerra patriottica comporta la sublimazione dei soggetti della guerra, la rimozione dei suoi numerosi aspetti in contrasto con la narrazione santificante, la deformazione sovietico-centrica dello svolgimento delle operazioni militari, la denigrazione del contributo degli alleati occidentali e, ultimo ma non meno importante, la censura sulla responsabilità diretta della stessa direzione sovietica sull’enorme costo umano del conflitto. 

Questa è la cornice entro la quale necessariamente s’inscrivono gravissime omissioni e deformazioni - anche di fatti che nel resto del mondo erano e sono certe acquisizioni storiografiche - ma che, nella narrazione ufficiale sovietica erano tabù e che, anche nella nuova Russia capitalista e putiniana, sono ancora essere soggetti a criminalizzazione per «distribuzione di informazioni che esprimono evidente mancanza di rispetto nei confronti della società per quanto riguarda i giorni della gloria militare e delle date memorabili della Russia associate alla difesa della Patria» (art. 354.1 del Codice penale)11. Questa e altre norme contro l’«estremismo» in pratica mettono sullo stesso piano la critica della mitografia della Grande guerra patriottica o dell’aggressione all’Ucraina e l’approvazione dei crimini nazisti. Il risultato è la perversione dell’antifascismo. 

Tutti i Paesi hanno i loro miti storiografici e bellici, compresi orrori con i quali hanno ancora difficoltà a fare i conti fino in fondo: Hiroshima e Nagasaki, per dirne uno. Tuttavia, negli Stati liberali prima o poi questi miti sono stati e sono discussi, denunciati gli orrori e i «lati oscuri»: bene o male, la storiografia rimane un campo di confronto e di scontro. Completamente diversa la situazione in Unione Sovietica e in Russia, con la parziale eccezione degli ultimi anni di Gorbačëv (grazie alla glasnost ma, sul punto specifico, nonostante la resistenza di Gorbačëv) e parte degli anni Novanta.Per la legittimazione del potere la narrazione sovietica e russa della Grande guerra patriottica aveva ed ha un tale valore fondante che è unica nel suo genere per la pretesa di verità indiscutibile, corazzata da molti decenni di censure, negazioni, propaganda e ritualità di Stato, repressione poliziesca e criminalizzazione di chi ne illumina i lati «oscuri». 

Riflettere criticamente sulla Grande guerra patriottica comportava la crisi radicale dei presupposti del dominio del partito-stato sovietico e ora dell’aggressione russa all’Ucraina: possibilità che doveva e deve essere esclusa a priori. 

Niente è vero e tutto è possibile: è un’iperbole che descrive la degenerazione dell’atmosfera mentale del postmodernismo nel regime discorsivo della post-verità, intesa come una condizione in cui falsità che altrimenti risulterebbero chiaramente tali sono credute su ampia scala. Un importante esempio è la negazione della pandemia di Covid-19 o la sottovalutazione della pericolosità della malattia. L’iperbole è anche un’approssimazione allo spazio ideale del regime di Putin, l’impero del complottismo e della paranoia, simultaneamente vittimista e sadica12. Dal punto di vista ideologico il regime di Putin è uno straordinario pasticcio, concepibile solo in epoca postmoderna. Esso è un impasto di capitalismo oligarchico, aspirazioni imperiali zariste e selettiva memoria del passato sovietico. Questa unicità è la ragione della obiettiva difficoltà di caratterizzare il regime russo utilizzando le categorie politiche consolidate e, viceversa, del proliferare di neologismi: «autoritarismo competitivo», «imitazione della democrazia», «democrazia sovrana», «militocrazia», «neopatrimonialismo», con sfumature oscillanti tra neo-zarismo, neo-stalinismo, neo-fascismo. Si insiste sul carattere ibrido del regime, sulla particolare combinazione di potere economico e politico, con curiose variazioni eclettiche come questa, per cui il regime di Putin è una «formazione politica del tutto nuova. È una formazione politica con molti strati, che combina elementi del bonapartismo, del “classico” fascismo tra le due guerre (specialmente della variante mussoliniana» e il moderno populismo berlusconiano»13. Ma specialmente dall’aggressione all’Ucraina del 2014 i confronti col fascismo e con il nazismo (questo per il «revisionismo» geopolitico) sono aumentati. Mi pare invece sottovalutata o non bene inquadrata l’eredità dello statalismo e dei metodi sovietici. 

Nel breve periodo il pasticcio è però uno dei punti di forza interni del regime di Putin: l’eclettismo ne rafforza l’immagine come incarnazione di qualcosa che appare intrinseco alla «natura» della Russia: lo statalismo autoritario (pur con politica economica e sociale che per molti aspetti rientra in quella generica categoria detta neoliberismo). A livello internazionale il pasticcio ideologico di Putin è quanto gli permette di riscuotere simpatia tanto nella destra «sovranista» e nell’estrema destra fascistoide quanto nella sinistra antiamericanista, che confonde l’antimperialismo con l’antiamericanismo - sentimento che condivide con i nostalgici di Hitler e gli avversari del Grande Satana - e che nel corpo dell’imperialismo capitalista russo s’illude di venerare il fantasma totalitario dell’Unione Sovietica. 

Leila Al-Shami ha utilizzato l’espressione «antimperialismo degli imbecilli» per designare la sinistra che si colloca dietro gli Stati e le dittature, «percepiti come i principali attori delle lotte di liberazione», non appena si oppongono agli Stati Uniti. «Ciechi di fronte alla guerra sociale che si sta svolgendo all’interno della stessa Siria, questo tipo di visione considera il popolo siriano, quando è preso in considerazione, come una pedina trascurabile in una partita a scacchi geopolitica». Questa sinistra è così «cieca davanti a qualsiasi forma d’imperialismo che non sia di origine occidentale»14

Con l’aggressione su vasta scala all’Ucraina l’«antimperialismo degli imbecilli» ha assunto una dimensione senza precedenti. È la dimostrazione che tanta parte della cd. sinistra non ha fatto veramente i conti con l’Unione Sovietica. 

In tutto questo, il mito della Grande guerra patriottica e la perversa retorica pseudo-antifascista di Putin hanno un ruolo importante. Il punto è smascherare una narrazione ideologica che è stata ed ancora è la principale arma politica per legittimare dominio imperiale ed aggressioni, prima dell’Unione Sovietica, ora della Federazione Russa. 

 

 

Note

1) Citazioni da Address by the President of the Russian Federation, 24 febbraio 2022, testo sul sito del Presidente della Russia, http://en.kremlin.ru/events/president/news/67843

2) Sulla storia della storiografia sovietica della Grande guerra patriottica e sul suo uso politico: Matthew Gallagher, The Soviet history of World war II. Myths, memories and realities, Praeger, New York 1963; Robert Davies, Soviet History in the Gorbachev revolution, Indiana University Press, Bloomington e Indianapolis 1989, cp. VIII; Nina Tumarkin, The living and the dead. The rise and fall of the cult of Second World War in Russia, Perseus Books, New York 1994; Mark von Hagen, «From “Great fatherland war” to the Second World War: new perspectives and future prospects», in Moshe Lewin-Ian Kershaw, Stalinism and nazism. Dictatorship in comparisonCambridge University Press, Cambridge, 1997; trad. ital. Stalinismo e nazismo. Dittature a confronto, a cura di Ian Kershaw e Moshe Lewin, Editori riuniti, Roma 2002; Catherine Merridale, «War, death, and remembrance in Soviet Russia», in J. Winter-E. Sivan, a cura di, War and Remembrance in the twentieth century, Cambridge University Press, Cambridge 1999; Thomas Sherlock, Historical narratives in the Soviet Union and Post-Soviet Russia. Destroying the settled past, creating an uncertain future, Palgrave McMillan, New York 2007; Karel C. Berkhoff, Motherland in danger. Soviet propaganda during World War II, Harvard University Press, 2012; Jonathan Brunstedt, The Soviet myth of World war II. Patriotic memory and the Russian question in the USSR, Cambridge University Press, Cambridge 2021. 

3) Il messaggio del due dicembre 1823 del presidente Monroe al Congresso degli Stati Uniti contrapponeva il «sistema americano» ai regimi corrotti, dispotici e guerrafondai delle monarchie europee. Esso riconosceva l’indipendenza delle nuove Repubbliche dell’America centrale e meridionale dal colonialismo spagnolo, esprimeva opposizione a qualsiasi tentativo di ricolonizzare le Americhe (ma anche la non-interferenza statunitense nei possedimenti coloniali ancora esistenti) e affermava che qualsiasi tentativo d’interferenza dei governi europei nei nuovi Stati indipendenti sarebbe stato considerato anche come «manifestazione di una disposizione ostile nei confronti degli Stati Uniti». Si iniziò a parlare di «dottrina Monroe» al tempo del presidente Polk e del «Destino manifesto» - metà XIX secolo - ma il significato del messaggio di Monroe cambiò radicalmente solo quando vi venne aggiunto il «corollario Roosevelt» nei messaggi presidenziali del 1904-5: con la scusa di prevenire interventi europei, Teddy Roosevelt rivendicò il diritto d’intervento degli Stati Uniti qualora i Paesi caraibici e centroamericani non fossero stati in grado di onorare il loro debito estero. La «dottrina Monroe» dovrebbe più esattamente dirsi la «dottrina di Teddy Roosevelt»: il punto è importante per definire la differenza tra i motivi dell’espansionismo terrestre degli Stati Uniti nei primi decenni post-rivoluzionari e quelli dell’imperialismo nel senso contemporaneo, di grande potenza mondiale. 

4) Sulla dottrina Brežnjev: Robert A. Jones, The Soviet concept of limited sovereignty from Lenin to Gorbachev. The Brezhnev Doctrine, Palgrave Macmillan, 1990. 

5) Sulle correnti del nazionalismo russo e il misticismo della geopolitica eurasiatista si vedano i lavori di Marlène Laruelle, in particolare In the name of the nation. Nationalism and politics in contemporary RussiaPalgrave Macmillan, New York 2009.

6) Un esempio ben noto è il piano organico proposto da Timofej Sergejtsev il 3 aprile 2022 nell’articolo «Cosa deve fare la Russia con l’Ucraina», pubblicato dall’agenzia RIA Novosti, portavoce del Cremlino. Sergejtsev è «tecnologo politico» e giornalista, tra altri ha servito Leonid Kuchma e Viktor Juščenko durante le campagne presidenziali in Ucraina, rispettivamente nel 1999 e nel 2004. Quel che è peculiare di Sergeitsev è la sua tesi di partenza e l’identificazione «ontologica» tra sovranità ucraina e nazismo. Egli afferma che nel caso dell’Ucraina «non funzioni l’ipotesi “il popolo è buono, il potere è cattivo”» («не работает гипотеза “народ хороший - власть плохая”»). Da questo la conseguenza che occorra «denazificare» gli ucraini, imponendo loro un regime d’occupazione e di «controllo assoluto sul processo di denazificazione» («его безусловный контроль над процессом денацификации») da parte del vincitore, almeno per la durata di una generazione («Сроки денацификации никак не могут быть менее одного поколения»). L’autore si spinge a negare che l’entità politica «denazificata» possa mantenere perfino il nome Ucraina e che «la denazificazione sarà inevitabilmente una deucrainizzazione» («Денацификация неизбежно будет являться и деукраинизацией»). Questo perché, «come la storia ha dimostrato, l’Ucraina, è impossibile come Stato nazionale e i tentativi di “costruirne” uno conducono naturalmente al nazismo» («Украина, как показала история, невозможна в качестве национального государства, а попытки "построить" таковое закономерно приводят к нацизму»). Ho riportato alcune frasi in russo perché, leggendo il testo in inglese, non riuscivo a credere che una cosa del genere, così esplicitamente totalitaria, imperiale e genocida, fosse stata pubblicata su RIA Novosti. Testo russo: «Что Россия должна сделать с Украиной», https://ria.ru/20220403/ukraina-1781469605.html, testo in inglese: https://medium.com/@jkmuf1861/a-russian-plan-for-the-genocide-of-the-ukrainian-people-8c866bed9c63

7) Il Memorandum di Budapest venne firmato il 5 dicembre 1994 da Ucraina, Federazione Russa, Stati Uniti e Regno Unito, poi anche dalla Repubblica Popolare Cinese e dalla Francia, confermato il 4 dicembre 2009 da una dichiarazione congiunta di Stati Uniti e Federazione Russa. In cambio della cessione alla Federazione Russa del terzo arsenale nucleare mondiale allora in possesso dell’Ucraina, la Federazione Russa s’impegnò «a rispettare l’indipendenza e la sovranità dell’Ucraina e gli attuali confini dell’Ucraina», «ad astenersi dalla minaccia o dall’uso della forza contro l’integrità territoriale e l’indipendenza politica dell’Ucraina», «ad astenersi dall’esercitare la coercizione economica». 

8) Questo articolo è stato scritto molto prima dell’ammutinamento del Gruppo Wagner. Su questo: «Il significato dell’ammutinamento del Gruppo Wagner», http://utopiarossa.blogspot.com/2023/06/il-significato-dellammutinamento-del.html

9) Sul Patto Hitler-Stalin, l’invasione della Polonia e dell’Ucraina rimando a Michele Nobile, Invasioni russe. Polonia 1939-Ucraina 2022, Massari editore, Bolsena 2022. 

10) Mark von Hagen, «From “Great fatherland war” to the Second World War: new perspectives and future prospects», in Moshe Lewin-Ian Kershaw, Stalinism and nazism. Dictatorship in comparisonop. cit., p. 238.

11) Уголовный kодекс Российской Федерации: Codice penale della Federazione Russa, 1996, aggiornato al 18 marzo 2023, https://rulaws.ru/uk/.   

12) Peter Pomerantsev, Nothing is true and everything is possible. The surreal heart of the new Russia, PublicAffairs, New York 2014.    

13) Marcel Van Herpen, Putinism. The slow rise of a radical right regime in Russia, Palgrave Macmillan 2013, p. 203. Si vedano anche, come esempi di diverse caratterizzazioni del regime: Steven Levitsky-Lucan Way, «The rise ofcompetitive authoritarianism», Journal of democracy, vol. 13, n. 2, 2002; Olga Kryshtanovskaya-Stephen White, «Putin’s militocracy», Post-Soviet affairs, vol. 19, n. 4, 2003; David Mandel, «“Managed democracy”. Capital and state in Russia», Debatte. Journal of Contemporary Central and Eastern Europe, vol. 13, n. 2, 2005Dmitri Furman, «Imitation democracies. The post-Soviet penumbra», New left review, n. II/54, 2008; Margareta Mommsen, «Russia’s political regime. Neo-soviet authoritarianism and patronal presidentialism» e Alexander J. Motyl, «Fascistoid Russia. Putin’s political system in comparative context», entrambi in Susan Stewart-Margarete Klein-Andrea Schmitz- Hans-Henning Schroder, a cura di, Presidents, oligarchs and bureaucrats. Forms of rule in the post-Soviet space, Routledge, 2012; Marcel Van Herpen, Putinism. The slow rise of a radical right regime in Russia, Palgrave Macmillan 2013; Timothy Snyder, «We should be asking what feature of Russian politics is not fascist», Euromaidan press, 6 luglio 2022, in cui scrive, rispetto al suo libro del 2018 (The road to unfreedom. Russia, Europe, America, Tim Duggan Books, New York 2018): «allora non dicevo che la Russia è un regime fascista. Lo dico ora»; Vladislav Inozemtsev, «Che Russia ha in mente Putin? Uno stato fascista, non nazista», Sole24Ore, 17 marzo 2022

14) Leila, Al-Shami «The “anti-imperialism” of idiots», 14 aprile 2018, https://leilashami.wordpress.com/2018/04/14/the-anti-imperialism-of-idiots/È autrice con Robin Yassin-Kassab di Burning country. Syrians in revolution and war, Pluto Press, Londra 2018. Si veda anche la voce «Antimperialismo degli imbecilli» in Roberto Massari-Michele Nobile, a cura di, Ucraina dalla A alla ZMassari editore, Bolsena 2023, edizione italiana di Brigades éditoriales de solidarité, L'Ukraine en toutes lettres, Éditions Syllepse, Parigi 2023. 

 

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