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mercoledì 22 settembre 2021

EL CAPITALISMO NO ESTÁ MUERTO

por Marcelo Colussi


El capitalismo no está muerto: : se volvió un “viejo mañoso” muy peligroso

 

Algunas décadas atrás, cuando a nivel mundial se conjugaron una serie de elementos que presentaban un panorama favorable a las fuerzas progresistas (avance del pensamiento de izquierda, movimientos populares en alza, guerrillas de orientación marxista, mística guevarista, mayo francés, teología de la liberación), era pensable que la toma del poder y la construcción de un mundo nuevo concebido desde ideales socialistas de justicia estaban a la vuelta de la esquina. Los años 60 y 70 del siglo pasado, quizá con un aire excesivamente triunfalista –pero honesto, saludable, para echar de menos y reivindicar hoy día– lo permitían deducir: las causas populares y de justicia avanzaban impetuosas. 

En estos momentos, bien entrado ya el siglo XXI, aquella marea de cambio que se mostraba imparable no existe. No sólo eso: muchos de los avances sociales conseguidos durante los primeros años del siglo XX hoy día se han revertido, en tanto que el ambiente dominante a escala planetaria se pretende que sea, al menos desde los poderes centrales que dictan las políticas globales, despolitizado, desideologizado, “light”. La pandemia actual viene a reforzar esa situación de postración para las grandes mayorías populares.

El sistema capitalista, de quien se anunciaba victorioso estaba por caer –eso se creía con profunda honestidad– no cayó. Lejos de ello, se muestra muy vivo, activo, vigoroso. De la Guerra Fría que marcó a sangre y fuego por largos años la historia global, fue el capitalismo quien salió airoso, y no la propuesta socialista. El muro de Berlín, símbolo de esa confrontación justamente, se terminó vendiendo por trocitos como recuerdo turístico. Y de las posiciones ideológicas de izquierda que definieron buena parte de los acontecimientos del siglo XX hoy parecieran quedar sólo algunos sobrevivientes, pero no son las que marcan el ritmo de los acontecimientos. 

Vistas así las cosas, el panorama pareciera sombrío. En un sentido, lo es. Las represiones brutales que siguieron a esos años de crecimiento de las propuestas contestatarias, los miles y miles de muertos, desaparecidos y torturados que se sucedieron en cataratas durante las últimas décadas del siglo XX en los países del Sur con la declaración de la emblemática Margaret Tatcher “no hay alternativas” como telón de fondo, el miedo que todo ello dejó impregnado, son los elementos que configuran nuestro actual estado de cosas, que sin ninguna duda es de desmovilización, de desorganización en términos de lucha de clases. Lo cual no quiere decir que la historia está terminada. La historia continúa, y la reacción ante el estado de injusticia de base (que por cierto no ha cambiado) sigue presente. Ahí están nuevs protestas y movilizacines sociales recorriendo el mundo, quizá no con idénticos referentes a los que se levantaban décadas atrás, pero siempre en pie de lucha reaccionando a las mismas injusticias históricas, con la aparición incluso de nuevos frentes: las reivindicaciones étnicas, de género, de identidad sexual, la lucha por el medio ambiente.

giovedì 16 settembre 2021

REQUIEM PER JOHN SHELBY SPONG (1931-2021)

di Roberto Massari e don Ferdinando Sudati

 

Dopo aver pubblicato tra il 2010 e il 2021 ben 6 suoi libri – per quantità, è il mio secondo autore in catalogo – ogni parola che provassi ad aggiungere sarebbe superflua, e anche termini come «dolore» o «dispiacere» sarebbero riduttivi. Ebbi comunque la possibilità di conoscerlo di persona nello stesso incontro di Bergamo cui accenna don Sudati, ma io rimasi anche l’indomani proprio per trascorrere con lui un’altra giornata di dialogo e comune conoscenza. E devo dire che tra l’ateo e l’ex vescovo episcopaliano l’intesa ci fu, sincera e profonda. Tornato negli Usa mi scrisse una lettera con termini come: «Dear Roberto, it was a pleasure meeting you in Bergamo… it was one of the pleasures of the trip… I am grateful to you for your interest…. I wish you well in your career. You are a man of many talents…. » (24 ottobre 2013).

Con la morte di John Spong o «Jack» (come lo chiamava Christine, sua moglie) si crea un vuoto nel processo di rinnovamento del cristianesimo fuori dal controllo del Vaticano che difficilmente verrà colmato in tempi brevi e con la stessa ampiezza di dimensione teorica.

Pubblicando i suoi libri, mi sono trovato ad assistere quasi in diretta, quasi in tempo reale, a un suo processo di maturazione, intimo e pubblico allo stesso tempo, più che mai sincero e più che mai preoccupato della sua trasmissibilità al mondo dei credenti e a quello dei non credenti, cioè a tutti. Dalla sua iniziale battaglia antiteistica all’approdo nell’identificazione del concetto di Dio con un principio di amore universale - completamente avulso dalle proiezioni antropomorfiche della religione rivelata - passando attraverso la polemica minuziosa contro le interpretazioni letteralistiche del Nuovo Testamento, anche il lettore inizialmente più sprovveduto o più prevenuto può riuscire a sentirsi parte di questo itinerario di ricerca, se non proprio affratellato nelle sue conclusioni.

A me è parso un itinerario di liberazione spirituale ricco di suggestioni e di sfide mentali, che spero qualcun altro sarà in grado di proseguire. Ma per farlo dovrà necessariamente scontrarsi con gli ostacoli rappresentati dai teologi più o meno ufficiali del Vaticano, avendo dalla sua il vantaggio che costoro diventano, via via e col passare del tempo, molto più vulnerabili che nel passato. Ciò per ragioni storiche oggettive, ma anche grazie all’opera di Spong e di pochi altri come lui.

Lascio quindi la parola a don Ferdinando Sudati che della diffusione in Italia del pensiero di Spong è stato «l’apostolo» e che quando dodici anni fa mi propose il primo libro della serie non immaginava forse che stavamo dando vita a una comune grande e bella avventura intellettuale.

(r.m.)  


«Fa' lutto come per un figlio unico»

di don Ferdinando Sudati

 

È il primo versetto della Bibbia che mi è venuto in mente  (Ger6: 26), del tutto estrapolato: mi serve per dire che sono in lutto. Non mi è morto nessun parente, né stretto né lontano, ma un fratello e un amico «unico» in umanità e nel cristianesimo: John Shelby Spong[1]. Anzi, un grande amico. Dove il titolo di «grande» glielo attribuisco io non per autogratificazione ma perché lo considero tale e perché non ne ho l'esclusiva, dal momento che tutti coloro che lo hanno conosciuto e apprezzato attraverso i suoi libri o partecipando ai suoi incontri hanno il diritto di considerarlo grande amico. Il suo gradimento era implicito e garantito.

Ho un motivo speciale per richiamare la sua amicizia. Quando nel 2010, presso l'editore Massari, riuscii a far pubblicare il primo libro del vescovo episcopaliano Spong in traduzione italiana, non avrei immaginato di assumere un impegno e di vivere un'avventura culturale e religiosa che avrebbe avuto continuità sino all'anno 2021. In questo lasso di tempo, con un lavoro quasi artigianale e con risorse assai limitate, hanno visto la luce qui da noi ben nove opere di Spong, distribuite fra quattro editori, rimanendo Massari quello principale. 

E finalmente il pubblico italiano - non quello delle pontificie facoltà teologiche, che ne avrebbe tratto sicuramente vantaggio ma ancora troppo chiuso per confrontarsi con Spong, ma quello costituito da cristiani in ricerca, con qualche inquietudine interiore e molto disagio nei confronti della presentazione tradizionale della fede - cominciò a muoversi e ad apprezzare il discorso teologico del nuovo autore comparso all'orizzonte.  Parliamo di un interesse per campionatura, perché i numeri non sono mai stati debordanti, benché sempre crescente. Il segnale positivo era dato dal fatto che cominciavano a comparire recensioni e soprattutto citazioni di Spong in vari articoli, e i titoli dei suoi libri a figurare nelle bibliografie di nuove pubblicazioni teologiche. C'era gente, insomma, che cominciava a prendere gusto a confrontarsi con lui, perché si sentiva interpretata e avvertiva la sua proposta come pienamente attuale. Intuivano che quella indicata da Spong era la direzione del nuovo o, perlomeno, di un serio rinnovamento nell'àmbito del cristianesimo. E questa volta era un vescovo, pienamente inserito nella sua Chiesa, a parlare con un linguaggio competente, immediato, senza fronzoli e oscurità.

E qualcuno, giustamente, si stupiva quando veniva a sapere che negli Usa tale autore non era affatto sconosciuto, essendo pubblicato da un editore di primo livello e con all'attivo almeno un milione di copie vendute nel mondo anglosassone. Da noi arrivava con notevole ritardo, ma finalmente adesso era presente e copriva un vuoto culturale-teologico. La quantità dice poco sul piano della qualità o del valore, ma è pur sempre un dato cui prestare attenzione perché a volte, o con frequenza, i due aspetti coincidono. 

Da allora, in ogni caso, Spong è stato per me una figura di riferimento intellettuale e morale, e pian piano è diventato un amico, non per frequentazione diretta - ci siamo incontrati solo una volta, in occasione della sua venuta a Bergamo, nell'ottobre del 2013 - ma per il senso di familiarità che crea l'addentrarsi nel pensiero di una persona e la condivisione degli ideali, più precisamente quello di un cristianesimo rinnovato, che passa da una nuova riforma delle Chiese.

Spong ha lottato un'intera vita per la liberazione dai pregiudizi, a favore dei diritti umani nella società e all'interno della Chiesa. Ha messo a disposizione la sua competenza teologica e la sua straordinaria capacità divulgativa affinché la ricerca accademica non restasse retaggio (per lo più infruttuoso) di un’esigua minoranza, poco interessata a tradurla in novità strutturali, ma arrivasse alla base del popolo cristiano, formata dai fratelli e sorelle laici.

Ogni sua nuova opera ha segnato un punto da cui partire per un rinnovamento dottrinale e istituzionale. 

Non hanno però vita facile coloro che si dedicano a riformare antichi apparati, meno ancora se si tratta di apparati ecclesiastici. I «nemici», sia virtuali sia reali, spuntano come funghi e nemmeno a Spong sono mancati. Ha ricevuto decine di minacce a motivo dei suoi interventi pubblici, sia dal vivo sia tramite gli scritti, espresse da gente che non si limitava al contrasto sul piano ideologico ma era anche disposta a passare a vie di fatto, mettendo a rischio la sua incolumità fisica e addirittura la vita stessa. 

Si è guadagnato perfino la «dedica» di un corposo libro da parte di suoi oppositori, tra cui colleghi vescovi[2], e quella di due numeri del periodico neozelandese on-line Apologia, giornale della «The Wellington Christian Apologetics Society (Inc.)»[3]. Nei due casi, la critica era non solo lecita ma anche documentata, sebbene espressione del fondamentalismo cristiano, cioè facente appello a un paradigma culturale irrimediabilmente obsoleto.Perlomeno era esente da minacce.

Non ha nemmeno giovato alla causa di Spong l'insistenza unilaterale, da parte di molti sia pure sinceri sostenitori, su un punto soltanto, a scapito di una visione d'insieme, e quindi della coerenza, del suo programma riformistico. Chi ne ha fatto quasi solo il sostenitore dell'inclusione Lgbtq, mettendo in ombra tutto il resto, non gli ha reso un buon servizio. Questo è avvenuto soprattutto negli Usa. Da noi si è spontaneamente imposta una valutazione equilibrata dell'opera di Spong e, com'era giusto, l'interesse prevalente è andato alla sua proposta dottrinale contenuta nelle «12 tesi per una nuova riforma»[4]. Questo è davvero il nocciolo duro del lascito di Spong, il punto di maggior merito del suo insegnamento, sul quale dovrà innestarsi e proseguire la riflessione di coloro cui stanno a cuore le sorti del cristianesimo per l'epoca moderna, in previsione del futuro. Sarà anche il modo migliore per onorare la sua memoria.

Tornando alla sua concreta vicenda, è stato un ictus a troncare in un istante tutti i suoi progetti. Mentre si trovava a Marquette (Michigan) per tenere una conferenza, è stato colpito da ischemia cerebrale: era il 10 di settembre del 2016. Grazie alla tempestività dei soccorsi, si riprese bene ma dovette cambiare radicalmente forma di vita. Non più viaggi e quindi non più discorsi pubblici, non più presentazioni di nuovi libri, spesso anche all'estero: attività che assorbiva gran parte del suo tempo da quando era in pensione, qualcosa come duecento conferenze l'anno. Un ritmo che avrebbe messo alla prova anche un individuo nel pieno delle forze.

Ogni tanto, in questi ultimi anni, mi chiedevo se Spong avrebbe portato a termine ancora qualcosa e quindi se ci sarebbe stata la sorpresa di un suo ultimo dono, sebbene siano sufficienti quelli che già ci ha fatto. Aveva accennato una volta al suo desiderio di dedicare un commento al vangelo di Luca, dopo quelli a Matteo e a Giovanni. Lo sapremo in un prossimo futuro.

Non è rimasto, comunque, del tutto ritirato e inattivo dopo il serio incidente di salute. Grazie alla collaborazione della moglie, Christine Mary Bridger, è riuscito a terminare quello che per ora rimane l'ultimo suo lavoro: Unbelievable. Why neither ancient creeds nor the Reformation can produce a living faith today, il cui manoscritto era già completo al 90%. È stata un'impresa, come ha confidato a un amico comune, poiché non poteva più utilizzare la mano destra per le conseguenze dell'ictus. Solo il paziente aiuto, unito alla precedente esperienza di redattrice, di Christine, cui dettava la parte rimanente, ha consentito di consegnare il testo all'editore addirittura nei tempi previsti.

Nella nuova casa di Richmond (Virginia), in cui si era trasferito per essere più vicino alle figlie e perché vi aveva già abitato come rettore della chiesa di san Paolo, negli anni 1969-1976, ha concesso pure qualche intervista. Da una di queste, forse la più importante, realizzata in tre giornate, proviene la citazione che segue. In essa c'è tutto Spong, con il suo peculiare stile di uomo e di cristiano:

 

«Attualmente vivo con una grande pace interiore. Questo, sì, mi dispiacerà: perdere Chris. Viviamo in un appartamento all'interno di una urbanizzazione per la terza età e compriamo cibo preparato. È come il passaggio previo a una residenza assistenziale. Se vivo ancora un anno sarò felice; e se ne vivo due, lo sarò più ancora. Questa incertezza però non mi causa ansietà. 

Mi piace appartenere alla mia antica chiesa, la chiesa episcopaliana di San Paolo, in Richmond. Sono quarantadue anni che non ritornavo a questa chiesa. Trovo in questa parrocchia un ambiente spiritualmente vigoroso e sono lieto di esserne un membro in più, seduto su una delle sue panche. Non pretendo d'influenzare nessuno con le mie opinioni. Sono contento di accedere al tempio la domenica mattina. Non cerco di creare nulla. Non ho desiderio di creare una chiesa a mia immagine e somiglianza. Spero di non causare problemi all'attuale rettore. Se così fosse, dovrei andarmene»[5].

 

Termino questa semplice rievocazione riportando il finale del breve necrologio del sito Progressing spirit, fondato nel 1991, di cui Spong è stato il punto di forza, con una rubrica settimanale, sino al momento del suo ritiro nel 2017. Il sito prosegue ora il suo cammino, nello spirito di Spong, con una schiera di pensatori di primo piano. 

 

«Vescovo John Shelby Spong

16 giugno 1931 - 12 settembre 2021

Il vescovo Spong ha fornito un posto tanto necessario a quelli di noi che non erano più in sintonia con la teologia tradizionale. Ti vogliamo bene, vescovo Spong. Ci mancherai!»[6].

 

È un addio affettuoso, che vorrei fare anche mio. 

 

Ferdinando Sudati

 

 

I libri di Spong in italiano

 

- Un cristianesimo nuovo per un mondo nuovo. Perché muore la fede tradizionale e come ne nasce una nuova, Massari Editore, Bolsena 2010

-Gesù per i non-religiosi. Recuperare il divino al cuore dell'umano, Massari Editore, Bolsena 2012

-Il quarto Vangelo. Racconti di un mistico ebreo, Massari Editore, Bolsena 2013

-La nascita di Gesù tra miti e ipotesi, Massari Editore, Bolsena 2017

-Vita eterna: una nuova visione. Oltre la religione, il teismo, il cielo e l'inferno, Gabrielli, San Pietro in Cariano (VR) 2017

-Letteralismo biblico: eresia dei gentili. Viaggio in un cristianesimo nuovo per la porta del Vangelo di Matteo, Massari Editore, Bolsena 2018

-Perché il cristianesimo deve cambiare o morire. La nuova riforma della fede e della prassi della Chiesa, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2019

-Incredibile. Perché il credo delle Chiese cristiane non convince più, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2020

-I peccati della Bibbia, Massari Editore, Bolsena 2021  



[1]Per le note biografiche essenziali, cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/John_Shelby_Spong; oppure  https://it.wikipedia.org/wiki/John_Shelby_Spong(trad. italiana approssimativa e bibliografia non aggiornata);oppure, F. Sudati, «Un credente in esilio. Piccola introduzione a John Shelby Spong», in Aa. Vv., Oltre le religioni. Una nuova epoca per la spiritualità umana, Gabrielli, San Pietro in Cariano (VR) 2016, pp. 47-67. Per materiale di e su Spong, cfr. il sito a lui dedicato in spagnolo (http://johnshelbyspong.es/) e la pagina sul sito francese http://protestantsdanslaville.org/john-s-spong/js.htm

[2]Can a bishop be wrong? Ten scholars challenge John Shelby Spong, a cura di Peter C. Moore, Morehouse Publishing, Harrisburg (PA) 1998.

[3]Cfr. Apologia 4\1995 e 2-3\2000.

[4]Un'ampia presentazione delle 12 tesi si trova in: J.S. Spong, “Le 12 tesi. Appello a una nuova riforma”, in AA. VV., Oltre le religioni. Una nuova epoca per la spiritualità umana, Gabrielli, San Pietro in Cariano (VR) 2016, pp. 69-120. Interamente dedicato alle 12 tesi è il libro: J.S. Spong, Incredibile. Perché il credo delle Chiese cristiane non convince più, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2020.

[5]Dall'intervista di David M. Felten, del 22-11-2018, in https://progressingspirit.com/  

[6]«Bishop John Shelby Spong \ June 16, 1931 - September 12, 2021 \ Bishop Spong provided a much needed place for those of us who did not connect with traditional theology. We love you Bishop Spong. You will be missed!» (https://progressingspirit.com/



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lunedì 13 settembre 2021

PUKA PICANTE

por Cabe (Perú)


Esta es la tragedia, del gobierno del profesor Castillo, desea conciliar con una burguesía que ni siquiera es capaz de responderle un saludo.

Ya sabemos que el titular de esta nota puede suponer que nos vamos a referir a uno de los platos típicos de la gastronomía ayacuchana, pero no es así.

Puka, es el sobrenombre que desde niño tiene el premier Guido Bellido quien en realidad se encuentra al frente de un cargo que al parecer lo tiene muy picante, pues enfrenta una oposición picada de rabia por no haber ganado las elecciones presidenciales y que hoy no hace otra cosa que mantener viva una conspiración para vacar al presidente profesor, campesino y rondero. Como si no nos diéramos cuenta.

Habiendo ganado las elecciones como supuesto representante de una “izquierda radical”, el gobierno que preside Pedro Castillo Terrones, es todo un rompecabezas para de nirlo. ¿Qué es? ¿Será un gobierno reformista burgués? ¿Es un gobierno reformista pequeño burgués? ¿Es un gobierno reformista de la burocracia sindical?

Lo que está claro es que este no es un gobierno socialista, no tiene una de nición anticapitalista, por el contrario, el eje económico de Perú Libre sostiene que su fundamento es una “Economía social con mercado”. Esta es la marca que de ne esa organización y a sus dirigentes.

En realidad, si buscamos en la historia y en la actualidad, tal galimatías corresponde a la nueva orientación que se impone en la Cuba de hoy tras la nueva Constitución aprobada en ese país en

el 2019, y que sustituye a la de 1976, introduciendo precisamente el mercado (capitalista).

En este punto, vale la pena hacer un repaso por la historia.

En los años 60’s, luego de producida la revolución cubana, el Che fue nombrado Ministro de Economía. Fiel a sus principios y estudioso como era, el Che planteó la industrialización del país, fortaleciendo la industria siderúrgica para dejar la dependencia del azúcar. Al mismo tiempo creó el trabajo voluntario, que él mismo realizaba como ejemplo, y la formación de un hombre nuevo inspirado en el fortalecimiento de los valores éticos y morales para dejar atrás el egoísta pensamiento de lucro, del capitalismo.

Le saltó al frente Blas Roca, secretario general del Partido Popular (comunista), quien  el a la tradición estalinista proponía una economía basada en la Nueva Política Económica (NEP), tal como se instaló, por el propio Lenin, en la Unión Soviética, especialmente para promover la producción agraria devastada en ese país luego de casi tres años de guerra civil. Para Lenin, crear un mercado para los productos agrícolas en la que los campesino decidían su producción y sus precios, era una medida transitoria que se complementaría con una política de impuestos que habrían de permitir una “acumulación primitiva de capital” para hacer posible la industrialización. Para hacerla breve, esto produjo una distorsión tal que puso en riesgo a la Unión Soviética, de caer en la inmediata restauración del capitalismo.

A pesar, de las consecuencias funestas de la NEP, Blas Roca insistía en una economía socialista “con mercado”. Para reforzarse teóricamente, invitó al economista francés Charles Bettelheim para que polemizara con el Che sobre la Ley del Valor, además de cómo construir el socialismo “sin calco ni copia” (Como diría Mariátegui) en un país tan particular como Cuba. El francés acusaba al Che de idealista, y reforzaba la idea que el proceso del trabajo era más importante que la educación socialista.

El Che, invitó al economista, trotskista, belga, Ernest Mandel, autor del Tratado de Economía Marxista, para que refute las ideas de Bettelheim. Cecilia Hart, recuerda una expresión del Che en la que mani esta su desacuerdo con la NEP, “esa no es una nueva política económica, ese es el viejo capitalismo”, diría entonces Guevara de la Serna.

La polémica entre Mandel y Bettelheim se difundió entonces y sigue manteniendo su vigencia.

Volviendo a Perú Libre, es evidente que en el fondo, la Cuba actual, in uye desde el viejo estalinismo, para que el gobierno de Castillo sea uno de Frente Popular, es decir de conciliación con la burguesía para llevar a cabo un programa reformista de redistribución económica que permita mejores bene cios sociales y económicos a la población. Este tipo de política ha sido cali cado en México como “progresismo tardío”, en referencia a los gobiernos “progresistas” de comienzos del siglo que basados en el alza del precio de los commodities, tuvieron ingresos que les permitieron políticas de mejoramiento económico y asistencia social.

Conciliación de clases, es lo que quiere el gobierno de Castillo, para ello ya no sabe que má s darle a la putrefacta burguesía para que apacigüe a sus políticos de derecha cuya única indecisión ahora está entre ser o más “achorados” (energúmenos) o más brutos.

Esa es su tragedia, desea conciliar con una burguesía que ni siquiera es capaz de responderle un saludo.

Por lo pronto, a la mínima crítica contra el canciller Héctor Béjar, le pidieron su renuncia sin permitirle hacer descargo de todo lo que se le acusaba, fue evacuado del gobierno en modo humillante, no tanto por el bulling de la derecha como por el maltrato del propio gobierno que debió defenderlo.

A Béjar le está siguiendo el ministro Maraví, y la puntería se acerca al propio premier, el Puka Bellido, sometido al implacable asedio derechista, que no deja pasar la oportunidad de avalanzarce contra cualquier descuidado desliz. La derecha insiste en pedir la cabeza de

más ministros. Tal situación ha debido ser contestada por el propio Castillo que acaba de señalar que la derecha no le va a ubicar a sus ministros.

En vez de organizar una vacunación con la participación del pueblo, presto a ser voluntario para llevar la vacuna “a la punta del cerro”, el ministro Cevallos, proclama satisfactoriamente su aplauso a la gestión anterior y mantiene a sus funcionarios a la cabeza de la “lucha contra la pandemia”.

Lo mismo sucede con el problema del hambre. En vez de organizar al propio pueblo y sus organizaciones comunales para las ollas comunes, Castillo sugiere que convocará a las fuerzas armadas

a cumplir con ese rol, asimismo para colaborar con obras de infraestructura que debieran servir para proporcionar trabajo masivo y necesario a una población que desfallece no solo por la pandemia sino también por hambre.

Mientras tanto, Pedro Francke, ministro de Economía, está de bombero rociando abundante agua fría sobre las exigencias del pueblo relacionadas con las promesas de campaña.

¿Tiene futuro el gobierno de Castillo?

Acusado de títere de Wladimir Cerrón, principal dirigente de Perú Libre, como

lo motejan lo medios en su totalidad, y cuyo objeto es forzarlo para que rompa con el partido que lo llevó al gobierno y así hacer más fácil su vacancia, Castillo tendría los días contados de seguir ese rumbo, a menos que decida convertirse en un nuevo Humala, es decir en un traidor.

En la base, ya hay ruido de descontento. Las masas quieren algo a su favor por parte de un gobierno que hasta hoy no da nada por ellas. Los salarios, por ejemplo siguen detenidos, y el ministro de Economía,  el a su juramento de respetar a la propiedad privada y a las instituciones democráticas (capitalistas), es ahora una camisa de fuerza contra el proyecto reformista. Sin reformas y sin conciliación de clases, no queda sino señalar que desapareció la puka y solo queda lo picante.


(Lucha Indígena, septiembre 2021)




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mercoledì 8 settembre 2021

PANDEMIA Y ECOLOGÍA

por Marcelo Colussi

 

La economía dominante de nuestras sociedades, el capitalismo, está enferma. No enfermó recientemente: nació enferma. Tiene un mal incurable, genético. Definitivamente: no tiene cura. Pero sigue respirando, aunque en su sobrevivencia mate de hambre y con bombas a millones de seres humanos, solo para mantener el privilegio de unos pocos. 

 

Esa “enfermedad” se evidencia en la injusticia reinante (aspectos estructurales: más de 20,000 personas muertas por falta de alimentos diariamente a nivel mundial), en los descalabros coyunturales como las crisis financieras que se viven cíclicamente (que pagamos, básicamente, los pobres, mientras los Estados salen a rescatar a las grandes empresas en apuros), y en términos de perspectiva histórica como especie: la destrucción de la civilización es una cruel posibilidad, tanto por la catástrofe medioambiental en curso como por la guerra nuclear total. Según se nos dice con conocimiento profundo (la ecología es una ciencia ya ampliamente desarrollada), los actuales modelos económicos de producción y consumo están produciendo desastres en el medio natural con consecuencias catastróficas y probablemente irreversibles. Actuar contra el capitalismo es actuar contra la injusticia, y más aún: es actuar a favor de la sobrevivencia de la vida en nuestro planeta, la de los humanos y la de toda especie animal y vegetal. 

 

El capitalismo, guerrerista como es en su esencia, no puede prescindir de las guerras. Eso lo alimenta, es una escapatoria para sus crisis, es negocio. De hecho, en Estados Unidos, la principal economía capitalista, una muy buena parte de su producto bruto interno viene dado por la industria militar, y un alto porcentaje de sus trabajadores se ocupa, directa o indirectamente, en esa producción. Eso es una locura, sin salida, que nos tiene reservada la muerte como punto de llegada… ¡Ese es el capitalismo más desarrollado! El año pasado, aún con el declive general de la economía global (decaimiento de un 4.4% en el producto planetario), la industria armamentísica creció. ¡Viva la muerte!, podría decirse. 

 

Valga este ejemplo: de activarse todo el arsenal atómico disponible en este momento (que comparten unas pocas potencias capitalistas con Estados Unidos a la cabeza junto a Rusia y China, las que detentan los sitiales de honor en el Consejo de Seguridad de Naciones Unidas) no quedaría ninguna forma de vida en el planeta. Más aún: colapsaría la Tierra, probablemente fragmentándose, con efectos igualmente sensibles para Marte y Júpiter, en tanto las consecuencias de la explosión llegarían a la órbita de Plutón…, pero todo ese espectacular desarrollo científico-técnico no logra terminar con el hambre en el mundo (un muerto por inanición cada 7 segundos). ¡Eso es el capitalismo!

domenica 5 settembre 2021

BORDIGA E IL FASCISMO NEL LIBRO DI AMICO

di Diego Gabutti

 

Fondatore e primo segretario del Pc italiano, espulso con ignominia dal partito, qualche anno di confino dietro le spalle, Amadeo Bordiga non fu mai un oppositore del regime. Voleva abbattere il capitalismo, e del fascismo non poteva importargli di meno. Pertanto, una volta scontata la pena, si ritirò a vita privata senza neppure sognarsi di combattere la dittatura del suo ex amico Benito Mussolini. 

A differenza degli altri comunisti – che scesero sul sentiero di guerra contro l’ex direttore dell’Avantiautoproclamatosi Duce, un po’ come Stalin s’era autoproclamato Padre dei popoli e Togliatti «il Migliore» – Bordiga era «bordighista» abbastanza da lasciare che il fascismo passasse, come un’emicrania della storia. Aspirina e santa pazienza. Non serviva altro. Con «bordighismo», del resto, s’intendeva proprio questo: se all’ordine del giorno c’era la palingenesi sociale, bene, perché no, ma se c’era soltanto da distribuire volantini e da rendere testimonianza d’antifascismo, allora no, grazie, i bordighisti in generale e Amadeo Bordiga in particolare non erano disponibili. Agli occhi di Bordiga il regime dei salti nel cerchio di fuoco, del manganello e dei pugni sui fianchi non era che un’increspatura sull’onda della storia. Sull’orizzonte, ancora invisibile, si stava già alzando lo tsunami della rivoluzione socialista, uno sconquasso dell’ordine universale che si sarebbe abbattuto, secondo profezia, sul «bagnasciuga» del vecchio mondo, devastandolo e trasfigurandolo. Era tutto scritto. Inutile scalmanarsi, pensava Bordiga. Tempo al tempo, e il capitalismo avrebbe avuto il fatto suo. Così era scritto nei testi sacri con l’evidenziatore rosso fuoco.

Di questa singolare e bizzarra epopea tra Marx e Balzac rende conto l’ultimo libro di Giorgio Amico: Bordiga, il fascismo e la guerra. Storico delle eresie comuniste, autore di testi importanti sulla storia dell’ascesa e caduta dei movimenti goscisti nel Novecento, Giorgio Amico racconta il «ventennio» di Amadeo Bordiga nel dettaglio e senza condividerne le scelte, a suo giudizio poco coraggiose. Ma qui non è questione di coraggio. Come Marx, che passò la vita a parlare del capitale senza che gli ballasse una sterlina in tasca, Bordiga non fece che disquisire per tutta la vita della Storia maiuscola – dove presto o tardi ma infallibilmente avrebbero finito per scontrarsi gl’immani eserciti di classe chiamati a contendersi il mondo dal Manifesto del partito comunista– mentre a lui personalmente non toccarono che storie minuscole. E dire che nel 1921 aveva fondato la sezione italiana dell’Internazionale comunista e che col suo estremismo e le sue intemerate antiparlamentari aveva ispirato a Lenin L’estremismo, malattia infantile del comunismo, uno dei suoi pamphlet più chiacchierati. Qualche anno dopo, nel 1926, aveva ridotto Stalin a balbettare: «Non avrei mai creduto che un comunista potesse parlarmi così. Dio vi perdoni, compagno Bordiga». Sempre nel 1926, tornato a Roma da Mosca, venne arrestato e gli fu sequestrata una borsa piena di dollari del Comintern destinati al partito italiano. A Ustica, dove venne confinato, organizzò insieme a Gramsci, suo amico e rivale, una scuola di partito. Ma una volta lasciato il confino, cacciato dal Pc d’Italia, riparò nell’ombra. Ingegnere, badò a tenersi lontano dai guai, e dai piani alti della Storia, dove per un po’ era stato di casa. 



 Trotsky, cacciato anche lui dal partito, gli mandò un messaggio dall’esilio turco, dov’era stato confinato dal Corifeo delle Scienze: «Lascia l’Italia, e raggiungimi qui a Prinkipo. Organizziamo insieme la grande rentreé della rivoluzione proletaria». Bordiga lasciò cadere l’offerta. Grazie, ma grazie no. Lasciò cadere, in effetti, ogni offerta militante, quale ne fosse la provenienza. Non era aria, da come la vedeva lui, per la guerra di classe, né lui si sarebbe impegnato per meno. Napoletano e fatalista, attendeva che passasse «’a nuttata» della «fase controrivoluzionaria». Venne a patti col fascismo? Be’, non lo affrontò a petto nudo, con un coltello tra i denti, invocando la democrazia o il ritorno del parlamento, irriducibilmente antidemocratico e antiparlamentarista com’era (ben più di Mussolini o di qualsiasi fascista). Si rivolse ai tribunali borghesi, trattò con la polizia, ebbe parole d’elogio (forse sincere, ma forse no) per le imprese coloniali del DUX, dichiarò di preferire il Führer (e qui fu sincero) alle democrazie occidentali. Detestò la Resistenza, della quale si fece beffe fino all’ultimo (e qualche ragione, dal suo punto di vista d’«ostinato e immobile marxista», certamente l’aveva, o almeno la fantasticava). Non s’ammorbidì nemmeno nel dopoguerra, quando gli si raccolse intorno una claquedi seguaci: il Partito comunista internazionalista, progenitore d’ogni gruppuscolo goscista a seguire. Ancora non era passata la nottata. Venne a patti con la democrazia come nel Ventennio era venuto a patti col fascismo: ignorandola e beffeggiandola, da quello snob che era.

Viveva nell’Italia e nel mondo reale da marziano. Non partecipava, era fuori dal gioco, e comunque non ne conosceva le regole, né intendeva impararle. Più naifche discreto, gli piaceva guidare il suo gruppuscolo d’illuminati senza mostrarsi in pubblico. Ciò «ricorda molto da vicino» – postilla Amico – la storia di Robert Barcia, importante industriale farmaceutico parigino, morto nel 2009, che i suoi colleghi della Confindustria francese conoscevano come uomo di grande simpatia, fin quando in seguito a un’inchiesta giornalistica dei primi anni 2000 si scoprì che, col nome di battaglia di “Hardy”, era in realtà il capo incontrastato di Lutte ouvrière, la principale organizzazione trotskista francese». Anche Amadeo Bordiga, come Barcia e i supereroi, che sotto la mascherina nera sono degl'incorreggibili esibizionisti, ebbe dunque un’identità segreta.

Non era perfetto, naturalmente. Tutt’altro. Una volta scrisse che «contenuto originale del programma comunista è l’annullamento della persona singola come soggetto economico, titolare di diritti e attore della storia umana». Sono solo parole, d’accordo, e lui non le mise mai in pratica (lungi da lui mettere qualunque cosa «in pratica»). Ma quest’attenuante, che non fu uomo d’azione ma d’opuscoli e di «riunioni generali», varrebbe anche per Pol Pot, se il macellaio maoista si fosse fermato a Parigi a filosofare davanti a un pernod con i suoi amici esistenzialisti del Café Voltaire, e non fosse tornato in Cambogia a far danni. Bordiga, ideologicamente parlando, fu un cattivo soggetto, un «malamente» dell’immaginario politico. 

Proclamò la nobiltà dell’«anonimato»: la funzione della personalità nella storia era meno di zero. Ma il suo fan club ne fece un’icona, e lui non fece niente, salvo schernirsi un po', come le primedonne nelle conferenze stampa, contro questa deriva da rock star (altro che anonimato). Fu anche profeta, come i Padrini di Scientology o dei Testimoni di Geova. Scrisse che nel 1975, cinquant’anni dopo l’età del Comintern e dell’Armata rossa, sarebbe immancabilmente tornata la «fase rivoluzionaria, anonima e tremenda». Sono passati altri cinquant’anni, e ancora niente.

 

Giorgio Amico, Bordiga, il fascismo e la guerra (1926-1944), Massari Editore 2021, pp. 240, 15,00 euro



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