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Innanzitutto, i numeri giusti per la giusta finalità
Cosa ci interessa sapere dei risultati delle elezioni politiche? Ovviamente, la distribuzione dei seggi delle Camere fra i diversi partiti, fatto determinante - si presume - della composizione del governo. Il «si presume» consegue dalla possibilità che infine, constatata l’impossibilità o inopportunità di un governo politico, si formi una maggioranza favorevole a un governo «tecnico» o, meglio, tecnocratico, o qualche genere di pasticcio trasformistico. Eventualità da non scartare, visti i risultati di queste elezioni politiche.
Quindi, per il fine istituzionale della composizione delle Camere, della maggioranza e del governo, i numeri da considerare sono quelli forniti dal Ministero dell’Interno e dai mass media, di pronta disponibilità per chiunque. Le percentuali dei partiti sono calcolate sui voti validi.
Se, invece, si considerano le elezioni come una sorta di gigantesco sondaggio sulle opinioni politiche dei cittadini, allora quel che non si deve fare è ragionare a partire dalle percentuali calcolate sui voti validi. Occorre avere la pazienza di ricalcolare le percentuali in rapporto all’elettorato totale, di tutti i cittadini che hanno diritto di voto, astenuti compresi, qui indicati come adv: solo in questo modo ci si potrà fare un’idea corretta della «presa» dei diversi partiti sull’elettorato. Se si compie questa operazione, i risultati possono essere sorprendenti e importanti le implicazioni politiche. Ad esempio, facendo i calcoli sull’elettorato totale, in un passato non remoto sarebbe stato difficile parlare di «regime» berlusconiano, tesi mirante a giustificare la partecipazione di Rifondazione comunista, Comunisti italiani e Verdi ai governi nazionali e locali di centro-sinistra (i valori assoluti e le percentuali del 2018 si basano sui risultati elettorali per la Camera della quasi totalità delle sezioni: nel computo ne mancano meno di cento).
Continua a crescere l’astensione
Occorre tener conto che, a causa del carattere truffaldino delle leggi elettorali che si sono succedute in Italia nell’ultimo quarto di secolo, la rappresentanza parlamentare non riflette il voto popolare: le diverse espressioni del sacrosanto diritto di voto del Paese «reale» elettorale, nel Paese «legale» delle istituzioni non sono rappresentate correttamente, ovvero in modo proporzionale.
La distanza fra il voto popolare e la rappresentanza istituzionale cresce al crescere dell’astensionismo e dei voti non validi (schede bianche e nulle), fenomeno che aumenta ad ogni tornata elettorale. Nel 2013, ad esempio, si astennero dal voto 11,6 milioni di elettori, il 25% dell’elettorato, e 1,6 milioni furono le schede bianche e nulle; nel 2018 gli astenuti sono saliti a circa 14 milioni, quasi il 27% dell’elettorato globale, a cui si devono aggiungere le schede bianche e nulle. Sicché il primo «partito» italiano è in realtà quello dell’astensione. L’astensionismo non è riducibile all’obsoleta figura del qualunquismo.
Chi scrive ha trattato la questione numerose volte, per cui, a questo punto, non posso che ripetermi:
«L’equazione fra astensione e “qualunquismo”, ammesso che nella sua genericità sia mai stata valida - e non lo è stata - risulta obsoleta e inutile quando i partiti diventano organi dello Stato e il Parlamento cessa di essere cassa di risonanza, per quanto imperfetta, del conflitto sociale. Per motivi strutturali l’organo legislativo ora non è altro che la cassa di registrazione di decisioni prese al vertice dei partiti e del governo.
Al contrario, a fronte dell’oligarchia bipartitica, del trasformismo dilagante, dell’ipocrita e ignobile ricatto del “votare il meno peggio”, l’astensionismo è oggi un’elementare misura di difesa della propria autonomia di giudizio etico e politico. È una sana e progressiva reazione alla reale antipolitica, questa sì “qualunquistica”, della politica parlamentare e istituzionale» («I risultati elettorali confermano e accelerano il disfacimento del sistema parlamentare italiano», 26 febbraio 2013).
La crisi del centro-destra
La coalizione di centro-destra arresta la parabola discendente, aumentando i propri voti di 2,2 milioni relativamente alle politiche del 2013 e ottenendone 12,1 milioni - pari al 26% degli adv (37% sui voti validi) - ma nel 2008 ne aveva messi assieme 17 (il 36% degli adv).
Tuttavia il successo - molto relativo - della coalizione di centro-destra è anche un frutto avvelenato: da una parte appare come l’agonia politica terminale di Silvio Berlusconi, che ne è stato il capo e il collante per un quarto di secolo; dall’altra, e al di là del dato di queste elezioni, è improbabile che Matteo Salvini e la Lega possano svolgere il ruolo nazionale che furono di Berlusconi e FI.
Forza Italia ottenne il suo massimo successo nelle politiche del 2001: 10,9 milioni di voti, pari al 22% degli adv (risultato inferiore a quello della Dc in fase terminale, nel 1992: lo ricordo per chi blaterava di «egemonia» o «regime» berlusconiano); nel 2008 il Pdl, fusione di FI e An, ottenne 13,6 milioni di voti (il 29% degli adv), in realtà poco meno della somma dei voti per i due partiti nelle precedenti elezioni politiche.
Con 4,6 milioni di voti, nel 2018 la rinata o mai morta FI perde 2,7 milioni di voti sul risultato del 2013 e ottiene solo il 10% dei consensi sull’elettorato totale.
La Lega, invece, ottiene lo spettacolare risultato di triplicare il risultato del 2013 - ottenendo 4,8 milioni di voti in più - diventando il più forte partito del centro-destra col 12% sugli adv (17% sui voti validi). E sono consistenti i risultati conseguiti dalla Lega nel Mezzogiorno, strani per un partito nato contro i terroni: circa il 10% dei consensi per la Lega vengono da Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia, segno che la linea sciovinista anti-immigrati paga, come pure quella del voto di protesta contro i partiti maggiori. Il precedente miglior risultato della Lega - allora Lega Nord - fu nel 1996, quando ottenne 3,7 milioni di voti (il 7,7% sugli adv).
Aspettando analisi più precise dei flussi di voto, ritengo che la crescita della Lega possa attribuirsi in gran parte a un rimescolamento interno all’area centrista, ovvero essenzialmente a flussi in provenienza da FI e dalla lista di Mario Monti che nel 2013 totalizzò 3,5 milioni di voti. Se questo è vero, siamo in presenza di uno spostamento verso destra all’interno dell’area centrista e di centro-destra, ma non di tutte le aree dell’elettorato.
Infine, malgrado il buon risultato nel Mezzogiorno e a meno che non stravolga completamente la propria ragion d’essere, la Lega resta un partito nordista e del Nord. Questo pone limiti obiettivi alla sua espansione elettorale, che - a parte contributi minori nel Centro e nel Sud - può avvenire soltanto nel Nord e principalmente a danno di Forza Italia e dell’area centrista.
Inoltre, seppur politicamente moribondo, è assai arduo immaginare che Silvio Berlusconi ceda le redini del centro-destra; ed è anche difficile immaginare Matteo Salvini come presidente del Consiglio dei ministri. Insomma, è possibile che queste elezioni portino a una lotta fratricida all’interno del centro-destra, il cui risultato finale non è detto sia la conferma o la crescita dei consensi registrati nel 2018.
Il crollo del centro-sinistra e in particolare del Partito democratico, non compensato da Liberi e Uguali
Il Partito democratico nacque come una sorta di realizzazione - pervertita, ma non troppo - del sogno togliattiano: l’unità fra i due grandi partiti popolari italiani, il Pci e la Dc. Nelle sue precedenti incarnazioni degli anni ‘90 del secolo scorso, quando il centro-sinistra governò l’Italia per un tempo pari a dieci volte quello del primo governo Berlusconi, esso fu responsabile di tutte le controriforme di taglio liberistico, godendo per la maggior parte del tempo anche dell’appoggio di partiti a denominazione «comunista». Infine, la grande unità si è risolta nella «democristianizzazione» del Pd, culminata nella figura di Matteo Renzi.
In Italia non abbiamo mai avuto un «regime» berlusconiano, ma una postdemocrazia di cui il centro-sinistra è stato volenteroso costruttore e pilastro.
Si può ben dire che il regime postdemocratico italiano funzioni attraverso la selezione del peggio, a destra e a manca, su tutto lo spettro partitico. È dunque «naturale» che il Pd abbia prodotto la meteorica ascesa di un personaggio come Renzi, che ha effettivamente finito per rottamare il proprio partito. Con 6,1 milioni di voti, il Pd ne perde 2,5 sul 2013 (circa un terzo dei consensi) e dimezza il risultato sul 2008. Calcolato sull’intero elettorato, il consenso per il Pd è ora giustamente sceso al 13% (il 17% sui voti validi), la metà del 25,7% del 2008 (il 33% sui voti validi). La coalizione di centro-sinistra è al 16% degli adv grazie al contributo della sua ala destra, +Europa.
Per quanto in concorrenza elettorale col Pd, chi scrive ritiene politicamente Liberi e Uguali una costola del centro-sinistra dal futuro assai incerto: ottiene il consenso del 2,4% degli adv.
Il successo del Movimento 5 Stelle
Il M5S si conferma il primo partito votato dagli italiani e con 10,7 milioni di voti aumenta il suo consenso di 1,5 milioni sul 2013; sul totale degli adv passa dal 18,5% al 23% (dal 25,6% al 32,7% sui voti validi). Rimane un contenitore dove passa di tutto e ormai anche la via più breve per fare una carriera politica. Ma è chiaro che ha guadagnato voti togliendoli principalmente al Pd, mentre a destra ne ha presi alla Lega (si veda la prima analisi dei flussi di voto dell’Istituto Cattaneo). Il partito di Grillo rimane un fenomeno assai particolare, una rivolta elettoralistica e pseudopopulistica contro la postdemocrazia costruita da centro-sinistra e centro-destra che continua a scombinare le manovre dei partiti di governo, pur avendo scarse possibilità di accedervi.
Intanto è pure un argine al voto di protesta verso i partiti di estrema destra. Ed è ovviamente uno strumento fondamentale per impedire che l’astensionismo diventi la maggioranza assoluta degli adv.
L’estrema destra fascista
Tra Forza Nuova, CasaPound e Fiamma Tricolore, nel 2013 i neofascisti ottennero complessivamente 182.566 voti, pari allo 0,4% degli adv. Nel 2018 la somma dei voti di CasaPound e Italia agli Italiani (Forza Nuova e Fiamma Tricolore) è di circa 437 mila. Si è verificato un raddoppio, che comunque porta il risultato dei gruppi neofascisti solo allo 0,9% dell’elettorato totale. Si tratta di ben poca cosa rispetto agli oltre due milioni di voti che il Msi otteneva normalmente negli anni ‘70-‘80, quasi tre nel 1972. Non è il caso di gridare al lupo. I neofascisti odierni possono essere pericolosi localmente, ma sono irrilevanti per le vicende politiche nazionali. Quel che veramente dovrebbe allarmare gli antifascisti non sono i risultati elettorali dei fascisti, ma i propri.
Miseria della sinistra
Per Potere al Popolo! mi sarei aspettato un risultato migliore: non buono, non da superare lo sbarramento, ma non proprio disastroso. Evidentemente ho sopravvalutato l’immagine dell’attivismo dal basso, perché questo risultato elettorale è una catastrofe senza appello. Ragione vorrebbe che si intraprendesse una riflessione lunga e profonda sulle ragioni del fallimento storico della sinistra post-Pci, ma dubito assai che ciò avvenga. Per farlo bisognerebbe liberarsi anche dello sciovinismo antieuropeista e del nazionalmonetarismo, nonché della simpatia per il paleoconservatorismo di Putin e per il capitalismo cinese.
PaP! ottiene 370 mila voti, pari allo 0,8% dell’elettorato totale. Questo significa un dimezzamento dei consensi sulla lista Ingroia del 2013, la riduzione a un terzo sulla lista Arcobaleno del 2008 e un crollo pari all’87% dei voti ottenuti dalla sola Rifondazione comunista nel 2006 (2,2 milioni di voti, il 4,7% degli adv; ovviamente il crollo del consenso sarebbe più ampio includendo Verdi e Comunisti italiani).
Sull’intero elettorato il sedicente Partito comunista ottiene lo 0,2%, un insulto alla memoria del vecchio Pci; Per una sinistra rivoluzionaria (somma di due gruppi di area trotskoide) ha lo 0,06%. Sono numeri così irrilevanti che la motivazione dell’uso delle elezioni al fine della propaganda rivoluzionaria appare francamente ancor più ridicolo di quanto non lo sia stato in passato.
Ebbene, dopo quarantun’anni o un’intera generazione post-Pci, dopo decenni di elettoralismo, di accordi e collaborazione col centro-sinistra nazionale, regionale e locale, il risultato è questo. Nel remoto 1976 Democrazia proletaria ottenne 557.052 voti, l’1,37% sull’elettorato totale (1,5% sui voti validi), 641.901 nel 1987 - 1,4% sull’elettorato (1,6% sui voti validi) - ultima sua partecipazione prima della confluenza con i rimasugli togliattiani e ingraiani del Pci. Benché ciò possa essere formalmente negato, sappiamo bene che per la sottocasta politica dei forchettoni rossi il termine di paragone del successo è sempre stato, in definitiva, il risultato elettorale; che la partecipazione alle elezioni è per la sinistra un dogma di forza superiore a quello della verginità di Maria per il Santo Padre; e che in nome del meno peggio tutto ciò ha portato a collaborare con il pilastro «di sinistra» della postdemocrazia. Ebbene, valutato col metro che più gli è caro, bisogna necessariamente concludere che la sinistra in tutte le sue componenti è il peggior disastro dell’intero sistema politico italiano. Si è verificata una regressione epocale non solo in termini elettorali, ma prima e più di tutto in termini di soggettività politica.
Ormai non serve neanche più dirsi contro Renzi, contro il Pd, il social-liberismo ecc. Questo sarebbe stato utile molto tempo fa, non oltre le elezioni del 2006. Adesso quello spazio è solidamente occupato, e per buone ragioni, dal M5S. Ma è ipocrita attribuire al partito di Grillo la responsabilità della catastrofe elettorale, una frana che iniziò prima che il M5S partecipasse per la prima volta alle politiche. Né si tratta di una sconfitta sul campo o da attribuire a generali motivi sociologici. Ci sono modi diversi di perdere: alcuni portano alla rinascita, altri all’estinzione.
Morale della favola
Potrei prendere in considerazione questa sinistra a una sola condizione, semplice e scandalosissima: che qualunque proposta politica aggregativa parta dalla premessa che non ci si presenterà alle elezioni - almeno non a quelle politiche e regionali - e che si farà campagna per l’astensione. Per due motivi: il primo, importante ma meno del secondo, è che esistono ragionevoli motivi per tirarsi fuori da questo sistema politico. La mia non è una posizione di tipo anarchico o «di principio», bensì conseguente dalla valutazione dell’evoluzione storica dei sistemi politici dei Paesi a capitalismo avanzato, in particolare di quello italiano. Evoluzione che si può definire «postdemocratica»; chi volesse approfondire può leggere Postdemocrazia di Colin Crouch (Laterza, 2003) e - di chi scrive - Capitalismo e postdemocrazia. Economia e politica nella crisi sistemica (Massari ed., 2012).
Non è però necessario condividere questo motivo: è il secondo ad essere invece essenziale, e deve essere consapevole e deliberato. È un motivo etico-politico, o più semplicemente di igiene mentale. È una condizione non sufficiente - sottolineo il «non» - ma indispensabile. È l’unico modo che riesca a immaginare per liberarsi dalla zavorra di certi personaggi. Tuttavia, è specialmente l’unico modo per iniziare un processo di liberazione dall’istituzionalismo, dall’elettoralismo, dal leaderismo e dal partitismo, con tutto il retroterra storico, psicopatologico e ideologico connesso. Cosa traumatica e con i suoi costi, ma insomma… bisogna pur rendersi conto che in Italia quella cosa che si dice «sinistra» si è autodistrutta e che così com’è in futuro non ha nessuna possibilità di svolgere un qualche ruolo positivo di rilievo storico.
Sono perfettamente consapevole di quanto un’idea del genere sia percepita come assurda, suicida, minoritaria, estremista, idiota ecc. Conosco perfettamente le obiezioni, magari fatte citando Lenin (ricordo con affetto una lezione del genere - L’estremismo, malattia infantile del comunismo in mano - fatta da un vecchio compagno del Pci quando avevo quattordici o quindic’anni). E qui sta il punto: quando si trasforma una tattica - la partecipazione alle elezioni, la presenza in parlamento - in una strategia, un mezzo in un fine; quando ci si rifiuta di prendere anche solo in considerazione la possibilità - dico: la possibilità - di non partecipare alle elezioni, la frittata è fatta, il cervello è fritto.
La debole speranza di chi scrive è che si faccia largo l’idea che non sono le elezioni (di sicuro non più in regime postdemocratico) il contesto entro il quale può formarsi una soggettività anticapitalistica. E che non si tratta semplicemente di fare un bel programma o di «rimboccarsi le maniche» e darsi da fare per rafforzare la militanza nel territorio. È diventata irrinunciabile una riflessione sulla storia e la cultura di una sinistra che, per come è diventata, non ha più alcuna possibilità di svolgere in futuro un ruolo significativo nella formazione e nella mobilitazione delle nuove generazioni. È triste dirlo, ma in Italia ormai ciò che un tempo si definiva come «sinistra» è fuori dalla storia. Se qualcuno proporrà ancora di partecipare alle prossime elezioni politiche, ciò sarà soltanto frutto di una coazione a ripetere oppure - come è più probabile - di opportunismo personale. E poiché oggi si diventa parlamentari più facilmente con il M5S, lì si indirizzeranno le ambizioni personali. Le 15.000 persone regolarmente iscritte al Movimento di Grillo che hanno posto la propria autocandidatura sono lì a dimostrarlo: un movimento di massa di elettoralismo personalistico… Se non si vuole riflettere sulla mia interpretazione dei dati postelettorali, lo si faccia almeno su questo dato numerico preelettorale.
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