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sabato 29 agosto 2015

YOUTH - LA GIOVINEZZA (Paolo Sorrentino, 2015), di Pino Bertelli

L'età dell'oro. Gli uomini vivevano allora come gli dèi, col cuore libero da preoccupazioni, lontano dal lavoro e dal dolore. La triste vecchiaia non andava a visitarli e, mantenendo per tutta la vita il vigore dei piedi e delle mani, assaporavano la gioia nei banchetti al riparo da ogni male. Morivano come ci si addormenta, vinti dal sonno. Tutti i beni appartenevano loro. La fertile campagna offriva spontaneamente un cibo abbondante, di cui godevano a piacimento.
(Esiodo)

[…] Nel cinema italiano i geni si sprecano… i velinari dei giornali, piccoli esegeti/analfabeti della domanda televisiva, ne inventano un paio a stagione… l'industria dello spettacolo (cinema, televisione, web, giocattoli, vestiti, calcio, musica, acciaio, armi, droga… che sostiene perfino cuochi imbecilli che fanno i "duri" con un sacchetto di patatine fritte in mano) si esibisce in un mondo di desolazione culturale dove i politici sguazzano come sorci su cumuli di spazzatura, per un pugno di dollari. «Sfortunati i popoli che hanno bisogno di eroi» (Brecht), o di stupidi per credere che una patria non sia una scuola di tiranni e il prontuario delle fedi un casellario della rassegnazione. Politica e repressione sono sinonimi.
Youth - La giovinezza. Due vecchi amici ottantenni, un compositore di musica, Fred (Michael Caine), che non ha nessuna voglia di tornare a dirigere un'orchestra, nemmeno per la regina d'Inghilterra, e un regista, Mick (Harvey Keitel), che lavora al prossimo film, L'ultimo giorno della vita, sono in un hotel per ricchi sulle Alpi svizzere… lo stesso (sembra) dove Thomas Mann scrisse La montagna incantata. I figli dei due amici sono sposati, ma il ragazzo abbandona la moglie per seguire una popstar. Tra gli ospiti c'è un giovane attore che fa Hitler, un ex calciatore obeso che fa Maradona (sulla schiena si vede il tatuaggio di un Marx da piscina) e in chiusa piomba nell'hotel la vecchia attrice di Mick, Brenda Morel (Jane Fonda), mummificata nel trucco e nella fissità dei rifacimenti chirurgici (che tuttavia pronuncia la sola frase degna di nota del film: «Questa stronzata del cinema finisce, la vita va avanti»). Il nudo statuario di Miss Universo (Mădălina Diana Ghenea) che fa il bagno come un coccodrillo di velluto è l'icona che resta di Youth - La giovinezza. Che non è solo brutto, male recitato e piuttosto inutile… è un'operazione mercantile priva di contenuti e senza sostanza. La banalità strutturale che determina il film è la stessa che l'annienta.
Il melodramma che sonnecchia per tutto il film di Sorrentino fuoriesce in piena noia quando la gioia di vivere si spegne in Mick, che si butta dal balcone dell'albergo, ma prima dice all'amico di vivere, non di sopravvivere! Ci prendono i conati di vomito! Cominciamo a stare peggio sulla poltroncina! Poi il finale da centro commerciale! L'apatia di Fred vince su tutto… ritrova la propria redenzione interiore e va a Venezia, nella clinica dove la moglie è in stato catatonico… le porta un fiore… infine vola a Londra per dirigere la sua musica davanti alla regina… il canto della soprano sudcoreana Sumi Jo chiude il film… la sequenza è lunga e Caine/Fred alza e abbassa le braccia così tante volte che non sembra credere nemmeno lui a ciò che è chiamato a fare. Quando arrivano i titoli di coda si respira una sorta di liberazione e ci viene da pensare: l'ambizione è un veleno che fa di colui che ne abusa un demente in potenza.
Come si addice alle grandi produzioni internazionali, Youth - La giovinezza è girato in inglese… pronto ad essere venduto in tutti i palinsesti televisivi del pianeta… 118 minuti di spietata banalità creativa contrabbandata come sapienza cinematografica… Sorrentino firma la regia e la sceneggiatura… le inquadrature, i movimenti di macchina, la figurazione strutturale, pur nella sovrabbondanza segnica, sono in qualche modo pregevoli, ma i buchi di sceneggiatura col passare della visione diventano voragini espressive… gente che va, che viene, che sparisce, che non si sa cosa ci fa in quel posto di acque e massaggi… questo stato di cose ci ricorda le conventicole del Pd nei ritiri spirituali, dove si prendono decisioni su quale camorrista far eleggere a presidente di una regione. Il crimine in piena gloria consolida la paura del tiranno che ispira.

giovedì 27 agosto 2015

GUATEMALA: DE CÓMO LA CORRUPCIÓN CONTRIBUYE A LA FALTA DE DESARROLLO, por Marcelo Colussi

El caso de la niñez y adolescencia

© Danilo Valladares
La situación de la niñez y adolescencia en Guatemala es mala. Y peor aún: con los datos actualmente disponibles, podríamos atrevernos a decir que el futuro no se ve mucho mejor. ¿Habrá que seguir esperando que el Estado cumpla con sus compromisos de atender, no digamos ya priorizar, a estos grupos? ¿Podremos hacer mucho al respecto? Tal vez por allí vamos mal, porque este Estado, tal como está dada la situación (Estado oligárquico históricamente de espaldas al pueblo), no va a cumplir nunca con sus compromisos. Pero se complica más aún la situación cuando vemos cómo ese Estado es manejado por administraciones corruptas que saquean los fondos públicos en su propio provecho.
Tomar la situación de la niñez y la adolescencia aislando ambos grupos puede ser un callejón sin salida. Es decir: estos grupos etáreos -mayoritarios en relación al total nacional de la población para el caso de Guatemala- son parte de un todo complejo como es la sociedad en su conjunto, sociedad empobrecida y dependiente de un capitalismo global donde la prioridad, por cierto, no son niñas, niños y adolescentes.
Ellas y ellos son un eslabón más de una cadena; eslabón importante, sin dudas, pero que no debería verse por separado. Lo que les sucede a estos conglomerados, en tanto grupo particular, tiene valor de expresión sintomática. La suerte que corren es, en definitiva, la misma suerte de la sociedad en su conjunto. Si son olvidados, excluidos y postergados es porque esas son las dinámicas que atraviesan la sociedad. Niñez y adolescencia son una muestra de esas tendencias, de esas asimetrías: hay exclusión, hay postergación de numerosos grupos sociales, hay olvido histórico de las grandes mayorías.

lunedì 24 agosto 2015

COMITATI DI FABBRICA E SOVIET NELLA RIVOLUZIONE RUSSA, di Roberto Massari

Riunione del soviet di Pietrogrado, 1917
1. La nascita dei comitati di fabbrica

John Reed assistette entuasiasta agli inizi della rivoluzione russa del 1917. Morì nel 1920, in tempo per intuire qualcosa del processo degenerativo in corso, ma senza immaginare quale mostruosità politica stesse prendendo forma storica nella fase declinante di quella grande rivoluzione. Con la sua celebre cronaca egli è entrato a far parte, a sua volta, di quella vicenda; il suo nome ha assunto una rinomanza quasi leggendaria nella tradizione del «giornalismo rivoluzionario» e, grazie al giudizio favorevole che ne diede Lenin, il suo libro ha continuato a circolare nel movimento operaio internazionale anche durante i decenni bui dello stalinismo.
Ebbene, dal momento che la scarsa documentazione sul ruolo e l'importanza dei comitati di fabbrica1 [cdf] è tutta successiva agli eventi del biennio 1917-18 - e quindi inevitabilmente intrisa di deformazioni, sia per l'entusiasmo delle correnti a favore, sia per la malafede di chi contribuì a liquidare quella grande esperienza di democrazia operaia - la testimonianza di John Reed può avere un valore emblematico per iniziare la nostra riflessione.
Nel primo capitolo di Dieci giorni che sconvolsero il mondo, parlando delle premesse della rivoluzione d'Ottobre, quando - per usare le sue suggestive parole - «la grande Russia partoriva, nel dolore, un mondo nuovo», Reed tratteggia i caratteri e gli strumenti delle forze sociali in movimento: i soviet, le cooperative, i sindacati, gli zemstvo, i congressi delle nazionalità, i contadini, i partiti politici, i giornali finalmente senza bavaglio, le case editrici libere, i camerieri che rifiutavano le mance ecc.: tutto ciò mentre
«dal fronte continuavano la loro lotta contro gli ufficiali e nei comitati imparavano ad autogovernarsi. Nelle fabbriche quelle incomparabili organizzazioni russe, che sono i consigli di fabbrica, acquistavano esperienza e forza e prendevano coscienza della propria missione storica di lotta contro l'antico ordine di cose»2.
Spesso confusi con i soviet o con gli organismi sindacali, i cdf avevano invece avuto una dinamica propria, non sempre realmente distinguibile con nettezza da quella dei soviet, soprattutto nella fase più avanzata della rivoluzione. Vediamo qualcuna di queste differenze.
Si può cominciare dalla data di nascita. Il primo soviet della storia era nato a Pietroburgo, nel corso della rivoluzione del 1905, spontaneamente e come sostituto di organismi di rappresentanza politica che la repressione zarista non aveva mai permesso. Nel soviet erano poi confluite le istanze economiche dei lavoratori, esigenze di democrazia ecc., ma la sua natura era stata essenzialmente politica, così come politica era stata la sua direzione (Trotsky come presidente, il partito menscevico ampiamente presente, i bolscevichi e altre formazioni presenti a loro volta, anche se in netta minoranza). La storia di quel primo «parlamento» popolare3 affondava nel fermento antizarista (vivace sin dalla fine del secolo precedente), nella svolta verso le fabbriche di una parte del vecchio terrorismo narodniko, nei vari tentativi compiuti per costruire organismi di rappresentanza più o meno ufficiali sui luoghi di lavoro.

giovedì 13 agosto 2015

MIA MADRE (Nanni Moretti, 2015), di Pino Bertelli

Siamo abbastanza chiaroveggenti da essere tentati di deporre le armi; nondimeno il riflesso della ribellione trionfa sui nostri dubbi; e benché potremmo diventare degli stoici perfetti, l'anarchico rimane desto in noi e si oppone alla nostra rassegnazione.
(E.M. Cioran)

I. LE CARNEVALATE DEI FESTIVAL DEL CINEMA E GLI ORSETTI LAVATORI DELLA CRITICA IN FRAC

L'amore per la verità, la gioia o la rivolta pura e semplice dell'ordine costituito non alberga nelle anime morte del cinema italiano. Di lodi sperticate su film non sempre pregevoli sono lastricate le platee (le storie) della macchina/cinema… la civiltà dello spettacolo, come sappiamo, poggia i propri deliri di onnipotenza non solo sulle guerre, sugli indici della Borsa o sul consenso generalizzato dei mercati globali, ma anche e soprattutto sulla dittatura mediatica (cinema, fotografia, internet, televisione, pubblicità, carta stampata…). Lo spettacolo è il compendio di tutte le forme alienate della merce, della politica, dei saperi, e determina i rapporti sociali. La società spettacolare riproduce la schizofrenia delle coscienze addomesticate e l'organizzazione dominante del caos trova il proprio statuto nel controllo dei cittadini, con il rafforzamento di apparati di polizia sempre più sofisticati. I sovversivi del desiderio devono saper tracciare sentieri dell'indignazione o alzare il conflitto a uno stadio più elevato, dove la rivoluzione o la critica radicale di tutti gli aspetti della vita quotidiana diventa un momento creativo, e dove la libertà dell'immaginario si trasforma nell'immaginario della libertà.
Il film di Nanni Moretti, Mia madre, tratta di cose serie, come gli ultimi giorni di vita di una madre, e l'impegno del regista che aderisce al racconto (con venature autobiografiche) è davvero encomiabile… il film però è brutto. A momenti anche di una banalità da fine del mondo, che farebbe pensare che non bisogna mai vedere per forza un film fino in fondo. Meglio una passeggiata sul mare con la pioggia sulla faccia, che affondare nell'intimità cine-televisiva del dolore. Naturalmente, la critica in frac e il pubblico dello spettacolare integrato (nella cultura da centri commerciali, che è la medesima delle buffonate elettorali) sono di diverso avviso. L'apprezzamento manierato della critica è quasi sgradevole… si cerca e si scrive del film di Moretti quello che non c'è… gli incassi vanno in cordata con gli elogi e i premi arriveranno dopo le carnevalate di Cannes e altri tappeti rossi… che bello! una manica di idioti parla di cinema! di vestiti griffati! di scarpe con i tacchi alti! di puttane rifatte! gli applausi si sprecano… e il cinema? Il cinema è morto nella noia come percezione dell'esistente. Pura merda.

giovedì 6 agosto 2015

ADDIO A ROBERT CONQUEST, di Andrea Furlan

Il 3 agosto 2015, nella città di Palo Alto in California, all'età di 98 anni, è scomparso il grande storico inglese Robert Conquest (nato nel Worcestershire il 15 luglio 1917, lo stesso anno della Rivoluzione che avrebbe poi studiato nelle sue tragiche conseguenze per il resto della vita).
Con i suoi numerosi saggi - in particolare quelli dedicati al tema dello stalinismo e dell'Unione Sovietica - e con la ricchezza di dati in essi contenuti, aveva dato un contributo fondamentale per la diffusione di uno spirito critico verso l'esperienza dell'Urss, contro la vulgata filostaliniana sostenuta da intellettuali compiacenti in vari Paesi del mondo.
Il merito storico che dobbiamo riconoscere a Conquest non è rappresentato unicamente dalla sua denuncia ultradocumentata dei crimini contro l'umanità compiuti dallo stalinismo - crimini che sono ormai riconosciuti da tutti o quasi tutti gli storici più seri che si occupano dello stalinismo e del Gulag - ma anche dalla lungimiranza con cui seppe prevedere la crisi inevitabile di quel sistema. E ciò perché seppe scavare a fondo nelle ragioni politiche che portarono alla trasformazione in controrivoluzione del processo rivoluzionario russo, partendo da un'analisi lucida (anche perché in gioventù era stato a sua volta membro del Partito comunista) delle prime scelte compiute dal Partito bolscevico al potere, quelle che spalancarono la porta alla distruzione del processo rivoluzionario e al successivo trionfo della burocrazia stalinista.

mercoledì 5 agosto 2015

VENEZUELA: LA HIPER CRISIS Y ESPACIOS CONVENCIONALES PARA LA LUCHA, por Carlos “Mara” Cumana (Ruptura/Utopía Tercer Camino)

Hoy como jamás había acontecido, la sociedad planetaria vive la más larga e indetenible crisis de todos los tiempos, producto de la formación económica social y política de tipo capitalista; esto es evidente y objetivo, más allá de la denominación y de la falsa caracterización del llamado capitalismo de bienestar social (que privó en Europa después de la Segunda Guerra mundial), en parte sustentada en sus orígenes en la llamada Ilustración; pero, en iguales términos, la “Utopía” refrendada en el llamado socialismo científico, como etapa previa a la sociedad sin estado y sin clases sociales: el Comunismo, que a la postre devino en el denominado Socialismo Real (también conocido como el capitalismo de estado). Dos elementos de un mismo fenómeno, y en permanente retroalimentación, con los mismos valores, teniendo como ancla y vehículo el llamado progreso.
Friedrich Nietzsche y Michel Foucault sostienen la tesis que la filosofía es la base de los estados modernos y siendo ésta la madre que dio parto a las ciencias en general (a lo largo de la experiencia humana, a través de la sistematización y en lo concreto, considerando tiempo y espacio, mediante el modelo científico, tecnológico y el modelo energético, utilizado de manera irracional); de manera general podemos decir que la misma dialéctica de la racionalidad privó en las dos guerras mundiales, además de los incontables conflictos regionales (que muy bien podríamos calificar de Tercera Guerra Mundial), con el objetivo del control mundial y con la presencia de las potencias imperialistas en aquellas áreas, ricas en energía y en biodiversidad. Lo del signo ideológico es lo meno importante, porque al final, cuando hace presencia la muchedumbre con su accionar, dejan las diferencias a un lado, y al decir del maestro Sun Tzu “si se encontraban juntos los pueblos de Yuch y del Wu embarcados en el mismo navío azotados despiadadamente por el oleaje llegarían a colaborar al unísono aún considerándose enemigos, exactamente lo mismo que la mano derecha colabora con la izquierda”.
El componente de la energía fósil incide de tal manera en el planeta, acabando con inmensos recursos naturales y con la biodiversidad, y en lo particular contaminando las fuentes hídricas indispensables para la vida: por lo tanto, es una retórica y sofisma de baja calidad hablar de crisis coyuntural; en verdad es todo lo contrario: estamos en presencia de una hipercrisis estructural que suma cualitativamente todo tipo de relaciones de producción conocidas, y que hoy se expresa mediante la llamada globalización.

domenica 2 agosto 2015

TECNOLOGÍA Y PODER, por Marcelo Colussi

Temo el día en que la tecnología sobrepase nuestra humanidad. El mundo solo tendrá una generación de perdidos/desconectados.
(Albert Einstein)

I

Desde la primera piedra que el primer homo habilis afiló hace dos millones y medio de años, la tecnología humana no ha parado de superarse. Y sin duda, no se detendrá jamás, porque justamente en ello consiste la esencia de nuestra especie: la búsqueda perpetua de lo nuevo. La tecnología, en definitiva, no es sino eso: la forma de desarrollar instrumentos que nos permitan aumentar nuestra capacidad natural, nuestro poder, de defendernos de lo hostil y desconocido. Es decir: la tecnología es la posibilidad de llevar a cabo esa búsqueda, de dejar atrás la indefensión natural descubriendo cosas nuevas. En eso, sin dudas, no hay límites: la búsqueda del poder como resguardo contra la finitud de origen es el sentido mismo de la vida. Desde la primera piedra afilada hasta el misil nuclear hay una línea común que nos conduce ininterrumpidamente como especie, llamémosla afán de poderío, intento por saltar los límites o fascinación por el saber y lo novedoso.
Los instrumentos de que nos valemos para esa búsqueda son interminables, cambiantes, sorprendentes. La historia de la humanidad es la historia de ese desarrollo; es decir: la historia del desarrollo de nuestras posibilidades de “hacer”. En definitiva, la palabra “tecnología” que hemos acuñado –tomándola del griego clásico: tecné– no significa sino eso: saber hacer, capacidad de operar, posibilidad de transformar.
Las tecnologías, por tanto, en tanto instrumentos, en tanto herramientas que nos permiten ese operar en el mundo, no son en sí mismas ni “buenas” ni “malas” (salvo excepciones muy puntuales sobre las que luego volveremos). Las tecnologías son las herramientas de que nos valemos para vivir; lo que las pone en marcha es el proyecto de vida en que se inscriben, el marco filosófico-político en que cobran sentido. La energía nuclear puede servir para alimentar la electricidad de una ciudad, o para hacerla volar por el aire con una bomba. Y la electricidad puede servir para salvar vidas (en un quirófano, por ejemplo), o para quitarla (con la silla eléctrica), o para torturar (con una picana). Está claro que, en sí mismos, los productos técnicos que la evolución de los seres humanos va obteniendo sirven en función de lo que se quiere hacer de ellos. El poder no está en la tecnología; sigue estando en las relaciones políticas que se establecen entre los grupos humanos.