CONTENUTI DEL BLOG

sabato 27 giugno 2015

GLI SCHIAVI DEL BURKINA FASO, di Pino Bertelli

Un reportage fotografico in forma di appello al Tribunale dei Diritti dell'Uomo contro il governo del Burkina Faso per violazione della dignità e della bellezza di uomini, donne e bambini…

Gli schiavi del Burkina Faso sono centinaia di persone che lavorano ai limiti della sopravvivenza nella cava di pietre di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso… la cava è in mano al malaffare… e bambini, donne, uomini ricevono pochi centesimi a cesto di pietre… la corruzione passa sotto silenzio e nessuno denuncia questo crimine contro gli ultimi della terra!
Il mio amico e maestro don Gallo diceva: «Il diritto della forza va combattuto con la forza del diritto!».
P.B.

SULL'ARTE DI STRISCIARE AD USO DEI CORTIGIANI DELLA FOTOGRAFIA

Un buon cortigiano non deve mai avere un'opinione personale ma solamente quella del padrone o del ministro, e deve saperla anticipare facendo ricorso alla sagacia; ciò presuppone un'esperienza consumata, una profonda conoscenza del cuore degli uomini. Un buon cortigiano non deve mai avere ragione, non è in nessun modo autorizzato ad essere più brillante del suo padrone o di colui che gli dispensa benevolenze, deve tenere ben presente che il Sovrano [Papa, Banchiere, Generale, Primo ministro] e più in generale l'uomo che sta al comando non ha mai torto.
[Paul Heinrich Dietrich, barone d'Holbach (1723-1789)]

I filosofi dionisiaci, che sovente sono di cattivo umore per i dolori millenari che il canagliume dei privilegiati infligge agli ultimi della terra (non solo nel mare di mezzo)… considerano (non a torto) il mestiere del fotografo pari a quello del cortigiano, stupido, vigliacco e infame! I fotografi del mondano riciclato (e tutta la razza di artisti serventi), come i cortigiani, praticano la condiscendenza, l'adulazione, la benevolenza in cambio di trenta denari… basta una passata televisiva o una mezza pagina sui giornali a grande tiratura (anche on-line)… il portfolio poi impresso nelle pagine delle riviste specializzate, commentato dallo storico o dal critico che lavora per le banche, fondazioni, assessorati, università o i beni culturali… è il naturale battesimo d'ingresso del fotografo a corte.

lunedì 22 giugno 2015

SOBRE LA MASACRE DE SAN JUAN Y LA GUERRILLA DE ÑANCAHUAZÚ, por María del Carmen Garcés

El 24 de junio se cumple el 48º aniversario de la Masacre de San Juan. La misma guarda una relación indirecta pero innegable con la guerrilla iniciada por Che en Bolivia siete meses antes, como se demuestra en el libro 1967: San Juan a sangre y fuego (Sevillano, La Paz 2008) de Carlos Soria Galvarro Terán, José Pimentel Castillo y Eduardo García Cárdenas, cuya primera parte fue publicada en el Cuaderno Nº 8 de la Fundación Ernesto Che Guevara (Massari Editore, Bolsena 2010).
Como homenaje a los mineros caídos y como aporte a la búsqueda de la verdad de aquella convulsionada fase de la historia boliviana, publicamos el presente artículo. [la Redacción]

La actitud de la izquierda latinoamericana y de los partidos políticos de izquierda (particularmente de los bolivianos) hacia la guerrilla comandada por Ernesto Guevara requiere de un detenido estudio.
La intención de este artículo es aclarar la relación existente entre la Masacre de San Juan y la guerrilla de Ñancahuazú, y la posición que ante este hecho tiene el Partido Comunista de Bolivia.
La noche de San Juan, el 24 de junio de cada año, es celebrada tradicionalmente en Bolivia. En los distritos mineros, los pueblos, el campo, las ciudades se reúnen las familias alrededor de una fogata alimentada con leños, ramas, hojas secas… En torno al fuego, jugando o bailando, bebiendo o mirando, permanecen hasta la madrugada de la que se conoce como la noche más fría del año. El ambiente es festivo, el cielo adquiere una tonalidad plomiza al llenarse de humo. En una noche como estas del año 1967, se produjo en los distritos mineros de Catavi y Siglo XX, una de las más sangrientas masacres de la historia política boliviana que se conoce con el nombre de Masacre de San Juan.
Faltando pocos minutos para las cinco de la mañana, tropas del Ejército con el apoyo de la Fuerza Aérea (que según declaraciones de Alfredo Ovando avanzaron obedeciendo órdenes de la presidencia de la República) atacaron sorpresivamente los distritos mineros de Catavi y Siglo XX, mientras los mineros y sus familias permanecían aún alrededor de las fogatas. El ataque causó 26 muertos y decenas de heridos.

domenica 21 giugno 2015

PRESENTAZIONE DELLA NUOVA EDIZIONE DEL LIBRO «GINO DONÉ. L'ITALIANO DEL GRANMA»

Giovedì 25 giugno 2015 - ore 21.30 - presso l'Anfiteatro "Ginestra Fabbrica della Conoscenza" di Montevarchi (AR), in via della Ginestra 21

sabato 20 giugno 2015

«DÍA MUNDIAL DEL REFUGIADO», por Nechi Dorado

La Asamblea General de las Naciones Unidas adoptó el 20 de junio como Día Mundial del Refugiado

En Argentina hoy se conmemora el Día de la Bandiera, en recordatorio al día del fallecimiento de su creador, Manuel Belgrano, y coincide este año con el “Día del Padre”, que se celebra siempre el tercer domingo de junio.
Fecha simbólica que puede ensamblarse o no dentro de lo estrictamente comercial, argumentando -y no sin razón- que la última es de esas fechas que el capitalismo supo instalar para incentivar el negocio del consumo. Personalmente prefiero visualizarlo como un día un poquito diferente, en el que se recuerda especialmente a quienes dejaron huellas indelebles en nuestras vidas, más allá de que no hiciera falta fecha precisa y mucho menos regalos.

Volviendo al recordatorio del primer párrafo diríamos que en este mundo unipolar -por ahora y aunque se van haciendo varias contorsiones interesantes para que no exista más hegemonía- el Día del Refugiado tiene una fortísima raíz con connotaciones de inhumanidad.
Es Refugiado o intenta serlo alguien que necesita salvar su vida, alguien que es perseguido, hostigado, en principio un/a estigmatizado. Una persona en riesgo de muerte.

martedì 16 giugno 2015

LA CRISI YEMENITA, di Pier Francesco Zarcone

LA GUERRA SAUDITA: FORZA O DEBOLEZZA?

In un articolo del 1º aprile scorso - «Yemen: cominciamo a capirci qualcosa», un primo approccio alla questione yemenita - avevamo ipotizzato l'intervento di una coalizione sunnita, sbagliando tuttavia sullo scenario in cui sarebbe avvenuta: cioè a dire, la ipotizzavamo col fittizio ruolo di peace keeping nel caso di mancata capacità di reazione dei ribelli Houthi contro l'attacco saudita. Invece, la coalizione sunnita si è formata ed è intervenuta in diretto appoggio all'azione militare di Riyad. Ma si è realizzata la prima delle previsioni fatte in quella sede, vale a dire la capacità Houthi di far fronte all'attacco saudita e magari di contrattaccare, dimostrando il carattere di "esercito da operetta" delle forze nemiche, a prescindere dalla tragedia delle vittime civili dei loro bombardamenti.
Gli Stati Uniti solo in apparenza stanno a guardare, poiché nei fatti aiutano l'azione saudita fornendo informazioni ricavate dai satelliti e collaborando sul piano logistico mediante la base aerea di Gibuti. Quindi Washington continua ad appoggiare il suo pericoloso alleato nella Penisola arabica in un'impresa priva di nessi con la strombazzata "lotta senza quartiere" all'Isis, e oltretutto suscettibile di farne estendere l'influenza a sud dei fronti siriano e iracheno.

giovedì 11 giugno 2015

I BAMBINI SANNO (Walter Veltroni, 2015), di Pino Bertelli

Anche i bambini cambiano, perché cambia il modo in cui li si è guardati e trattati nel corso dei secoli, fino a oggi. Dei bambini si può fare di tutto, li si può plasmare a piacere. L'hanno detto o pensato Hitler e Stalin e ci sono riusciti. Oggi non è diverso, e per i bambini questo non è certamente un tempo allegro: oggetto di mercato, coccolati e castrati in una parte del mondo, usati e massacrati in un'altra. Non è un tempo allegro neanche per gli adulti, figuriamoci per i bambini! Ma gli adulti hanno il potere e i bambini no. Adulti ossessivi e possessivi li manipolano e li corrompono, tra noi, mentre altrove altri adulti li manipolano o li ammazzano. […] I bambini non sanno quello che non si vuole che sappiano, però guardano, intuiscono, imitano. Non hanno strumenti per ribellarsi, o non li hanno ancora1.
(Goffredo Fofi)

Che bello! Walter Veltroni, smessi i panni piuttosto sporchi della politica sinistrorsa (si fa per dire!), è approdato al cinema… prima come critico (abbastanza ignorante di ciò che scrive sulla macchina/cinema), poi come regista (del tutto ignorante di ciò che affabula sullo schermo)… ha messo insieme un documentario tutto dio, patria e famiglia, I bambini sanno (2015). I militanti del Pd, l'agglomerato più idiota mai apparso sulla scena della politica italiana, genuflesso ai piedi di un citrullo che in un qualunque paese della terra poteva al massimo fare il pagliaccio in un circo di provincia, e non il primo ministro… accorrono in maniera moderata nei cinema e si commuovono davanti a un film che sembra più una pubblicità dei biscottini di grano transgenico che un documentario sulla situazione familiare/sociale nella quale versano i bambini al tempo della civiltà dello spettacolo.
Il compitino di Veltroni è di quelli slavati, tipico di chi non vuole indisporre nessuno e abbracciare l'intera società prona a tutte le schifezze, corruzioni, criminalità che acquistano voti e consenso nelle tornate elettorali… ma non era Mark Twain che diceva: «Se votare facesse qualche differenza non ce lo farebbero fare»?! I politici sono sempre in anticipo sui loro escrementi.
Naturalmente, alla prima romana le star non sono mancate… personaggi del cinema, ministri del governo Renzi, presidenti delle camere, capo dello stato… hanno applaudito la pellicola di Veltroni… l'avanspettacolo è di quelli da salotto televisivo… i grigi sepolcri della partitocrazia c'erano tutti… quello che mancava era la bellezza del vero: come sappiamo dall'antica Grecia, dove non c'è bellezza non c'è nemmeno giustizia. «Talvolta si vorrebbe essere cannibali, non tanto per il piacere di divorare il tale o il talaltro, quanto per quello di vomitarlo» (E.M. Cioran). L'umiliazione è l'ingiustizia che ogni cosca politica commette con il consenso dei propri elettori.

martedì 9 giugno 2015

ENRIQUECIMIENTO LÍCITO E ILÍCITO EN GUATEMALA: CONSIDERACIONES NECESARIAS, por Marcelo Colussi

En Guatemala, desde hace ya más de un mes se vive un clima de movilización social realmente rico, fresco, a todas luces revitalizador. La población –en principio clases medias citadinas, pero luego mucho más que eso: algunos sectores campesinos, trabajadores varios, estudiantes universitarios de distintas casas de estudios– han reaccionado a hechos de corrupción del gobierno que se han conocido en forma pública. La indignación, más allá que pueda haber manipulación de sectores interesados, es genuina, absolutamente espontánea. Las marchas de protestas nacen de la honesta irritación ante los abusos.
Las grandes mayorías populares, producto de la sangrienta represión vivida durante la pasada guerra interna y de las brutales políticas de capitalismo salvaje de estas últimas décadas (neoliberalismo), han quedado desmotivadas, desmovilizadas. Es sano, esperanzador incluso, que ahora reaccionen.
¿Por qué se reacciona contra la corrupción? Se podría decir que la corrupción es una de las tantas facetas de una situación caótica, o más bien: injusta, profundamente injusta, que estructura a la sociedad guatemalteca. Guatemala, debe quedar claro, no es un país pobre; de hecho, es la primera economía de la región centroamericana y la decimoprimera de América Latina. En todo caso, es tremendamente inequitativa, asimétrica, que no es lo mismo que pobre. Un mínimo porcentaje (unas cuantas familias) concentran en forma abrumadora la riqueza nacional, en tanto el 53% de la población total vive por debajo de los límites de pobreza (2 dólares diarios, según el estándar establecido por Naciones Unidas). Casi la mitad de los trabajadores no cobra el salario mínimo –de por sí muy escaso–, mientras que en zona rural los trabajadores agrícolas en casi 90% no cobran el salario de ley. Por otra parte, ese sueldo mínimo apenas cubre la mitad de la cesta básica.

giovedì 4 giugno 2015

MARTIN BUBER E L'ANARCHISMO, di Pier Francesco Zarcone

Martin Buber
L'accostamento fra Martin Buber - filosofo di grande spiritualità e fortemente inserito nella religiosità ebraica - e l'anarchismo non è frutto di fantasia o di forzatura, bensì emerge dalla sua stessa opera: nel presente scritto si cerca di chiarire le ragioni di questo apparente ossimoro. Nella prima parte, per chiarezza, viene tracciato un sintetico quadro della complessità dell'anarchismo - oggi ridotto a realtà insignificante, con un ruolo solo testimoniale di un passato anche glorioso, ma ormai privo di incisiva presenza nelle lotte sociali e politiche; nella seconda parte vengono trattate le componenti anarchiche (non di matrice ebraica) a cui si deve la fusione fra spirito libertario e vita religiosa; la terza è dedicata all'ineludibile tema dei nessi fra Ebraismo e anarchismo; e infine si affronta in modo specifico il pensiero libertario di Martin Buber.
Preliminarmente è necessario bandire in modo assoluto l'identificazione dell'anarchia con il caos - ormai divenuta luogo comune, se non addirittura dogma, anche fra le persone di media cultura. La ragion d'essere dell'anarchismo, infatti, è l'approdo a un ordine naturale senza coazione dall'alto. Conseguentemente va del pari considerato frutto della propaganda avversa il fatto di considerare asociale o privo di senso etico l'anarchico in quanto tale.

UN APPROCCIO SINTETICO E CRITICO ALL'ANARCHISMO

A motivo della complessità del pensiero definibile anarchico, la cosa migliore sarebbe non dare una definizione di anarchismo. La stessa semantica del nome non aiuta affatto. «Anarchia» viene dal greco ed è parola composta da un α privativo e dalla radice αρχ- (arch), indicante comando; e infatti la troviamo nel verbo archiin1, «comandare» - ragion per cui generalmente la si traduce con «senza-comando», «senza-potere», «senza-autorità»; ma poiché la parola archí significa anche «principio» oppure «origine», anarchia finisce col significare «senza principio», «senza divinità», «senza dogmi». E l'anarchismo è il versante ideologico-programmatico-operativo con cui si vuole esprimere questi concetti. In senso politico fu usato per la prima volta - e negativamente - nel 1793 dal girondino Jacques Pierre Brissot per designare la corrente degli Arrabbiati, rivoluzionari radicali pronti alla critica di ogni autorità. Poi, nel 1840, Proudhon dette un significato positivo ad anarchia e anarchismo.

martedì 2 giugno 2015

L'ANTISPETTACOLO NELLA SOCIETÀ DELLO SPETTACOLO (Punto della Situazione n. 2) - 13 GIUGNO 2015

I situazionisti a Livorno, nella storica Galleria Peccolo: l'arte della rivoluzione nella rivoluzione dell'arte!