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mercoledì 29 febbraio 2012

LA GESTIONE POLITICA POSTDEMOCRATICA DELLA CRISI ECONOMICA. (Riflessioni su postdemocrazia e statalizzazione dei partiti della sinistra, 1), di Michele Nobile


1. Un esempio del processo decisionale postdemocratico: la garanzia del governo irlandese sulle banche.
Tra la sera del 29 e il primo mattino del 30 settembre 2008, giusto a due settimane dalla bancarotta della Lehman Brothers e dall’inizio del terremoto finanziario, il governo irlandese prese la decisione di offrire una garanzia pubblica su tutte le passività di tutte le banche del paese. L’urgenza era determinata dall’imminente tracollo della Anglo Irish Bank, che fu poi nazionalizzata a metà dicembre 2009.

Secondo il giornalista Simon Carswell che ne ha ricostruito la vicenda, quella fu «la più importante decisione politica presa da un governo irlandese» (1), tale da impegnarlo per l’equivalente di circa tre volte il prodotto interno e dieci volte il debito pubblico del momento. Iniziava così il processo di socializzazione dei costi del salvataggio del sistema finanziario privato dell’Irlanda, nonché dei creditori esteri, che ha ipotecato il futuro dell’intero paese, come sancito dall’accordo internazionale stipulato nel 2010. Più precisamente, ad essere ipotecati sono l’occupazione, i salari, le pensioni e i servizi pubblici dei comuni cittadini irlandesi, per molti anni a venire (2).
Nonostante la sua straordinaria importanza la decisione di garantire tutte le passività venne presa da un gruppo ristretto, in tutto una dozzina di persone: il primo ministro, il ministro delle finanze, l’attorney general, il governatore della banca centrale, alcuni alti funzionari; nelle stesse ore questo gruppo ebbe consultazioni con l’agenzia di rating Merrill Lynch e i massimi dirigenti (presidenti e Ceo) della Anglo Irish Bank e della Bank of Ireland. L’approvazione degli altri membri del governo venne ottenuta telefonicamente. Prima delle sei del mattino venivano informati il primo ministro del Lussemburgo, allora presidente del Eurogruppo, e il ministro delle finanze francese Christine Lagarde, a capo dell’Ecofin dell’Unione europea, ora direttore generale del Fmi. La decisione venne resa pubblica alle 6,45 e poi ratificata dal parlamento, con 124 voti a favore e 18 contrari: a favore votarono anche il principale partito d’opposizione, il Fine Gael, e il Sinn Féin, paladino dell’indipendenza irlandese.

Questo è solo un esempio di come, nelle moderne «democrazie rappresentative», decisioni politiche di grande impegno possano essere prese prescindendo dalla consultazione dei rappresentanti del «popolo (presunto) sovrano» e mettendo le istituzioni parlamentari di fronte a fatti compiuti e ad accordi internazionali che, si dice, non possono che essere accettati. Per quanto riguarda il processo decisionale si tratta del risultato della combinazione di due tendenze storiche, di lungo periodo.
Cronologicamente, la prima è quella della disciplina di partito nella sua applicazione ai gruppi parlamentari. Più degli altri, di essa erano specialmente orgogliosi i socialisti, almeno come ideale normativo: era uno dei modi di essere del partito «di massa» proletario opposto al partito parlamentare e borghese di notabili. L’esperienza storica dice però che la disciplina di partito può essere lo strumento attraverso il quale viene rovesciato il rapporto tra mezzi e fini: fu il senso sacrale della disciplina a far sì che il 4 agosto 1914 la frazione parlamentare socialdemocratica del Reichstag votasse all’unanimità i crediti di guerra. A favore votarono anche Karl Liebknecht, che presto divenne l’emblema della lotta alla guerra, e altri che nella riunione preliminare della frazione avevano espresso contrarietà e dubbi. 
La seconda tendenza emerse nella guerra mondiale, si consolidò durante la gestione politica della depressione degli anni Trenta e la guerra mondiale, e si sviluppò energicamente con la crescita delle funzioni economiche e sociali dello Stato nel corso del secondo dopoguerra: si tratta dello spostamento dei rapporti tra esecutivo (e apparati burocratici specializzati) e assemblee parlamentari a netto favore del primo e della dislocazione della formulazione, mediazione e decisione politica in sedi diverse da quelle elettive. Da notare che questo processo fu simultaneo all’età d’oro della moderna «democrazia rappresentativa», alla più frequente e lunga partecipazione dei partiti socialisti al governo, al riconoscimento formale dei diritti socioeconomici, all’estensione reale (benché ineguale) del welfare State.
Si può dunque dire che lo sviluppo della tendenza al dislocamento della decisione politica fuori delle istituzioni elettive e verso la burocrazia statale sia coeva a quella che appariva (e a molti ancora appare tale) come la «democratizzazione» politica e sociale dello Stato, da intendersi come l’introduzione in esso di aspetti non-capitalistici o protosocialisti. Ma che partiti e Stato si compenetrassero, con gravi effetti a lungo termine per la loro stessa identità e le istituzioni elettive, non era che il necessario complemento della funzionalità dell’interventismo statale alla riproduzione allargata del capitale; ragion per cui non deve stupire che lo stesso fenomeno di statalizzazione dei partiti (e dei sindacati) si sia poi volto contro i precedenti diritti sociali, quando sono mutate le condizioni dell’accumulazione del capitale.

venerdì 24 febbraio 2012

HASTA LA VICTORIA… (NO SIEMPRE), di Enzo Valls



Adesso Victoria sorride, ma fino a l’altro ieri piangeva a causa delle minacce ricevute da lei e da Osmar, il suo altrettanto giovane compagno, di essere sloggiati con la forza e portati in un’altra zona lontana parecchi chilometri, a vivere in capanne costruite dal Comune, ma incredibilmente più precarie di queste di lamiera, per le quali, tra l’altro, hanno pagato “una fortuna”. E il giorno del presunto “sfratto” è oggi. Ma, messi in allerta, ci siamo mossi per cercar di fermare il sopruso: concretamente siamo le quattro organizzazioni sociali che, insieme, da oltre un anno ci occupiamo di varie problematiche, tra le quali di quella abitazionale dei vicini di alcuni insediamenti della zona Nordest di Santa Fe (Argentina), quella più vicina alla Laguna Setúbal.
La problematica urbanistico-abitazionale di questa zona è molto varia e complessa, ma si può riassumere brevemente come un po’ dappertutto nel mondo: il valore (spesso praticamente nullo) dei terreni a ridosso delle città, man mano che la popolazione cresce esponenzialmente; la logica affaristica (con la complicità dello Stato, in questo caso comunale e provinciale) che cerca d’imporsi su quella sociale e nella stragrande maggioranza dei casi ci riesce. Così all’improvviso, i poveracci fino a ieri quasi invisibili, non hanno più dei problemi ma diventano loro il problema che impedisce alla città di “progredire” mediante la costruzione di bei quartieri residenziali, palazzi di venti piani e magari un bel porticciolo sportivo in riva alla laguna. Sono progetti che nella zona citata esistono, anche a livello comunale - in barba allo stesso Piano regolatore - ma che i funzionari comunali si affrettano a nascondere ogni volta che li interpelliamo, sfoderando contemporaneamente le facce più preoccupate che hanno per le sofferenze dei poveracci.
Victoria non ha ancora diciotto anni ma ha già due bambini. La loro capanna di lamiera è insediata su una fascia di “terra di nessuno”, praticamente tra una strada periferica polverosa e la cunetta a ridosso di terreni privati, bassi e quindi inondabili. Sopravvivono, come la stragrande maggioranza delle famiglie della zona, grazie al “cirujeo” (raccolta con improvvisati carretti dei rifiuti urbani, per selezionarli, separarli e venderli per pochi spiccioli). L’unico “lusso” che si possono permettere sono una moto e i loro cellulari. Senza di essi non avrebbero possibilità di chiamare o portare i bambini per una urgenza medica, oppure, come in questo caso, avvertire gli avvocati di una delle nostre quattro organizzazioni per capire come possono difendersi. Questo particolare del telefonino è bene sottolinearlo, per far capire quanto possa essere sbagliato e “piccolo borghese” - come si diceva una volta - il rifiuto tout court della tecnologia.
* * *
 È passata un’altra settimana. Per ora il pericolo di “sfratto” è stato sventato. È stato anche individuato il funzionario comunale che ha agito con la sola forza di una denuncia fatta da parte di alcuni benpensanti della zona per usurpazione di terreni. Lui dice che nessuno è stato minacciato, che soltanto è stato fatto sapere a questa giovane famiglia della denuncia in corso e che dovevano sloggiare. Naturalmente noi crediamo a Victoria, che adesso può sorridere a maggior ragione, anche se non siamo sicuri che, per quanto riguarda questa faccenda, possa farlo per molto tempo e che questa sia una vera “victoria”.

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mercoledì 22 febbraio 2012

MONDO ARABO IN RIVOLTA XXVII, di Pier Francesco Zarcone

Siria

Dal massacro all’interferenza straniera
La sempre più ingarbugliata situazione siriana attualmente si presta più alla cronaca che non a commentari con pretesa di andare - almeno un po’ - al di là del momento in cui vengono scritti. Tuttavia c’è un aspetto su cui vale la pena discutere anche ora: ci riferiamo al proiettarsi – sempre più consistente e palese - di interferenze straniere nella crisi siriana. Allo stato delle cose non può dirsi se questo porterà a interventi militari diretti (alla maniera libica), per quanto i droni statunitensi già abbiano cominciato a “vigilare”. Ci basti essere consapevoli del gravare su tutta l’area del Vicino Oriente della formazione delle premesse per innescare una serie di reazioni a catena, i cui beneficiari saranno solo determinati complessi militari/industriali, ma non certo gli interessi di lungo periodo delle rispettive potenze né tanto meno quelli delle popolazioni locali e del resto del mondo.
Il nucleo centrale che non rende agevole – in una prospettiva etica e politica - trattare la questione siriana non è difficile da esporre: oggi come oggi, dietro a una sollevazione popolare contro un regime tirannico (che ancora dispone di un certo seguito, e non solo militare) esistono movimenti di entità politico/religiose non ben definite e sicuramente con obiettivi eterogenei, talché c’è da pensare che, caduto al-Assād, tutto vada a finire nel peggiore dei modi, cioè o alla maniera libica o con una vittoria sul campo del radicalismo islamico. Inutile dire che in entrambi i casi le conseguenze sarebbero negative e, nel secondo di essi, devastanti.

martedì 21 febbraio 2012

IL FILM «ACAB» E LA VIOLENZA METROPOLITANA, di Roberto Massari

ACAB di Stefano Sollima (tratto dall’omonimo romanzo-inchiesta di Carlo Bonini – Einaudi 2009, sceneggiato da Daniele Cesarano, Barbara Petronio, Leonardo Valenti) ha molti meriti: non ultimo di aver posto all’attenzione del grande pubblico il tema della violenza istituzionale in maniera scoperta (brutale?) e di aver costretto ambienti tra loro distanti anni-luce a discutere dei contenuti del film. E ciò perché si sono sentiti chiamare in causa, per una ragione o per un’altra: dalla magistratura alle forze «di base» dell’apparato repressivo, dalle varie categorie vittime della violenza poliziesca alle varie categorie impegnate ad esercitare una violenza contropoliziesca o fine a se stessa, oltre al mondo della casta politica (sia pur marginalmente e non per il tema della violenza): tutti più o meno direttamente tirati in ballo.
Ed è proprio dei contenuti del film che mi accingo a discutere anch’io (nella seconda parte di questa presentazione), non tralasciando di premettere però una banalità che viene dimenticata spesso e volentieri da parte di chi non segue per ragioni professionali le vicende del cinema: e cioè che il giudizio su un qualsiasi film dev’essere in primo luogo fondato su una valutazione cinematografica, da intendersi nel senso pieno del termine. Deve cioè evidenziare i tratti salienti 1) del rapporto che viene proposto tra la forma espressiva caratteristica dello strumento cinema e i suoi contenuti, 2) del modo in cui si realizza la combinazione tra i vari elementi che compongono l’opera (dalla recitazione alla fotografia, dalla sceneggiatura alla musica, dall’ambientazione al sonoro ecc.), 3) della comunicazione che si potrà stabilire con il pubblico. Aggiungendo magari considerazioni specifiche che possono dipendere 4) dal contesto geoculturale in cui il film è stato prodotto e soprattutto 5) dal genere in cui esso si colloca: western, musical, commedia americana, giallo, fantascienza, animazione ecc. Il tutto con l’obiettivo di stabilire quali corde della nostra sensibilità o emotività il film riesce a far vibrare e quindi a che titolo lo si può considerare espressione artistica nel campo di quella specifica forma d’arte moderna, realmente contemporanea e sempre più futuribile che è per l’appunto il cinema (l’unica Musa - con l’eccezione anch’essa «vistosa» e visuale dell’Architettura - che sembra ancora godere di buona salute e non destinata ad entrare per ora in crisi epocale, a mio personale e poco modesto modo di vedere).
Alcuni critici sono andati a riscoprire nel film di Stefano Sollima i cromosomi trasmessi geneticamente dall’opera filmica del padre Sergio - il bravo confezionatore di film western negli anni del d.S.L. (dopo Sergio Leone), come l’indimenticabile Resa dei conti del 1967 - poi assorbito nei meandri della produzione cinetelevisiva. Magari sarà vero, ma in un senso per ora non evidente e tutto da dimostrare.

lunedì 20 febbraio 2012

UN PRIMO APPROCCIO ALLA CRISI GRECA, di Pier Francesco Zarcone


Crisi dolorosissima sul piano umano, complessa dal punto di vista tecnico/economico e complicata per quanto riguarda le possibilità e modalità di uscita. Questo aspetto è ovviamente il più importante dal punto di vista politico.

La scelta peggiore fatta dalla Grecia
Un osservatore esterno, che conosca un po’ la storia greca, a far tempo dalla rivolta protottocentesca contro il dominio ottomano, non dovrebbe avere molte difficoltà a concludere che in epoca contemporanea la peggiore scelta effettuata dai governanti greci è stata la decisione di aderire all’euro. E i motivi si sprecano.
Innanzi tutto la creazione di una moneta unica senza le necessarie e fondamentali premesse politico/istituzionali, senza i meccanismi monetari per la sua difesa, in più nel quadro dell’ossessione bilancistica del neoliberalismo e del timor panico (soprattutto tedesco) per qualsiasi spinta inflazionistica, è metaforicamente paragonabile a un edificio dalle fondamenta “così così” che abbia subìto una sopraelevazione di pesantezza rilevante. Gli scricchiolii saranno fisiologici e il finale crollo pure. Tutto questo era noto – basti ricordare gli ammonimenti inascoltati dell’ex Cancelliere tedesco Helmut Khol – ma evidentemente il mix fra interessi materiali e cecità ideologica era troppo forte per arrestarsi.

giovedì 16 febbraio 2012

Sul film A.C.A.B., di Antonio Marchi e Antonella Marazzi


ACAB è un pugno nello stomaco, dove l’uso della violenza sembra la normalità quotidiana, in un mondo in cui oppressori e oppressi si scambiano rapidamente i ruoli e vengono osservati da un punto di vista “umano”, che esclude pregiudizi e stereotipi, ma lascia fuori casi isolati di altrettanta barbarie, per “rese dei conti” assurde. Il film abbraccia quasi tutti i  problemi dei nostri giorni - dagli scioperi dei lavoratori, alla politica, passando per gli ultrà allo stadio fino agli immigrati, agli sgomberi dei nomadi - riuscendo a farci entrare nella parte non di semplici spettatori, ma di protagonisti, nella contesa a volte esasperata e spettacolare dello scontro: "tifoseria” di una o dell’altra parte, ci fa schierare (“dalla parte di chi ruba nei supermercati o di chi li ha costruiti rubando”?- De Gregori), mostrandoci la violenza per quello che è (sempre assurda) quando non ha sbocchi politici. Lo fa senza eccessivo compiacimento ed enfatizzando il fascino oscuro della divisa e delle simbologie che vi ruotano attorno.
In quel gesto irrefrenabile di picchiare duro c’è tutta la frustrazione e la cattiveria di un mestiere assurdo e incivile, ma c’è anche il disonore di una società capitalistico-borghese che trova più semplice risolvere i problemi a manganellate, piuttosto che affrontarli democraticamente. Inevitabile un comune senso di nausea, odio, intolleranza, nei confronti del celerino, ma anche delle istituzioni, politici, parlamento, Stato… che lo usano e lo sfruttano.
Il  celerino, protetto dall’uniforme, oltre che dallo Stato, è nel film una “macchina da guerra”, usato contro chiunque reclami qualcosa, non stia alle regole conformistiche della società, si trovi nel posto sbagliato (anche per caso), ma è abbandonato al suo destino di reietto quando reclama diritti e precipita nella parte dell'"oppresso”, con meraviglia, stupore e rabbia.
Nella sua spettacolarizzazione degli scontri con le tifoserie, il film tralascia però i casi isolati e poco si sofferma sul ruolo repressivo della forza armata dello Stato contro le manifestazioni operaie e studentesche, contro le proteste dei movimenti per la difesa dei diritti e del territorio. Lascia sgomenti e increduli, la brutalità di fatti vigliacchi e criminali che hanno portato alla morte giovani vite (Cucchi, Sarti, Frapporti ecc.) per un protagonismo di mestiere e di ordine (fascista) che ha nella divisa, più che nella "difesa" del cittadino, la sua maggior colpa. Di fronte alla criminale arroganza di quella divisa - che dovrebbe essere (ma quando mai?!) portata a rispetto dell’incolumità della persona che abbia o no commesso reato, ma che invece il più delle volte intimidisce, interroga, umilia, toglie la libertà, percuote e a volte ammazza - la ferita rimane aperta per sempre e l’oltraggio non può essere dimenticato.
ACAB ha il merito di ricordare episodi violenti e di poterli raccontare anche a distanza di tempo per quel sangue dimenticato, perché ancora le ferite sanguinano (...)
Antonio Marchi
* * *
Caro Antonio,
la tua quasi-recensione è bella e mi è piaciuta per la sua partecipazione accorata, il tuo sdegno, il tuo sguardo lucido. Mi ha fatto, credo, un quadro genuino e veritiero di ciò che esprime il film e, forse, del suo messaggio. Un film che, penso, non ho andrò a vedere, perchè non ne posso più di violenza, sia di quella cieca e irrazionale che nasce dalla disperazione di esistenze non consapevoli ( dei celerini e delle loro vittime arrabbiate), sia di quella cinica e razionale del sistema borghese che usa le forze dell'ordine come cieca massa di manovra contro tutte le sue opposizioni. E non ne posso più in generale della violenza sempre più cieca di un sistema mondiale basato sullo sfruttamento selvaggio e sul profitto, che devasta il pianeta e che sta distruggendo la terra in cui viviamo e la nostra stessa umanità. Non lo andrò a vedere non perchè creda che film come questo mandino messaggi sbagliati, ma perchè vedo così lucidamente la violenza montarci intorno che un film come questo non può aggiungere altro a ciò di cui sono crudamente consapevole. Grazie per le emozioni che hai voluto comunicarci. 
Antonella
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giovedì 9 febbraio 2012

LA RIVOLUZIONE DEL '900 E QUELLA DEI SOCIAL NETWORK



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martedì 7 febbraio 2012

PERCORSO E FINE DELLA VERTENZA SINDACALE AL VISCONTI PALACE HOTEL DI ROMA, di Andrea Furlan

La Direzione aziendale del Visconti Palace Hotel (noto albergo di Roma) il 18 novembre ha comunicato l'apertura della procedura di terziarizzazione dei servizi di facchinaggio, cameriere e guardaroba, che ha coinvolto 27 lavoratori su un totale di 75, alla Rsa e alla Filcams Cgil Regionale. L'apertura della procedura di terziarizzazione da parte dell'azienda è stata richiesta in relazione a quanto stabilito dall’articolo 276 della legge 30 del 2003 e dal recepimento di detta legge nel Contratto nazionale di lavoro (Ccnl) del Turismo e dal successivo rinnovo del Cit (Contratto Integrativo Territoriale) del Lazio. In conseguenza a tale decisione, i lavoratori del Visconti Palace Hotel, hanno risposto con 40 ore di sciopero a singhiozzo e con una giornata di mobilitazione con conseguente manifestazione che si è svolta di fronte alla struttura alberghiera.
(fotografia tratta da http://www.cinquegiorni.it/news.asp?id=5517 
La vertenza sindacale alla fine si è conclusa con un accordo che ha di fatto recepito la volontà aziendale di dare seguito al processo di terziarizzazione il quale, comunque, è avvenuto secondo quanto stabilito sul piano delle regole e delle tutele per i lavoratori, dal Cit del Turismo. In merito alle terziarizzazioni, il Cit obbliga le aziende che affidano servizi in appalto che in precedenza gestivano direttamente a mantenere la responsabilità in solido dei propri lavoratori ceduti. Per quanto riguarda invece le aziende appaltatrici, nei confronti dei lavoratori acquisiti esse devono garantire il mantenimento della stessa sede di lavoro e rispettare pedissequamente il Ccnl del Turismo; il premio di produzione contenuto nel Cit; pagare la quota per Sanimpresa e l'Ebtl (Ente bilaterale territoriale del turismo). Queste forme di tutela per i lavoratori, sono state il frutto del rinnovo del Cit avvenuto a Gennaio del 2005 che ha garantito ai lavoratori ceduti ad altre società in regime di appalto la possibilità di non perdere sul piano economico e normativo diritti e salario. Se da un lato i lavoratori non hanno voluto proseguire la lotta fino in fondo per impedire il consolidamento da parte dell'azienda dell'obbiettivo di liberarsi di una parte dei suoi lavoratori per trasformare i costi fissi in costi variabili, l'azione sindacale da essi messa in campo ha comunque pagato in termini di miglioramento dell'accordo sindacale.
Attraverso la trattativa, che si è svolta nella sede aziendale tra la Rsa e la Filcams Cgil da una parte e l'azienda e la Federalberghi Roma dall’altra, i lavoratori ex Visconti Palace Hotel sono riusciti ad ottenere condizioni di miglior favore che non erano previste dal Cit del Turismo. Infatti, i lavoratori hanno ottenuto il mantenimento integrale dell'organizzazione del lavoro vigente al Visconti Palace (turni, orari, ferie), l'assunzione di otto lavoratrici, che in precedenza avevano lavorato presso l'Hotel (con una cooperativa non in regola), a tempo determinato per un anno, con il preciso impegno da parte dell'azienda appaltatrice a trasformare alla fine dell'anno i contratti a termine in contratti a tempo indeterminato; il congelamento per i lavoratori ceduti in appalto degli scatti di anzianità, con maturazione dei nuovi scatti che si andranno a sommare a quelli acquisiti nel precedente rapporto di lavoro con l'azienda Visconti Palace, e il pagamento dell'indennità di preavviso per il licenziamento subito. D'altronde, di più era oggettivamente difficile ottenere, soprattutto quando in una singola vertenza sindacale si mette in discussione una legge dello Stato che consente alle aziende di cedere in appalto (outsourcing) servizi in precedenza gestiti direttamente.
Per far saltare definitivamente questa ignobile legge non può essere sufficiente lottare solamente azienda per azienda quando il problema si presenta. Contro questa autentica piaga normativa, che sta frantumando il settore, la Filcams Cgil deve porsi il problema almeno a livello nazionale recuperando sugli errori commessi nel passato come l'aver accettato nel rinnovo del Ccnl del Turismo del 2007 la possibilità per le aziende di cedere in appalto i servizi. Da questo punto di vista, a mio modesto parere, non ci sono alternative. O la legge viene messa in discussione dalle lotte dei lavoratori, oppure l'intero settore del Turismo italiano, soprattutto quello dei grandi alberghi, verrà travolto come sta oggettivamente già accadendo da ondate di terziarizzazioni di massa. Solamente nella Città eterna, fino ad ora vi sono state 23 strutture di grandi alberghi che hanno subito esternalizzazione di servizi attraverso accordi sindacali. Intere strutture alberghiere stanno subendo processi di spezzatino dove le aziende committenti, affidano a più aziende appaltatrici, la gestione dei servizi dell'albergo. Comunque, nei confronti delle terziarizzazioni si può ancora combattere su due fronti.
Il primo fronte è quello della lotta dei lavoratori e su questo piano sta alla Filcams Cgil organizzare una lotta su scala nazionale che blocchi il fenomeno. Il secondo, invece, è quello giuridico dove si deve porre la questione della genuinità dell'appalto. Su questo fronte la possibilità di far saltare l'appalto, soprattutto nelle aziende alberghiere, sono molte. Infatti, se la legge n. 276 da una parte garantisce alle aziende la possibilità di cedere a soggetti terzi parte dei servizi, norma però chiaramente come l'appalto deve funzionare.
In una struttura alberghiera, dove la promiscuità dei rapporti lavorativi tra i vari reparti dell'albergo è la condizione imprescindibile per far funzionare l'intero meccanismo del servizio al cliente, è fondamentale non determinare situazioni nelle quali gli ordini di servizio al personale esternalizzato continuino ad essere impartiti e organizzati dal personale della società committente. Nel caso in cui invece l'organizzazione del lavoro continua ad essere appannaggio dell'ente committente (cioè la quasi totalità dei casi), l'appalto perde la sua "genuinità" perché non è più rispettata la prerogativa definita dalla legge che stabilisce inequivocabilmente l'autonomia funzionale ed economica del soggetto appaltatore. Ora, in una struttura alberghiera tutto questo è molto difficile applicarlo perché l'appalto verrebbe a costare troppo e non sarebbe più conveniente sia per il soggetto committente (Visconti Palace) sia per la società appaltatrice. Partendo dalla situazione determinatasi al Visconti Palace, la Filcams Cgil deve porre la questione della genuinità dell'appalto in modo tale da invertire la tendenza delle terziarizzazioni nel settore alberghiero. Per quanto riguarda gli ex lavoratori del Visconti Palace hotel, essi sono assolutamente coscienti di come debba funzionare un appalto di servizi e la questione della genuinità o meno dell'appalto la porranno subito in discussione quanto prima possibile.

Andrea Furlan, 
ex Rsa del Visconti Palace

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