L’associazione Utopia Rossa lavora e lotta per l’unità dei movimenti rivoluzionari di tutto il mondo in una nuova internazionale: la Quinta. Al suo interno convivono felicemente – con un progetto internazionalista e princìpi di etica politica – persone di provenienza marxista e libertaria, anarcocomunista, situazionista, femminista, trotskista, guevarista, leninista, credente e atea, oltre a liberi pensatori. Non succedeva dai tempi della Prima internazionale.

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domenica 27 febbraio 2011

RISVEGLIO POLITICO IN NORDAFRICA (I), di Pier Francesco Zarcone

[Primo di una serie di articoli]                                                                                 

Finalmente in parte del mondo arabo sta accadendo quel che prima o poi doveva accadere. Nei mass media di maggior diffusione inviati speciali e opinionisti vanno ripetendo che in Tunisia, Egitto, Libia (ma anche Bahrein, Yemen ecc.) le situazioni sembravano sotto controllo da parte dei corrotti despoti locali e non ci si poteva aspettare che gli eventi d’improvviso sarebbero precipitati. Si tratta di una sonora banalità, per giunta infondata, poiché le sommosse e le rivoluzioni di rado scoppiano nel preciso momento in cui ce le aspettiamo; semmai quando esistono situazioni di “disagio” di massa, al limite della sopportazione (o oltre), si può solo nutrire la certezza (o la speranza) che prima o poi il popolo scenderà in piazza, determinato a non tornare alla vita quotidiana prima del radicale cambiamento delle cose. Di inatteso, quindi, non c’era nulla, al di là dell’ora X. Adesso ci si affanna a cercare  di capire cosa potrà avvenire nell’immediato. Al riguardo va detto che ogni ipotesi al momento può essere considerata - per l’appunto - ipotetica, essendo prematuro formulare alcunché di sicuro. Non solo per l’oggettiva fluidità degli eventi in corso, ma anche per le differenze che esistono fra i vari paesi in cui le masse sono scese in campo. Pur tuttavia qualche considerazione – prudenziale – può essere fatta, ragionando sull’esistente.
In primo luogo è importante il fatto che ci si trovi di fronte a rivolte popolari spontanee e massicce, innescate da fatti considerabili come la classica scintilla che dà fuoco al pagliaio. Questa spontaneità era inevitabile a motivo dell’estrema debolezza delle opposizioni politiche classiche in quei paesi. Ci si poteva attendere una rivolta islamista, che invece non c’è stata, e nemmeno si sono visti i radicali islamici mettersi alla testa del popolo in rivolta. Almeno allo stato degli atti. Il che può fare sorgere dubbi sulla incidenza attuale dei “fondamentalisti islamici radicali”. E hanno destato sensazione le immagini della cairota piazza Tahir in cui, negli ultimi giorni della rivolta egiziana, venivano agitati insieme il Corano e la croce copta.
Con ciò non si vuole certo affermare l’inesistenza del pericolo islamista. Semmai ci si chiede se non sia stato ipervalutato, in buona e/o cattiva fede, sia per come si sono sviluppati gli avvenimenti di questi giorni, sia per una considerazione che non pare aver goduto di spazio nei media: già quando alla fine del secolo scorso l’Algeria fu teatro di un’atroce mattanza islamista (a cui si aggiunse quella governativa), nel resto del Maghreb non si verificò nessun contagio significativo, né appoggi di rilievo ai jihadisti algerini. 
Al momento si potrebbe quindi parlare di un altro imbroglio diffuso dagli interessati difensori delle dittature arabe: cioè l’aut-aut che pone come sola alternativa a tali dittature l’estremismo islamista. Per come sono andate finora le cose non sembra che sia corretta una lettura degli avvenimenti alla luce della rivoluzione islamica dell’Iran. Ma c’è un “però”: è noto come nel corso degli eventi rivoluzionari spesso si verificano processi accelerati con l’esito di rendere egemoni minoranze prima poco considerate se queste, a differenza degli avversari, si sanno muovere interpretando le esigenze (almeno momentanee) delle masse. In atto, tuttavia, da queste masse non provengono istanze favorevoli a società radicalmente islamizzate. Anzi, in luogo della rivendicazione della sharía, abbiamo richieste di libertà democratiche e giustizia sociale. Sarà un caso che nelle società arabe in rivolta sia consistente la presenza di giovani acculturati e in fondo per vari aspetti inseriti anche nel mondo cultural/tecnologico dei giovani occidentali? Non ci vorrà molto tempo per capire se la domanda è giusta.
Inoltre va demistificata la definizione di “laici” per i regimi diretti da Ben Ali, Mubarak, Bouteflika ecc., se con quel termine si devono intendere regimi impegnati in riforme di struttura per la modernizzazione dei rispettivi paesi e per una maggiore giustizia sociale. Si è trattato invece di regimi tirannici e corrotti, funzionali alle esigenze politico/economiche dell’imperialismo, sostenuti dalla brutalità militare e da borghesie compradoras. E proprio per queste caratteristiche quei regimi avrebbero potuto rappresentare una manna per il radicalismo islamista e i vari jihadisti. Ma, come già detto, non sembra che queste correnti abbiano potuto trarre vantaggi significativi dai movimenti sociali in corso. Ciò, almeno, per il momento. Su questo punto invito a leggere – per il valore di radiografia dell’Egitto di Mubarak – il romanzo di ‘Ala al-Aswani, Palazzo Yacoubian.
Se attualmente mancano i segnali di un bis iraniano, tuttavia molto dipenderà dall’operato dei ceti politici locali e da come si “coniugheranno” con le intromissioni dell’imperialismo, che finora ha visto cadere ben tre dei suoi bastioni nell’Africa settentrionale. Ne cadranno altri? Ovvero, toccherà anche a Marocco e Algeria? Il Marocco sembrerebbe più stabile sul piano istituzionale, seppure non su quello governativo. Traduciamo: lì il popolo vuole il buon governo, ma la monarchia – che peraltro vanta la discendenza dal profeta Muhammad – non parrebbe a rischio. Per cui si tratta per ora di tenere la situazione sotto controllo. Un caso a parte – e di gran lunga più pericoloso – potrebbe essere l’Algeria, nei limiti in cui la società algerina non sia stata davvero decontaminata dal veleno islamista. Ma attualmente c’è scarsità di elementi valutativi.
Pericolosa è invece la situazione libica una volta che si arrivi all’abbattimento del regime dittatoriale che è stato spesso contrabbandato, anche a sinistra, come una rivoluzione antimperialistica e nazionalistica, ispirata dal libretto verde del Gheddafi-pensiero. Infatti il rischio che la Libia diventi una Somalia mediterranea non è del tutto infondato. Non tanto per ragioni religiose (almeno per ora), quanto perché è un mondo ancora fortemente tribalizzato in cui – pur essendo reale la tirannia del colonnello – lo Stato invece è debolissimo, per non dire evanescente. Qui ogni scenario è possibile, nell’eventuale assenza del formarsi di una leadership politica solida (che comunque avrà il suo da fare per costituire uno Stato libico). Un evento da annoverare nel campo delle possibilità è per esempio una secessione della Cirenaica, dalle implicazioni oggi non determinabili. 
Dicevamo prima della persistente fluidità degli avvenimenti in corso in Nordafrica, per il semplice fatto che vale sempre il principio per cui abbattere un dittatore non significa instaurazione automatica di regimi di libertà e giustizia. Infatti su questo versante non è chiaro quali saranno gli esiti. In Egitto sono chiaramente i militari in posizione egemone, come è stato dalla caduta della monarchia nei primi anni ’50; e il giorno 18 febbraio circa due milioni di persone hanno manifestato a piazza Tahir sollecitando riforme democratiche tra cui la fine dello stato di emergenza, la liberazione dei prigionieri politici e la formazione di un governo provvisorio più affidabile.
In Tunisia non sono finiti gli scontri di piazza. Volendo fare il punto della situazione – o almeno cercando di farlo – va rilevato che se per rivoluzione politica e sociale s’intende l’abbattimento del ceto dominante (politico ed economico), allora si è in presenza di una fase solo potenzialmente prerivoluzionaria: ma non è detto che si passi alla vera e propria fase rivoluzionaria. È stata abbattuta la parte più putrida dei regimi di Tunisi e del Cairo; ma solo quella. Abbattere il resto dell’edificio non sarà per nulla facile, in mancanza di un progetto che agglutini le masse. E mettiamo poi, tra i fattori di costo, il ruolo degli interessi dell’imperialismo (statunitense, europeo e, soprattutto in Libia, anche italiano). Potrà ancora accadere tutto e il contrario di tutto, tanto più che i ribelli del Nordafrica sono soli con se stessi, stante la sostanziale ostilità del “primo mondo” all’avvento di democrazie popolari nel sud del Mediterraneo. 
In queste brevi note ci siamo limitati a parlare solo della parte nordafricana del mondo arabo, rimandando a un successivo intervento i casi della parte asiatica. Qui, infatti – e a prescindere dai problemi del regime degli ayatollah in Iran – è in corso anche una fase ulteriore della “riscossa degli sciiti” contro i musulmani sunniti (che tanto confratelli non sono), non solo nella “Mezzaluna fertile”, ma anche nella penisola araba.

sabato 26 febbraio 2011

CUBA 2011: Año de la economía… de mercado, por Roberto Massari

Publicamos nuevamente este documento con algunas pequeñas correcciones efectuadas por su autor.


EN ESPAÑOL

CUBA 2011: Año de la economía… de mercado
por Roberto Massari
(diciembre de 2010)

El sábado 18 de diciembre de 2010 tuvo lugar la reunión nacional (Italia) de Utopia Rossa dedicada al análisis de la Cuba actual en vistas de la convocación al VI Congreso del PC cubano a realizarse en abril de 2011.
[Es necesario recordar que los precedentes congresos se han llevado a cabo a intervalos irregulares desde la fundación en 1965: el Iº Congreso en 1975, el IIº en 1980, el IIIº en 1986, el IVº en 1991 y el Vº en 1997. Todos los congresos han simplemente ratificado decisiones ya tomadas por la dirigencia y en ningún congreso fueron llevadas a votación propuestas de minoría ya que no fueron presentadas.]
Introdujo el debate Roberto Massari con un amplio informe que hizo referencia a las líneas generales ya escritas por él mismo en junio de 1975 (y publicadas de nuevo recientemente). Aquel análisis, según Massari, ha sido confirmado por toda la historia sucesiva de Cuba y ha demostrado su ininterrumpida validez hasta el momento actual. Hoy, sin embargo, son necesarias algunas rectificaciones sustanciales, sobre las cuales el informe hizo hincapié en forma detallada y de las cuales aquí se presenta solamente una breve síntesis.
Elaborado en pleno proceso de sovietización de la Isla (es decir en los años en que se producía el retorno al monocultivo de la caña de azúcar, signado por una nueva monodependencia, esta vez de la Urss), el análisis de 1975 afirmaba que entre 1967 y 1968 se había concluido un proceso de gran inestabilidad y efervescencia política, en el cual actuaron distintas tendencias fuertemente nacionalistas, entre las cuales había emergido una corriente subjetivamente revolucionaria, de orientación internacionalista, históricamente identificada con Ernesto Guevara (y sostenida por el mismo Fidel Castro en algunos períodos). Después de la partida del Che, el abandono por parte del gobierno de sus proyectos de industrialización, la derrota de su modelo de construcción del socialismo y su muerte en Bolivia, la conducción castrista había buscado una integración creciente - política, económica y militar - con el bloque soviético, entrando a formar parte del mismo, a pesar de sus orígenes antiestalinistas y del carácter cada vez más abiertamente contrarrevolucionario del grupo dirigente brezneviano. A partir de la fecha simbólica de la aprobación de la invasión a Checoslovaquia (agosto-septiembre de 1968) y del sucesivo fracaso de la zafra de los «diez millones» de toneladas (1970) en Cuba quedó instalado definitivamente un régimen que con terminología clásica fue definido por nosotros como «centrista burocrático», en el contexto de un bloqueo del proceso de transición al socialismo que luego se reveló irreversible. Se trataba de una definición característica de la corriente internacional a la cual pertenecía Massari (Fmr) y que desgraciadamente no fue compartida oficialmente por ninguna otra corriente internacional, a causa de la adhesión al maoísmo de parte de algunos o al filosovietismo de otros, además de algunas variantes apologéticas hacia el castrismo. Aquel centrismo burocrático sufrió procesos involutivos cada vez más acentuados y con el tiempo se hubiera transformado en una dictadura burocrática, como en los demás países del Came, si no hubiese sobrevenido la crisis de la Urss a fines de la década del 80.
Con el retiro de los soviéticos de Cuba y el fin de la monodependencia, la economía basada en el monocultivo de la caña de azúcar entró en crisis y el centrismo burocrático se vio obligado a tomar en consideración el cambio de contexto internacional y los graves problemas de orden económico: el período especial, una suerte de «comunismo de guerra» caribeño.
El informe de Massari reconstruyó aquel período de importancia fundamental para comprender los cambios actuales en Cuba, recalcando especialmente las «reformas» efectuadas entre 1993 y 1996: legalización del dólar; fin del monopolio estatal de mercado externo, con apertura hacia las inversiones extranjeras europeas, canadienses y latinoamericanas; regreso a la iniciativa privada (trabajo por cuenta propia, que había desaparecido en marzo de 1968); transformación de las granjas estatales en cooperativas; apertura de los mercados agropecuarios (libre mercado campesino); implementación de un sistema fiscal; aumento de los precios al consumidor; crecimiento controlado de la desocupación con paralela disminución de los subsidios; tolerancia hacia el crecimiento exagerado del mercado negro; disminución de las inversiones en la zafra y aumento del turismo; creciente penetración del capital extranjero en el turismo, así como en las prospecciones petrolíferas, mineras (de níquel en primer lugar), en telecomunicaciones, edilicia, sector textil, tabaco y cítricos (sobre todo con Israel); «adopción» de un triple sistema monetario (peso, dólar y peso convertible).
El informe ha subrayado las «reformas» del período 1993-1996 para dejar en claro que las actuales «reformas» (propuestas en el documento para el VI congreso, «Proyecto de lineamientos de política económica y social», de 32 páginas y 291 artículos) no representan nada de nuevo respecto al pasado en cuanto a contenidos. Es más: la tendencia actual parecería ser el natural desarrollo del rumbo tomado a principios de la década del 90 bajo el influjo del «período especial» y el riesgo de la caída del régimen luego del fin de la Urss.
Es necesario decir que entonces, como ahora, el gobierno cubano no trató jamás de involucrar a los trabajadores en los procesos de decisión y de realización de tales «reformas». Ningún rol fue dado a los sindicatos, no hubo ninguna apertura a la discusión pública (que implica espacio para el disenso), en el partido o en la prensa, ninguna tentativa de dar vida a organismos de movilización desde abajo en los cuales el pueblo pudiera decidir modos y tiempos de los sacrificios a cumplir. La ausencia de participación de los directos interesados fue inevitablemente acompañada por un recrudecimiento de la represión del disenso (de derecha o de izquierda), el sofocamiento  de la democracia en las organizaciones políticas y sociales, en la juventud estudiantil y en todos los niveles del aparato estatal. Se repetía en esto la experiencia negativa de la Nep, la cual, a la vez que  concedía aperturas a la penetración del capitalismo, destruía todo residuo de democracia en el régimen de los soviet.
Entre el sistema económico basado en las «reformas» de 1993-1996 y las propuestas en el documento congresual hay, sin embargo, algunas diferencias importantes, sobre las cuales es necesario hacer hincapié. Podrían ser consideradas diferencias cuantitativas, ya que en aquel momento el proceso de apertura al capital extranjero y de cortes al estado social recién comenzaba, mientras que ahora alcanza a grandes sectores de la economía y a millones de trabajadores. Pero en una isla pequeña como Cuba, carente de recursos naturales importantes, sin ninguna fuerza competitiva en el mercado internacional y con una inestabilidad económica que es ya crónica, adquieren una fuerte significación cualitativa.
Utilizando fuentes de diferentes proveniencias, el informe describió la presencia del capital extranjero en el sector del turismo, demostrando que, aunque en términos cuantitativos (porcentajes) el control mayoritario de las empresas pareciera estar todavía en manos del Estado cubano, en realidad, en términos cualitativos el control está ya en manos capitalistas, de específicas compañías multinacionales radicadas en países imperialistas. Estas dominan en forma directa e indirecta (corrupción incluida) las principales actividades turísticas cubanas, al tener la posibilidad de administrar el flujo turístico desde el exterior (agencias, líneas aéreas, publicidad), de garantizar servicios gastronómicos y hoteleros de calidad, de garantizar suministros indispensables (por ejemplo para el mantenimiento de los hoteles) y, sobre todo, al disponer de fuentes de crédito, recursos financieros y know-how, herramientas propagandísticas etc. El turismo, que no es un medio de producción sino una forma híbrida de explotación del ambiente en términos naturales y culturales en la cual confluyen las más variadas actividades económicas, se ha vuelto, sin embargo, la principal fuente de rédito para Cuba. Pues bien, el capital extranjero detenta el control esencial de la misma y, por si fuera poco, se trata de un control que se irradia gradualmente hacia otros sectores de la economía.
Entre las numerosas cifras citadas por Massari, se destaca que Cuba es un país fundamentalmente agrícola, que importa más del 50% de sus necesidades alimenticias (más del 70% corresponde al alimento principal: el arroz), que sus exportaciones van, en orden de importancia, hacia China, Canadá, España y Holanda y sus importaciones provienen de Venezuela (30%), China, España y EE.UU. (6%).
En tal contexto adquieren un valor particular las medidas propuestas por el documento congresual, porque muestran con extremada claridad la voluntad de parte del gobierno de acelerar todas las tendencias de apertura al capitalismo iniciadas a principios de la década del 90.
Los 291 artículos del documento congresual son en su mayor parte una lista bastante detallada de puros y simples anhelos, es decir de aquello que se considera necesario hacer en Cuba en los diferentes sectores de la economía pero que no será posible hacer. En sí mismos no tienen mucho significado, inclusive porque el pueblo cubano está acostumbrado desde hace décadas a escuchar cuántas cosas hermosas se harán, debiendo luego afrontar la dramática realidad cotidiana. En el documento, por lo demás, del pueblo no se habla en ningún momento: no está previsto que el mismo actúe como sujeto activo y consciente en este proceso de creciente transformación capitalista de la economía.
Algunos (pocos) artículos, sin embargo, son muy concretos y no caben dudas de que el gobierno tratará de llevarlos a la práctica. He aquí los más significativos: art. 19, vinculación de los salarios a la productividad; art. 23, autonomía de decisión de las empresas en el establecimiento de los precios y las tarifas de los servicios (justamente el principio contra el cual había combatido duramente el Che en la época del debate económico de 1963-1964); art. 27, venta directa al público de parte de las cooperativas agrícolas sin intermediación estatal; art. 49, criterios de productividad (ya no más sociales) para la concesión de créditos y facilitaciones a las empresas; art. 51, apertura de crédito de parte del sistema bancario estatal hacia sectores de economía no estatal (privada); art. 54, postergación de la unificación monetaria a cuando se verifiquen las condiciones económicas adecuadas (que es como decir para las calendas griegas); art. 59, 61, 132, cortes drásticos de los gastos sociales, eliminación de los subsidios a la población más necesitada; art. 65, 85, 86, 88, pago de la deuda externa en forma «estricta y rigurosa» (terminan las altisonantes proclamas de Fidel Castro sobre el no pago de la deuda externa, ya que si se pretende acceder a nuevos créditos es necesario pagar los anteriores, como bien lo saben los gobiernos de Brasil, Argentina etc.); art. 72, 89, búsqueda de instancias de colaboración («asociación») y apertura creciente al capital extranjero en los sectores más dinámicos de la economía; art. 103, 104, hacer pagar por lo menos los costos de la solidaridad brindada a otros países; art. 115, sistema de premios y penalidades vinculados a la productividad del trabajo en empresas; art. 136, 142, fin de los subsidios (becas) a trabajadores, en base al principio que quien quiera estudiar deberá hacerlo en su tiempo libre y según sus propias posibilidades económicas; art. 152, transferencia de las actividades culturales, en lo posible, del sector público al sector privado; art. 167, utilización de criterios monetarios y mercantiles en las relaciones económicas, entendidas como un «nuevo criterio de gestión»; art. 169, creciente independencia de las cooperativas respecto al Estado; art. 177, ley de la oferta y la demanda para el establecimiento de los precios de los productos agrícolas; art. 184, inversiones estatales con criterios de rentabilidad y no sociales.
Y por último aquellos artículos que más han llamado la atención de los medios (y de los trabajadores cubanos): art. 158, ampliación del trabajo privado (por cuenta propia) con correspondiente pago de impuestos; art. 159, despido masivo de una parte de la mano de obra superflua (calculada en 3,5 millones, con 1,3 millones de despidos a graduar en el tiempo, realizándose 500.000 inmediatamente y asegurando a los despedidos solamente 5 meses de poco más de la mitad del sueldo); art. 161, énfasis puesto en el salario en detrimento de los servicios gratuitos, subsidios personales etc.; art. 162, eliminación gradual (cuán gradual?) de la libreta («la libreta de racionamiento, como nosotros los cubanos llamamos a esta herramienta de justicia», en las palabras de Celia Hart Santamaría); art. 164, fin de los subsidios a los comedores obreros y eliminación de los mismos donde fuera posible.
Se podría continuar, pero esta lista – ambiciosa e ingenua todo lo que se quiera y en parte irrealizable - muestra una sustancial coherencia. Son medidas claramente destinadas a potenciar el sector capitalista ya existente y a ampliar en general el rol del capital privado en detrimento del capital público. Utilizando las palabras de Michele Nobile, en su intervención en el debate, las medidas propuesta coinciden con el clásico paquete de recomendaciones restrictivas que el Fondo Monetario Internacional exige normalmente a los gobiernos para decidir la concesión de créditos.
En definitiva, el centrismo burocrático parece haberse decidido a dar el paso que los colegas chinos (y vietnamitas) han dado hace tiempo y que los rusos habrían probablemente dado con Gorbachov, si éste hubiera dispuesto de más tiempo: transformación controlada en sentido capitalista de los sectores económicos más dinámicos, en el marco de una privatización más general de la economía. Todo esto impidiendo cualquier tipo de expresión democrática desde abajo o de reivindicaciones, aunque más no fuera, sindicales. Es decir, la tentativa de instaurar en Cuba el modelo chino (que de maneras diferentes los hermanos Castro han demostrado siempre admirar intensamente): desarrollo del capitalismo pero bajo el férreo control de un régimen estatal identificado con el partido único y con las Fuerzas Armadas. En la práctica una forma específica cubana de capitalismo más dictadura burocrática.
Este proyecto, sin embargo - como ha aflorado durante el debate - va contracorriente respecto a la orientación capitalista (en términos populistas, de “centro-izquierda” etc.) que está prevaleciendo en otros importantes países latinoamericanos: no es una casualidad que el Alba sea nombrado solo de paso (dos veces) en todo el documento.
El informe de Massari se ha concluido con la afirmación de que el proyecto está destinado a fracasar, porque Cuba no es China, no es competitiva en el mercado internacional, no tiene importantes recursos naturales, es presa codiciada por los empresarios de origen cubano residentes en Florida, además de otros sectores de empresas exportadoras estadounidenses. Es necesario considerar además el hecho que en Cuba se ha cumplido una verdadera revolución, ha habido una constante movilización del pueblo en defensa de las propias conquistas, el igualitarismo ha sido siempre considerado un valor irrenunciable y los intentos de dar una base estaliniana al régimen burocrático han sustancialmente fracasado bajo el perfil ideológico. Hay que recordar también que en Cuba, muchos de estos aspectos positivos se identifican históricamente con la figura del Che (a pesar de la mitificación realizada hasta hoy) y en parte lo siguen siendo.
Una cosa es cierta: de la secuencia impresionante de errores económicos cometidos a partir al menos desde 1965-1966 con la conducción personalista de Fidel Castro, jamás se ha realizado un balance y menos aún se habla en este documento (bastaría pensar en la llamada «ofensiva revolucionaria», anunciada en el discurso del 13 de marzo de 1968, cuando fue abolida la poca iniciativa privada que quedaba y funcionaba bien en algunos servicios, como los restaurantes, los chinchales etc., y que ahora, a 43 años de distancia, se pretende revitalizar.) Fechar aquellos errores no sería demasiado difícil. Castro guardó silencio durante todo el gran debate económico de 1963-1964, cuando se enfrentaron en términos teóricos de buen nivel dos tendencias industrializadotas: la del Che y la filosovíetica (Carlos Rafael Rodríguez y otros). Para luego decidir, sin consultarlo con nadie (salvo con Alekséi Kosygin, primer ministro de la Urss, en visita a Cuba en julio de 1967), volver definitivamente a la prioridad agrícola, es decir al monocultivo de la caña de azúcar, a la monoproducción azucarera y a la monodependencia de la Urss: tres aspectos de una única decisión que se reveló desastrosa para el desarrollo de la economía cubana y que determinó históricamente la cronicidad de las dificultades actuales.
Sin una evaluación honesta de aquellos errores y muchos otros cometidos en primera persona por Fidel Castro (con el apoyo siempre unánime del grupo dirigente del Pcc), es prácticamente imposible formular proyectos económicos o sociales creíbles, realistas y adecuados a las circunstancias. Hasta que las mentes más abiertas y capaces de Cuba no hagan este balance, la teoría económica y política seguirá viviendo también un propio penoso «período especial». Y el culto  actualmente exagerado de la personalidad de Fidel no puede más que obstaculizar cada vez más un proceso auténticamente democrático de elaboración económica. Basta pensar en cómo son alejados, por razones diversas, uno a uno los principales ministros económicos (partiendo de Carlos Lage y José Luis Rodríguez, seguidos por los ministros de agricultura y de transportes) o del exterior (Roberto Robaina, Felipe Pérez Roque). Una torpe búsqueda de chivos expiatorios en la cual ya nadie cree.
Enzo Valls (argentino, de paso por Italia) se refirió al peso político del variado mundo militante latinoamericano, «que - con una infinidad de variantes y por numerosos motivos - no ha dejado jamás de ver a Cuba como un faro revolucionario, un ejemplo de resistencia al imperialismo y de realizaciones concretas en algunos terrenos (educación, salud, solidaridad internacional etc.).» Será pues necesario observar cómo este enorme pueblo continental acogerá las nuevas medidas, dado que «normalmente no las tolera cuando quien las impone es el Fondo Monetario Internacional o los gobiernos serviles vinculados al mismo.» Según Valls, «en América Latina han sido siempre identificados como una sola cosa el pueblo cubano y su gobierno, y se ha arraigado la convicción de que si Cuba ha resistido a los EE.UU. durante cincuenta años y siempre bajo la misma conducción, eso se debe a lo correcto de las decisiones tomadas o al hecho de que muchos de los errores cometidos se justifican por las enormes dificultades que ha debido enfrentar el proceso revolucionario cubano, en primer lugar el bloqueo.» Es necesario señalar que, siempre como consecuencia de esta identificación, no existe tampoco el hábito de distinguir entre quien impone los sacrificios (el aparato burocrático) y quien los vive de verdad, es decir aquella parte de la población que no tiene fácil acceso a la moneda convertible ni a situaciones de privilegio. Lo cual podría volverse a repetir en este caso.
Vale la pena, por lo tanto, seguir la discusión sobre el VI congreso (la oficiosa, ya que oficialmente no habrá ninguna contraposición, ninguna divergencia pública o en la prensa) y mantenerse más alertas que nunca, porque estas graves decisiones pro capitalistas, destinadas a un parcial fracaso, unidas a la dependencia económica para las importaciones de alimentos y de algunas medicinas desde EE.UU., vuelven aún más vulnerable al régimen cubano respecto al gran enemigo imperialista (como recientemente ha hecho notar James Petras, autor de un análisis crítico de la economía cubana y por tal motivo cubierto de insultos políticos por el mismo Fidel y su portavoz mexicano Pablo González Casanova).
Para el centrismo burocrático que ha regulado la vida de la Isla por más de cuarenta años ha llegado la hora de la rendición de cuentas. ¿Se transformará en capitalismo burocrático como en China? ¿Se integrará a la economía estadounidense en el caso de que se terminara el embargo? ¿Desarrollará un capitalismo autóctono con el cual integrarse en las nuevas alianzas económicas latinoamericanas como el Alba? Retomará la dinámica de la revolución originaria?
A esta última pregunta debemos desgraciadamente responder negativamente ya que esto sería posible solamente en el contexto de un renacer revolucionario en el Caribe, en América Latina y en el Mundo. No hay que subestimar al respecto la actitud hostil que el gobierno cubano tuvo desde el primer momento hacia la propuesta de construir una Quinta Internacional, presentada por Chávez en noviembre de 2009 y luego torpemente descartada, probablemente por el rechazo cubano a adherir a la misma.
Son preguntas a las cuales es imposible responder con certeza por el momento. Como mínimo es necesario esperar las conclusiones del congreso de abril y sobre todo observar como reaccionarán los trabajadores cubanos a las medidas restrictivas contenidas en el paquete con el cual la dirigencia castrista espera convencer al Fmi a abrir las compuertas  del crédito, medidas que en parte se están ya aplicando, lesionando el poder de decisión del congreso mismo.  

[Traducción: Enzo Valls]



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Ripubblichiamo questo documento con alcune piccoli correzioni introdotte dall'autore. 


IN ITALIANO
CUBA 2011: Anno dell’economia… di mercato
di Roberto Massari
(dicembre 2010)

Sabato 18 dicembre 2010 si è svolta la riunione nazionale di Utopia rossa dedicata all’analisi della Cuba odierna, in vista anche della convocazione del VI congresso del Pc cubano per aprile 2011.
[Va ricordato che i congressi precedenti sono stati tenuti a intervalli irregolari, dalla fondazione ufficiale nel 1965 al I congresso (1975), al II (1980), al III (1986), al IV (1991), al V (1997). Tutti i congressi hanno semplicemente ratificato decisioni già prese dalla direzione e in nessun congresso sono state poste in votazione posizioni di minoranza perché non ne sono mai state presentate.]
La discussione è stata introdotta da un’ampia relazione di Roberto Massari che ha richiamato le linee generali dell’analisi da lui messa per iscritto a giugno del 1975 (e ripubblicata in tempi recenti). Quell’analisi, secondo il relatore, è stata confermata da tutta la successiva storia di Cuba e ha dimostrato la sua ininterrotta validità fino al periodo attuale. Ora, invece, si richiedono delle rettifiche sostanziali, sulle quali la relazione si è soffermata lungamente e delle quali viene qui fornita solo una rapida sintesi.
Elaborata nel pieno del processo di sovietizzazione dell’Isola (cioè negli anni in cui avveniva il ritorno alla monocultura dello zucchero, all’insegna di una nuova monodipendenza: dall’Urss), l’analisi del 1975 affermava che nel corso del 1967-68 era giunto a termine un processo di grande instabilità ed effervescenza politica, animato da forti spinte nazionaliste contrapposte, tra le quali era emersa anche una corrente soggettivamente rivoluzionaria, di tendenziale orientamento internazionalistico, storicamente identificata con Ernesto Guevara (e sostenuta dallo stesso Fidel Castro in alcuni periodi). Dopo la partenza del Che, l’abbandono da parte del governo dei suoi progetti d’industrializzazione, la sconfitta del suo modello di costruzione del socialismo e la sua morte in Bolivia, la direzione castrista aveva cercato un’integrazione crescente - politica, economica e militare - con il blocco sovietico, entrandone a far parte integralmente nonostante le proprie origini antistaliniane e nonostante il carattere sempre più apertamente controrivoluzionario del gruppo dirigente brezneviano. A partire dalla data simbolica di approvazione dell’invasione della Cecoslovacchia (agosto-settembre 1968) e dal successivo fallimento della zafra dei «10 milioni» (1970) a Cuba apparve definitivamente instaurato un regime che con terminologia classica fu da noi definito come «centrista burocratico», nel quadro di un blocco del processo di transizione al socialismo rivelatosi in seguito come irreversibile. Fu quella una definizione analitica caratteristica della corrente internazionale cui apparteneva Massari (Fmr) e che non fu purtroppo condivisa ufficialmente da nessun’altra corrente internazionale, a causa dell’adesione al maoismo degli uni o al filosovietismo degli altri, nonché a varianti apologetiche del castrismo di altri ancora. Quel centrismo burocratico subì processi involutivi via via crescenti e col tempo si sarebbe certamente trasformato in una dittatura burocratica come negli altri paesi del Comecon se non vi fosse stata la crisi dell’Urss alla fine degli anni ‘80.
Con la partenza dei sovietici e la fine della monodipendenza, l’economia fondata sulla monocultura dello zucchero andò in crisi e il centrismo burocratico dovette cominciare a fare i conti con un contesto internazionale mutato e con gravi problemi di ordine economico: il período especial, una sorta di «comunismo di guerra» caraibico.
La relazione di Massari ha ricostruito quel periodo d’importanza nevralgica per capire i mutamenti attuali in corso a Cuba, soffermandosi in modo particolare sulle «riforme» degli anni 1993-94 fino al 1996: legalizzazione del dollaro; fine del monopolio statale del mercato estero con apertura a investimenti stranieri europei, canadesi e latinoamericani; ripartenza dell’iniziativa privata (lavoro en cuenta propia scomparso dal marzo 1968); trasformazione delle aziende agricole statali in cooperative; apertura dei mercados agropecuarios (libero mercato contadino); avvio di un sistema fiscale; aumenti dei prezzi al consumo; crescita controllata della disoccupazione con parallelo calo di sussidi; tolleranza verso la crescita abnorme del mercato nero; calo degli investimenti nella zafra e aumento nel turismo; crescente penetrazione del capitale straniero nel turismo, ma anche nelle prospezioni petrolifere, miniere (nichel in primo luogo), telecomunicazioni, edilizia, tessile, tabacco e agrumi (soprattutto con Israele); «adozione» di un triplice sistema monetario (peso, dollaro e peso convertibile).
La relazione si è soffermata sulle «riforme» del 1993-96 perché non vi siano dubbi che le attuali «riforme» (proposte nel documento per il VI congresso, «Lineamenti di politica economica e sociale», di 32 pagine e 291 articoli), non rappresentano nulla di nuovo rispetto al passato sul piano dei contenuti. E anzi gli orientamenti attuali sembrerebbero il naturale sviluppo degli orientamenti emersi all’inizio degli anni ‘90 sotto la spinta del período especial e il rischio di crollo del regime dopo la fine dell’Urss.
Va detto che, allora come oggi, il governo cubano non ha mai tentato di coinvolgere i lavoratori nei processi di decisione e realizzazione di tali «riforme». Nessun ruolo ai sindacati, nessuna apertura alla discussione pubblica (che implica spazio per il dissenso), nel partito o sulla stampa, nessun tentativo di dar vita a organismi di mobilitazione dal basso in cui il popolo potesse decidere modi e tempi dei sacrifici da compiere. L’assenza di coinvolgimento dei diretti interessati non poteva che accompagnarsi a un inasprimento sempre più forte delle misure di repressione del dissenso (di destra o di sinistra), della chiusura antidemocratica negli organismi politici e sociali, tra la gioventù studentesca e a tutti i livelli dell’apparato statale. In questo si ripeteva e si ripete l’esperienza negativa della Nep che, mentre concedeva aperture crescenti alla penetrazione del capitalismo, distruggeva ogni residua parvenza di democrazia nel regime dei soviet.
Tra il sistema economico fondato sulle «riforme» del 1993-96 e quelle proposte dal documento congressuale vi sono però anche delle differenze importanti, sulle quali va richiamata l’attenzione. Le si potrebbero considerare differenze quantitative, perché all’epoca il processo di apertura al capitale estero e di tagli allo stato sociale era agli inizi, mentre ora tocca grandi fette dell’economia e milioni di lavoratori. Ma in un’isola piccola come Cuba, priva di risorse importanti, senza alcuna forza competitiva sul mercato estero e con una instabilità economica ormai cronica, acquistano un forte valore qualitativo.
Utilizzando fonti di varia provenienza, la relazione ha descritto la presenza del capitale estero nel settore del turismo, dimostrando che anche se in termini percentuali e quantitativi il controllo maggioritario delle aziende del settore sembrerebbe ancora formalmente (giuridicamente) dello Stato cubano, in realtà, in termini qualitativi il controllo è già in mani capitalistiche, di ben precise aziende multinazionali radicate in paesi imperialistici. Queste dominano in forma diretta e indiretta (ivi compreso il tramite della corruzione) le principali attività turistiche cubane avendo la possibilità di gestire i flussi di turisti dall’estero (agenzie, linee aeree, pubblicità), di garantire una ristorazione di qualità, di assicurare rifornimenti indispensabili (per es. la manutenzione degli alberghi), e soprattutto disponendo di fonti di credito, risorse finanziarie, know-how, strumenti propagandistici ecc. Il turismo, che non è un mezzo di produzione, ma una forma ibrida di sfruttamento dell’ambiente in termini naturali e culturali in cui confluiscono le più diverse attività economiche, è però diventato la principale fonte di reddito per Cuba. Ebbene, il capitale estero ne detiene il controllo essenziale e per giunta un controllo che si irradia in forma via via crescente anche verso altri settori dell’economia.
Tra le molte cifre citate da Massari, va ricordato che Cuba è un paese fondamentalmente agricolo che importa più del 50 per cento del fabbisogno alimentare (oltre il 70% nell’alimento principale: il riso), che le sue esportazioni vanno, in ordine d’importanza, verso la Cina, il Canada, la Spagna, l’Olanda e le sue importazioni provengono, nell’ordine, da Venezuela (30%), Cina, Spagna e Usa (6%).
In tale contesto acquistano un valore particolare le misure proposte dal documento congressuale perché mostrano con estrema chiarezza la volontà da parte del governo di accelerare tutte le tendenze di apertura al capitalismo messe in atto dai primi anni ‘90.
I 291 articoli del documento congressuale sono per lo più una lista abbastanza dettagliata di puri e semplici desideri, vale a dire di ciò che sarebbe utile fare a Cuba nei vari comparti dell’economia, ma che non si potrà fare. In quanto tali non hanno un gran significato, anche perché il popolo cubano è abituato da decenni a sentirsi dire quante cose belle si faranno, dovendo poi far fronte alla drammaticità della vita quotidiana. Nel documento, tra l’altro, del popolo non si parla mai: non è previsto che esso agisca come soggetto attivo e cosciente in questo processo di crescente trasformazione capitalistica dell’economia.
Alcuni (pochi) articoli, però, sono molto concreti e non vi sono dubbi che il governo tenterà di tradurli in pratica. Ecco i più significativi: art. 19, collegamento dei salari alla produttività; art. 23, autonomia decisionale delle aziende nella fissazione dei prezzi e dei servizi (proprio il principio contro cui aveva combattuto duramente il Che all’epoca del debate económico del 1963-64); art. 27, vendita diretta al pubblico da parte delle cooperative agricole senza l’intermediazione statale; art. 49, criteri di produttività (e non più sociali) nella concessione di crediti e facilitazioni alle imprese; art. 51, apertura di credito da parte del sistema bancario statale verso settori di economia non-statale (privata); art. 54, rinvio dell’unificazione monetaria a quando ci saranno le condizioni economiche per farla (Calende greche); artt. 59, 61, 132, tagli drastici alla spesa sociale, eliminazione dei sussidi alla popolazione bisognosa; artt. 65, 85, 86, 88, pagamento dei debiti con l’estero in forma «estricta» e «rigurosa» (finiscono i velleitari proclami di Fidel Castro sul «non-pagamento» del debito estero, perché se si vuole accedere a nuovi prestiti bisogna pagare quelli passati, come ben sanno i governanti di Brasile, Argentina ecc.); artt. 72, 89, ricerca di vie di collaborazione («associazione») e apertura crescente al capitale straniero nei settori più dinamici dell’economia; artt. 103, 104, far pagare almeno i costi della solidarietà che viene data all’estero; art. 115, sistema di premi e penalizzazioni legati alla produttività del lavoro in azienda; artt. 136, 142, fine dei sussidi (borse di studio) ai lavoratori, in base al principio che chi vuole studiare deve farlo nel proprio tempo libero e secondo le proprie possibilità economiche; art. 152, trasferimento delle attività culturali ove possibile dal settore pubblico a quello privato; art. 167, utilizzo di criteri «monetario-mercantili» nelle relazioni economiche, intesi come base di un «nuovo criterio di gestione»; art. 169, indipendenza crescente delle cooperative dallo Stato; art. 177, legge della domanda e dell’offerta nella fissazione dei prezzi dei prodotti agricoli; art. 184, investimenti statali con criteri di redditività e non-sociali.
E infine quelli che hanno attirato maggiormente l’attenzione dei media (e dei lavoratori cubani): art. 158, ampliamento del lavoro privato (por cuenta propia) con relativa tassazione; art. 159, licenziamenti massicci di una parte della manodopera statale superflua (calcolata a parte in 3,5 milioni, con un 1,3 milioni di licenziamenti da graduare nel tempo, realizzandone 500.000 nell’immediato e assicurando ai licenziati solo 5 mesi di stipendio quasi dimezzato); art. 161, enfasi sul salario a discapito di servizi gratuiti, sussidi personali ecc.; art. 162, eliminazione graduale (quanto graduale?) della libreta («la tessera di razionamento, come noi cubani chiamiamo questo strumento di giustizia», nelle parole di Celia Hart Santamaría); art. 164, fine dei sussidi alle mense operaie ed eliminazione delle stesse mense dove sia possibile.
Si potrebbe continuare, ma questo elenco - velleitario e ingenuo quanto si vuole, e in parte irrealizzabile - mostra una sua coerenza complessiva. Sono misure chiaramente destinate a potenziare il settore capitalistico già esistente e ad ampliare in generale il ruolo del capitale privato a discapito di quello pubblico. Per dirla con le parole di Michele Nobile, intervenuto nel dibattito, le misure proposte coincidono con il classico pacchetto di provvedimenti restrittivi che il Fondo monetario internazionale esige normalmente dai governi per decidere la concessione di crediti.
Insomma, il centrismo burocratico sembra aver deciso di compiere il passo che i colleghi cinesi (e vietnamiti) hanno già compiuto da tempo e che i russi avrebbero probabilmente compiuto con Gorbaciov, se questi ne avesse avuto il tempo: trasformazione controllata in senso capitalistico dei settori economici più dinamici, nel quadro di una privatizzazione più generale dell’economia. Il tutto impedendo qualsiasi manifestazione di democrazia dal basso o di rivendicazioni anche solo sindacali. Insomma, il tentativo di instaurare a Cuba il modello cinese (che in forme diverse i due fratelli Castro hanno sempre dimostrato di ammirare intensamente): sviluppo del capitalismo, ma sotto il controllo ferreo di un regime statale identificato con il partito unico e con le Forze armate. In pratica una forma specifica cubana di capitalismo più dittatura burocratica.
Questo progetto, però - come è stato fatto notare nel dibattito - è in controtendenza rispetto all’orientamento capitalistico (in termini populistici, di «centrosinistra» ecc.) che sta prevalendo in altri importanti paesi latinoamericani: non a caso l’Alba è nominata solo di sfuggita, due volte, nell’intero documento. E anche la relazione di Massari ha concluso affermando che il progetto è più che fallimentare perché Cuba non è la Cina, non è competitiva sul mercato estero, non ha importanti risorse naturali, è preda ambìta degli imprenditori di origine cubana residenti in Florida, nonché di altri settori di aziende esportatrici statunitensi. Bisogna inoltre considerare il fatto che a Cuba è stata fatta una vera rivoluzione, c’è stata una costante mobilitazione del popolo in difesa delle proprie conquiste, l’egualitarismo è stato sempre considerato un valore irrinunciabile e il tentativo di dare basi staliniane al regime di centrismo burocratico è sostanzialmente fallito sotto il profilo ideologico. Va ricordato, inoltre, che a Cuba molti di questi aspetti positivi sono stati tradizionalmente identificati con la figura storica del Che (nonostante la mitizzazione fin qui realizzata) e in parte continuano ad esserlo.
È però vero che sulla sequenza impressionante di errori economici compiuti a partire almeno dal 1965-66 con la gestione personalistica di Fidel Castro non si è mai tirato un bilancio e meno che mai se ne parla in questo documento. (Basti pensare alla cosiddetta «offensiva rivoluzionaria» annunciata col discorso del 13 marzo 1968, quando si abolì il poco d’iniziativa privata che restava e funzionava bene in alcuni servizi, nella ristorazione, coi chinchales ecc., e che ora, a 43 anni di distanza, si vuole rivitalizzare.) La datazione di quegli errori non sarebbe nemmeno molto difficile perché Castro tacque durante tutto il grande debate económico del 1963-64, quando si contrapposero in termini teorici di buon livello due tendenze industrializzatrici: la guevariana e la filosovietica (Carlos Rafael Rodríguez e altri). Ma solo per poi decidere, senza consultarsi con chicchessia (a parte Aleksej Kosygin, presidente del Consiglio dei ministri dell'Urss, in visita a Cuba a luglio del 1967), di rendere definitivo il ritorno alla priorità agricola, cioè alla monocultura della canna, alla monoproduzione dello zucchero e alla monodipendenza dall’Urss: tre aspetti di un’unica decisione rivelatasi disastrosa per lo sviluppo dell’economia cubana e che ha determinato storicamente la cronicità delle difficoltà odierne.
Senza una valutazione onesta di quegli errori e dei tanti altri compiuti in prima persona da Fidel Castro (con l’appoggio sempre unanime del gruppo dirigente del Pcc), è praticamente impossibile varare progetti economici o sociali credibili, realistici e adeguati alle circostanze. Finché le menti più aperte e più capaci di Cuba non avranno fatto questo bilancio, anche la teoria economica e politica continuerà a vivere un suo penoso «período especial». E il culto ormai smaccato della personalità di Fidel non può fare altro che rendere sempre più difficile un processo autenticamente collegiale di elaborazione economica. Basti pensare a come vengono via via liquidati i principali ministri economici (a partire da Carlos Lage e José Luís Rodríguez, seguiti dai ministri dell’agricoltura e dei trasporti) o degli esteri (Roberto Robaina, Felipe Pérez Roque). Una maldestra ricerca di capri espiatori alla quale ormai non crede più nessuno.
Nel suo intervento, Enzo Valls (di passaggio dall’Argentina) ha richiamato l’attenzione sul peso politico di un ampio spettro del mondo militante latinoamericano «che non ha mai smesso di vedere Cuba - con un’infinità di varianti e per un’infinità di motivi - come un faro rivoluzionario, un esempio di resistenza all’imperialismo e di realizzazioni concrete in alcuni campi (educazione, salute, solidarietà internazionalistica ecc.)». Bisognerà quindi anche vedere come questo enorme popolo continentale accoglierà queste nuove misure, visto che «normalmente non le tollera quando a imporle sono il Fmi e i governi servili ad esso legati». Secondo Valls, «in America latina sono stati sempre identificati come un tutto unico il popolo e il governo dei Castro e si è quindi radicata la convinzione che se Cuba ha resistito agli Usa per cinquant’anni e sempre sotto la stessa direzione, ciò sarebbe dovuto alla giustezza delle decisioni prese oppure al fatto che molti degli eventuali errori commessi sarebbero giustificati dalle enormi difficoltà che ha dovuto affrontare il processo rivoluzionario cubano, in primo luogo per l’embargo». C’è da dire che, sempre in seguito a questa identificazione, non c’è l’abitudine a distinguere tra chi impone i sacrifici (l’apparato burocratico) e chi li vive davvero, cioè quella parte di popolazione che non ha accesso alla moneta convertibile e ad altre situazioni di privilegio. Ciò potrebbe ripetersi anche in questo caso.
Vale pertanto la pena di seguire la discussione per il VI congresso (quella ufficiosa, perché ufficialmente non vi sarà alcuna contrapposizione, nessuna divergenza pubblica o sulla stampa) e vigilare più che mai perché queste gravi scelte filocapitalistiche, destinate a un parziale fallimento, unite alla dipendenza economica per le importazioni di cibo e di alcune medicine anche dagli Usa, rende ancora più vulnerabile il regime cubano nei confronti del grande nemico imperialistico (come di recente ha fatto notare anche James Petras, autore di un’analisi critica dell’economia cubana e per questo coperto di insulti politici dallo stesso Fidel e dal suo portavoce messicano, Pablo González Casanova).
Per il centrismo burocratico che ha regolato la vita dell’Isola per più di quarant’anni è arrivata la resa dei conti. Si trasformerà in capitalismo burocratico come in Cina? si integrerà nell’economia statunitense qualora terminasse l’embargo? svilupperà un proprio capitalismo autoctono con cui integrarsi nelle nuove alleanze economiche latinoamericane tipo l’Alba? Riprenderà la dinamica della rivoluzione originaria?
A ques’ultima domanda si deve purtroppo rispondere negativamente perché ciò sarebbe possibile solo in un contesto di ripresa rivoluzionaria nei Caraibi, in America latina e nel mondo. Non si trascuri, a questo riguardo, l’atteggiamento ostile che la direzione cubana ha avuto fin dal primo momento verso la proposta di costruire una Quinta internazionale, avanzata a novembre 2009 da Chávez e poi maldestramente affondata anche, e forse soprattutto, per il rifiuto cubano di aderirvi.
Sono domande alle quali è impossibile rispondere con certezza per il momento. Come minimo occorre aspettare l’esito del congresso di aprile e soprattutto vedere come reagiranno i lavoratori cubani alle misure restrittive contenute nel pacchetto con cui la direzione castrista spera di convincere il Fmi a riaprire i rubinetti del credito e che in parte si stanno già applicando, in spregio del potere decisionale del congresso stesso.

venerdì 25 febbraio 2011

¡CÓMO HACE FALTA LA V INTERNACIONAL!, por Mónica Saiz

A finales del año 2009, el Presidente Chávez convocó a una reunión de partidos de izquierda y propuso conformar la V Internacional, para unir las fuerzas de todos los movimientos populares que luchan contra el imperialismo en el mundo.
Aunque muchos aplaudimos la audaz y necesaria propuesta, la misma fue tomada con pinzas y máxima precaución por otros.
Si en el 2009 esta propuesta parecía oportuna, a la luz de los cambios que vive América Latina; hoy, ante la conmoción creada por la pugna candente entre los alzamientos populares en el mundo árabe y la contraofensiva imperialista que no se ha hecho esperar, la unión de los movimientos revolucionarios y antiimperialistas del planeta se ve como una tarea imprescindible, que lamentablemente ha quedado relegada.
No es la primera vez que pasa esto con una idea del Comandante. Recordemos que en 2001 Chávez propuso la creación del ALBA, que recién comenzó a materializarse en diciembre de 2004, a partir de la firma del tratado constitutivo de la Alianza, entre Cuba y Venezuela. Estamos ya en 2011, y el ALBA tiene muchos logros, el más importante de ellos es haberse constituido como territorio libre de analfabetismo. Y aunque esto demuestra el acierto de la iniciativa, todavía el burocratismo reinante en la estructura de nuestros estados, sigue siendo un obstáculo para el avance del ALBA.
Con la V Internacional, ha pasado algo similar. La idea es justa y necesaria, sabemos que Chávez persistirá en ella. Pero para que se concrete es necesario vencer las resistencias mezquinas, la inercia sectaria, el dogmatismo y poner por delante los grandes objetivos de los pueblos y de la humanidad.
La necesidad de unir a los pobres de la tierra en la lucha contra el capitalismo imperialista, forma parte del horizonte común de todo movimiento que realmente crea que hay que acabar con la desigualdad, la injusticia, el hambre y la guerra.
Es urgente encontrar el camino para materializar esta grandiosa idea. Iniciar con los que no dudan, e ir convenciendo a los demás. Organizarnos.
Las contradicciones del mundo capitalista se agudizan cada vez más, pero el desenlace no nos llevará indefectiblemente al socialismo. Si así fuera, podríamos echarnos a descansar. La especie humana y la vida en el planeta están en juego, un mundo peor también es posible. “En la demora está el peligro”, decía Eloy Alfaro.

Fuente: Congreso bolivariano de los pueblos, Boletín informativo Nº 273, del 25-02-11

sabato 19 febbraio 2011

DAL PRC A UTOPIA ROSSA: BIGLIETTO DI SOLA ANDATA, di Alessandro Gigli

Il seguente intervento di Alessandro Gigli è stato pubblicato nel libro Le false sinistre, Massari editore (2008), nella collana Utopia Rossa, dove compariva nella sezione "Con utopia rossa, variamente". Ci è sembrato utile pubblicarlo oggi qui.


Posso definirmi il compagno meno politicizzato di Utopia Rossa, ma non per questo meno determinato.
Ho iniziato molto tardi a interessarmi di politica, proprio nel momento in cui un imprenditore piduista aveva in pochissimi mesi costruito un partito e vinto le elezioni.
Fino a quel momento ero stato un ribelle, una scheggia impazzita della società dello spettacolo, che rifiutavo in ogni sua componente, in ogni suo dettaglio - dalla famiglia patriarcale autoritaria, al lavoro che non nobilitava nessuno, alla divisione in classi sociali distinte spesso inamovibili, alle gerarchie ecclesiastiche che dettavano legge, al consumismo compulsivo da cui eravamo attratti, alle guerre fatte per motivi economici e geopolitici, all’istruzione nozionistica e priva di pensiero critico, ai rapporti umani basati sul profitto, al denaro come mediatore universale, ecc.ecc.
Ma da qui ad essere un soggetto politico ce ne passava, anche se ero predisposto a intraprendere un certo percorso, certe letture e certe frequentazioni che, un bel giorno, mi avrebbero fatto decidere d’intraprendere un nuovo viaggio per me fino ad allora sconosciuto e di cui non mi fidavo neanche tanto:  la militanza in un partito politico.
L’unico partito che all’epoca poteva fare per me e per la mia voglia di rovesciare l’esistente era Rifondazione comunista. Non conoscevo altre realtà essendo, stato al di fuori di certe logiche per 40 anni - età in cui iniziò questo breve, ma intensissimo viaggio - diretto alla costruzione di una nuova coscienza sociale e di classe, di letture interessantissime, ma anche di tormenti interiori, rapporti umani falsi e ipocriti, cambiamenti di rotta politica del partito ogni semestre e distruzione di tutti  gli ideali che la falce e il martello storicamente hanno sempre rappresentato.
Dopo circa un paio di anni di militanza politica, discussioni riunioni e direttivi, iniziai a capire che molti di coloro che stavano nel partito lo faceva con l’unica motivazione di ritagliarsi un posticino di potere e fare carriera passando sopra i «cadaveri» dei compagni più meritevoli e più capaci.
Cominciai a farmi mille domande e a chiedermi che cosa volesse realmente il Prc, che tipo di società, quale comunismo, quale sorte per i lavoratori, gli immigrati, i pensionati, le donne e tutta la gente comune che riponeva ancora in questo partito la speranza per un mondo migliore.
Per non parlare poi della conversione alla teoria della non-violenza che per mesi ha intasato Liberazione e il manifesto, con articoli in cui tutti, chi più chi meno, difendevano a spada tratta questo cambiamento improvviso che aveva però come unica motivazione quella di liberarsi dalla storia del ‘900, dalle sue grandi rivoluzioni e dallo spirito rivoluzionario delle masse oppresse in ogni parte del mondo. Era un segnale forte che Bertinotti e il suo partito stavano dando all’establishment politico italiano (e d’oltreoceano) per spiegare la ormai sopraggiunta mutazione genetica in senso filocapitalistico di tutto un partito pronto ad entrare nella stanza dei bottoni per diventare casta come tutti gli altri.

RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

* * *

a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

* * *

a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

* * *

a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

* * *

a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.