L’associazione Utopia Rossa lavora e lotta per l’unità dei movimenti rivoluzionari di tutto il mondo in una nuova internazionale: la Quinta. Al suo interno convivono felicemente – con un progetto internazionalista e princìpi di etica politica – persone di provenienza marxista e libertaria, anarcocomunista, situazionista, femminista, trotskista, guevarista, leninista, credente e atea, oltre a liberi pensatori. Non succedeva dai tempi della Prima internazionale.

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martedì 31 agosto 2010

Pino Bertelli recensisce i film sul CHE di Steven Soderbergh

CHE — L’ARGENTINO ⁄ CHE — LA GUERRIGLIA (2008/2009),
di Steven Soderbergh

“Il sangue del popolo è il nostro tesoro più sacro,
ma è necessario versarlo per impedire che in futuro ne venga sparso di più”.
Ernesto Guevara de la Serna

I. CHE — L’ARGENTINO

Il dittico su Ernesto “Che” Guevara, Che — L’argentino ⁄ Che — La guerriglia, diretto da Steven Soderbergh, uno dei registi più sopravvalutati della macchina/cinema hol-lywoodiana… salutato dalla maggior parte della critica italiana (e straniera) come una sorta di “capolavoro”… è un’operazione di basso profilo commerciale. Soderberg, del resto, è un abile confezionatore di cinema e a partire da Sesso, bugie e videotape (Palma d’oro a Cannes) fino a Traffic (Oscar a Hollywood), passando per Erin Brockovich… fino alle banalità ordinarie di Ocean’s Twelve e Ocean’s Thirteen o The girlfriend e-xperience… l’eclettico regista di opere accattivanti e discontinue, mostra che la vici-nanza tra il cretinismo e il genio è piuttosto evidente… e Soderbergh non è certamente un genio.
In Che — L’argentino ⁄ Che — La guerriglia Soderbergh affresca la storia del “Che” (un rivoluzionario e un poeta dell’utopia tra i più importanti del Novecento) su parame-tri convenzionali... lo stile austero non è il suo pane e nemmeno l’etica di un guerriglie-ro in lotta contro le arroganze dell’impero delle multinazionali lo sorreggono… Che — L’argentino) ripercorre le gesta del giovane medico (argentino) nella rivoluzione cubana e l’incontro con Fidel Castro, già maestro e istrione di una politica dittatoriale, che cul-minerà nella battaglia di Santa Clara e al vittorioso ingresso all’Habana. Girato in HD, il film alterna spezzoni (in bianco e nero) del discorso del “Che” all’ONU del ’64 a rico-struzioni/azioni da western di pessima fattura (non ha l’autorevolezza epica di John Ford, Howard Hawks, Raoul Walsh o Nicholas Ray…).
Il Che — L’argentino restituisce una visione quasi astratta della figura e del pensiero politico di Ernesto “Che” Guevara. L’idea del film era venuta a Benicio del Toro (che interpreta il “Che” e appare anche come produttore), mentre giravano Traffic. “Della vita del “Che” non sapevo niente”, dice Soderbergh, e si vede. “Nella società che lui voleva”, rincara il regista, “sarei stato disoccupato”, è vero. I 40 milioni di dollari spesi per l’intero film non si vedono… l’ambientazione è debole, banalizzata, l’attorialità del-le figure comprimarie e la messa in scena sono affabulati nella più tradizionale epopea perbenista che ha fatto le fortune e le glorie di tanto cinema hollywoodiano… Fidel Ca-stro (Demiar Bichir) sembra un luminare che nella Sierra Maestra dispensa saggezze (mai avute) contro il neoliberismo in maniera macchiettistica… la rivoluzione (giusta) dei barbudos è disseminata in battaglie agiografiche e il teatrale subentra allo storico… la fotografia di Peter Andrews (pseudonimo del regista) è rarefatta e poco si accosta al sudore, alla paura, al coraggio, all’utopia in armi dei rivoluzionari del “Che”… nel film c’è il peggio di Indiana Jones di Steven Spielberg, intrecciato al peggio di Via col vento di Victor Fleming… entrambi i film sono pervasi dal medesimo catechismo benevolen-te… un assemblamento di sentimenti truccati, dispersi nell’ordine del discorso filmico che non implicano il tragico, bensì il destino di un tempo andato in frantumi. Il grande cinema esiste solo fintantoché dura la poesia, come la rivoluzione finché dura il canto della rivolta. Benicio Del Toro (Palma d’Oro a Cannes, 2008) è un “Che” formidabile… interpreta un eroe ma non lo trascolora in mito… mostra il carattere di un uomo in rivol-ta attraversato da una sorta di malinconia e ci dà la sensazione di raggiungere finalmen-te il Vero.
Il primo atto del dittico sul “Che” ci lascia attoniti… l’iconografia del guerrigliero sulla quale lavora Soderbergh non è molto distante da quella mercantile (astratta) dei sigari, magliette, tatuaggi… ciascuno ha il suo “Che” e il “Che” per tutti… il mondo comincia e finisce in un’immagine/simulacro ed è inconcepibile aderire a qualsiasi forma di ado-razione/religione fondata dai tenutari della società consumerista… sotto qualsiasi lettura si veda, Che — L’argentino è una catenaria di situazioni rivoluzionarie dove la rivolu-zione sembra un gioco telematico e il “Che” un fantoccio o un super eroe che si spinge oltre la soglia del lecito (permesso dai centri di potere)… la battaglia di Santa Clara poi è girata secondo i moduli sgangherati (e patetici, compresi quelli più artificiati di Sergio Leone) del western all’italiana... tutta un’accozzaglia di titoli che piacciono molto a un autore molto amato da critica e pubblico, Quentin Tarantino, una specie di venditore ambulante di film scopiazzati malamente e che alle tavole dei festival fa l’incensiere di filosofie e linguaggi cinematografici d’impressionante stupidità… è preferibile ascoltare lo “scemo del villaggio” che i palafrenieri (illuminati dalla luce divina) dell’Inconcepibile.
Soderbergh filma la lunga sezione della battaglia di Santa Clara con la tele/camera sol-lecitata dai cattivi e i buoni che si aprono la strada verso la gloria… treni deragliati, a-manti in apprensione, fedeli compagni di lotta che s’immolano alla patria, il “Che” feri-to ma ancora in grado di dare ordini ed elaborare strategie… sono “micro sequenze” collegate dalla scrittura filmica “minimale” del regista… le ripetizioni, gli allungamenti figurativi, le inadeguatezze scenografiche, l’anonimità degli attori (Benicio Del Toro è un monumento a sé in qualsiasi film che interpreta)… riportano una battaglia tra le più importanti della rivoluzione cubana a una sorta di scampagnata goliardica tra amici, ar-mi e donne che vanno alla conquista della felicità… merda! Chiunque non muore gio-vane o in una rivoluzione, presto o tardi se ne pentirà, diceva… solo le vite spezzate possono ritenersi compiute… solo gli eresiarchi sanno che dietro a ogni bandiera si na-sconde un boia...ecco perché gli stupidi e i tiranni sono ammazzati sempre troppo tardi.
Lo smarrimento che c’è nel film di Soderbergh è manifesto… lo guardo del regista resta sempre in superficie delle cose che tratta e, come sappiamo, quando le verità diventano irrespirabili si trova rifugio nell’eufemismo. Che — L’argentino è un corollario di sciocchezze figurative e chiacchere filistee che invitano alla rassegnazione e non all’arte di ribaltamento di prospettiva di un mondo rovesciato (com’è stata la vita di Ernesto “Che” Guevara). Finché ci sarà un solo padrone, tiranno, generale o papa in piedi, il compito dell’uomo in rivolta non è finito. Tutto questo Soderbergh non lo sa, e nemme-no lo conosce né gli interessa… il suo film dunque è una divagazione edulcorata su un uomo che ha rappresentato (e rappresenta ancora) il disinganno di un’epoca... un uomo che ha detto la mia parola è no!… un uomo che ha preso le armi, ha combattuto la catti-vità dell’imperialismo, del colonialismo, delle menzogne su un “buon governo” e ci ha insegnato a ben vivere come a ben morire.

II. CHE — LA GUERRIGLIA

Che — La guerriglia è il secondo atto (mancato) dell’opus magnum (com’è stato scritto, con grande senso del ridicolo) di Steven Soderbergh. La rivoluzione cubana ha trionfato sulla dittatura di Fulgencio Batista e le ingerenze politiche degli Stati Uniti. Fidel Castro sale al potere nel 1959. Ernesto “Che” Guevara assume un ruolo importante nel governo castrista e nel 1965 lascia Cuba per attuare la rivoluzione proletaria altri paesi… l’otto ottobre del 1967 il guerrigliero argentino viene ferito, catturato da militari boliviani e agenti della CIA a La Huirera, nella provincia di Vallegrande (dipartimento di Santa Cruz). Il giorno dopo lo ammazzano secondo gli ordini di Washington... e il suo corpo martoriato esposto al pubblico a Vallegrande… gli vengono tagliate le mani… la foto-grafia del “Che” disteso su un pancaccio come un Cristo vilipeso, circondato dai suoi assassini, farà il giro del mondo e indignerà le giovani generazioni in lotta del ’68... i bastardi avevano ucciso solo un uomo... le sue idee di amore e libertà non saranno mai cancellate dalla memoria dei popoli… gli insorti di ogni-dove non dimenticheranno mai più le parole del “Che”: “Le battaglie non si perdono, si vincono sempre”… solo chi combatte (con tutti i mezzi necessari) contro la falsificazione e l’impostura merita di essere ascoltato.
Che — La guerriglia si trascina tra il racconto di un assedio e il crollo di una speranza di rivoluzione sociale… per più di due ore assistiamo a colpi d’asma del “Che”, cammi-nate nella foresta dei rivoluzionari, incontri con i contadini boliviani, il tradimento del Partito Comunista Boliviano (filosovietico, come gli apparati e la nomenclatura comu-nista cubana o italiana), militari stupidi che arrivano sempre in ritardo negli assalti ai ribelli, stanchi e impreparati di fronte a un’idea di insurrezione che doveva fare da deto-natore e incendiare i popoli e i padroni dell’intera America Latina. La morte del “Che” e la fine di un sogno di liberazione dei dannati della terra.
Nella foresta boliviana Soderbergh si accosta alla quotidianità rivoluzionaria del “Che” e dei suoi compagni… lo fa costruendo dei “ritrattini” abbastanza gradevoli e innocui dei giovani rivoluzionari… c’infila dentro anche i tradimenti, la paura della popolazione indigenza, l’asma continua del Comandante “Che” Guevara… la colorazione del film è quasi sbiadita, vorrebbe imitare le sgranature dei cinegiornali di guerra (come era riusci-to a fare col bianco e nero, Marcello Gatti, in La battaglia di Algeri di Gillo Pontecor-vo)… la trappola finale si risolve in una scaramuccia di poco valore emotivo… anche il “Che” prigioniero non sembra avvertire la paura, rabbia (che possiamo vedere nelle po-che fotografie scattate prima della sua esecuzione) e nemmeno la dignità del guerriglie-ro esce da questa stanza/prigione buia… parla con l’uomo che lo ucciderà… che gli chiede: “Credono in Dio i cubani? E tu, tu credi?”… il “Che” risponde, “Io credo nell’uomo”… poi incita il soldato a sparare… la storia o la leggenda vuole che le ultime parole del “Che” siano queste: “So che sei qui per uccidermi. Spara dunque, codardo, stai solo uccidendo un uomo”.
È meraviglioso che ogni giorno l’immagine politica del “Che” (non solo quella di Al-berto Korda) ci porti una ragione nuova per continuare a combattere la rassegnazione del divenire... alla violenza sistematica del potere occorre opporre una critica della vio-lenza (Benjamin, diceva) dove gli oppressi individuano il momento per disfarsi dell’infelicità che li attanaglia nei secoli… l’epifania della rivolta è dunque un’irruzione del tempo consacrato alla macchina/capitale, in qualche modo dà visibilità ai popoli im-poveriti e mostra come si può abitare il mondo alla fine del mondo. L’innocenza del di-venire auspicata da Nietzsche è tutta qui. Lo spirito sottile della rivolta e il libero uso di sé sogna l’insorgenza del ludico, del meraviglioso, dell’inedito e la fine dell’impostura... è l’eccesso che dà la misura di tutte le cose. È la rivolta che porta il cielo in terra. Per gli uomini dotati di libertà e per gli amanti della piccola saggezza o talento in amore dell’uomo per l’uomo come il Comandante Ernesto “Che” Guevara… il piacere della rivolta abolisce l’impossibile e annuncia la comunità che viene.
Soderbergh allunga la minestra riscaldata del “Che”… lo mostra invecchiato, malato, bello sempre… esegue una partitura benevola e cronachistica delle sue gesta ma non riesce mai a entrare nella pelle della storia… la macchina da presa si muove palpitante su nulla e perfino i morti sono filmati con quel tanto di “tocco” estetizzante che andreb-be bene per una pubblicità di automobili, una banca o gli stracci dell’Emporio Arma-ni… c’è anche la bella rivoluzionaria (Tanya) che tutto comprende e tutto approva della disastrosa avventura rivoluzionaria di “Che” Guevara… e il fantasma di Jules Régis Debray, alcune fonti dicono che è stato questo emissario di Castro ad avere tradito il “Che”… la sentita interpretazione del “Che” di Benicio del Toro è tutto quanto resta negli occhi dello spettatore, ma nemmeno la figurazione dell’uccisione del “Che” riesce a commuovere, tanto è circoscritta a inquadrature (insolitamente) liquide, anche per un funambolo della tele/camera come Soderbergh. Vi è del ciarlatano in chiunque trionfi sulle spoglie di un rivoluzionario autentico.
La sceneggiatura del film (scritta da Peter Buchman e Benjamin A. van der Veen), tratta malamente dai Diari boliviani del “Che”… è un lavoretto di trascrizione abbastanza confuso e il dittico di Soderbergh si chiude nella retorica del pianto plateale… l’eroe è stato ammazzato con le sue illusioni e l’icona o il mito risorge dalle sue spoglie insan-guinate. Il metodo più efficace per conquistare spettatori fedeli e applausi festivalieri è affascinare la loro compiacenza, affogarli nella prolissità estetica (la tessitura filmica) e nella fine dello stupore del rivoluzionario che ha scelto la morte per ascendere al più alto dei cieli, quello della storia dell’infamia. Bisogna essere fuori dal mondo come un politico o come un idiota per credere che l’assassinio del “Che” non è stato un crimine contro l’umanità.
Hasta la victoria siempre!

Pino Bertelli
29 volte agosto 2010

domenica 29 agosto 2010

VIRUS POLITICI PER UN’EUROPA INCONSISTENTE, di Pier Francesco Zarcone


In quell’insieme dinamico di eventi e situazioni ricompresi nel concetto di “storia” i vuoti di potere e/o presenza, che di volta in volta si creano, generano iniziative e movimenti diretti a colmarli. È come se vigesse una ferrea legge fisica. Da qui il formarsi di assetti nuovi (o apparentemente tali) e magari nuovi vuoti. Come è accaduto in Europa dal 1989: caduta del muro di Berlino, implosione dell’Unione Sovietica, fine del blocco politico/militare dell’Est, disgregazione della Jugoslavia e sanguinosa guerra fra gli Slavi del Sud.
L’abbattimento del muro di Berlino fu occasione di giubilo e speranza; cosa normale quando crollano regimi tirannici o autoritari. E comprensibile, seppure sarebbe sempre opportuno riuscire a superare la fascinazione di accadimenti del genere – causa di miopia politica – e concentrarsi sulle loro possibili (e spesso necessitate) conseguenze. Con il suo cinismo clericale – spiacevole ma tante volte espressione di un crudo e disincantato iper-realismo – il nostrano Andreotti aveva vaticinato che un Germania divisa faceva dormire sonni più tranquilli. La sua conclusione non era fatale, ma senza dubbio possibile. Sta di fatto che si è ingenerato un dinamismo proprio nel senso previsto dal nostro immarcescibile politico democristiano. A fronte del vuoto determinato dal crollo del blocco orientale emerge in tutta la sua pienezza l’inconsistenza della cosiddetta Europa unita dell’epoca (e non solo). Nel 1989 si era creata dall’esterno un’occasione d’oro affinché si pianificasse – per lo meno – un concreto processo per la costituzione di un vero soggetto politico europeo, seppure limitato alla parte occidentale del continente. Ciò non è avvenuto. E non solo. Si è concretizzata una situazione che sembra essere più schizofrenica che dialettica: dall’accrocco europeo-occidentale – teoricamente orientato a realizzare un assetto transnazionale basato sui cittadini europei – nulla è pervenuto, nulla è stato fatto, in tale senso e in più si sono favorite a Est le frantumazioni statuali e (peggio ancora) la creazione di Stati etnici o fondati sul dominio del particolarismo religioso. Inoltre si sono avviati la distruzione dello Stato-sociale, la chiusura delle frontiere e il rafforzamento delle pratiche poliziesche.
Circa le frantumazioni statuali e l’avvento di Stati etnico/religiosi si deve distinguere (per quel che serve) fra responsabilità e colpa. La fresponsabilità è dei governi europei occidentali (troppo fantasmatica l’Europa “unita” per attribuirle alcunché); la colpa, invece, è delle popolazioni locali interessate, e delle loro classi politiche del tutto opportuniste, che hanno saputo mescolare “sapientemente” avventurismo e criminalità. Un’entità poderosa come la Germania unita (ed essa lo è davvero) non poteva non cogliere la sua occasione nel quadro generale così creatosi. Fargliene una colpa sarebbe solo ingenuità; la realpolitik è altra cosa. E con questo sia lecito, a chi scrive, mettere in chiaro il suo non essere antitedesco per principio.
La sua grande occasione la Germania l’ha avuta con l’avvio del processo di disfacimento di quella nazione mancata che si chiamava Jugoslavia. Al riguardo ha saputo giocare bene le sproprie carte, oltre a svolgere un ruolo attivo per il precipitare degli eventi (cosa risaputa, evidente e confermata da fonte non sospetta: un intervista data a Usa Today a giugno del 1993 dall’allora Segretario di Stato statunitense Warren Christopher). Con la separazione fra Slovacchia e Repubblica Ceca possiamo definire ormai finito nell’Europa orientale – quand’anche se ne siano accorti in pochi – l’assetto datole dai trattati di Versailles nel 1919/20, a conclusione della I Guerra Mondiale (in quell’area la fine del secondo coflitto mondiale aveva dato luogo solo a modifiche territoriali e a cambi di regimi politici). Assetto in linea di massima non alterato – in termini di soggetti esistenti – a parte la divisione della Germania in due Stati e la federazione coatta con l’Urss di Lituania, Estonia e Lettonia.
Nessun soggetto rilevante in Europa ha operato per impedire o fermare le digregazioni nazionaliste (sanguinosamente atroci nei Blacani), che aprono la porta all’autismo sociale, culturale e storico. Oggi l’area dell’Est è – con i suoi insignificanti mercati nazionali – è terreno di espansione commerciale e finanziaria tedesca, una volta morta l’eventualità anche teorica che un domani si potesse formare un mercato comune balcanico, e magari anche danubiano: cosa che la persistenza di una Jugoslavia unita e non traballante avrebbe potuto far prendere in considerazione (si pensi alla Turchia che a novembre del 1992 si è creato uno spazio economico del Mar Nero).
In più si è prodotta una situazione – al momento in quiescenza, ma potenzialmennte pericolosa – propizia al rinnovo del vecchio intreccio di rivendicazioni territoriali che sembravano appartenere a un passato quasi cinquantenario. Rivendicazioni che coinvolgono a vario titolo Croazia, Serbia, quell’aborto pseudo-federativo che è la Bosnia Erzegovina, Albania, Macedonia, Grecia, Bulgaria, Romania e (perché no?) Turchia. Al momento tutto tace, ma ci sono le premesse affinché un domani ci si torni a scannare.
Non va sottovalutato – anche e soprattutto a seguito dell’intervento Nato in Kóssovo – che, essendo saltato il principio dell’intangibilità delle frontiere nate dalla II Guerra Mondiale – si è aperto un pericoloso precedente per tutti gli Stati europei con problemi di minoranze etnico/religiose o con spinte secessioniste. Situazione aggravata dalla scomparsa di ogni principio di legalità internazionale. Infatti, se per l’Europa occidentale e gli Usa sono andate bene le secessioni della Slovenia, della Croazia, della Macedonia, della Bosnia-Erzegovina croato/musulmana, del Montenegro, del Kóssovo, della Slovacchia, a quale titolo negarne il diritto alle Krajne serbe, alla Bosnia serba, all’Ossezia del Sud o all’Abkhazia? “Ovviamente”, la Cecenia è affare interno della Russia. Non c’è un principio giuridico in opera: c’è solo la forza bruta.
Si potrebbe parlare anche di un altro aspetto: dall’Europa balcanica è venuto un altro segnale su cui non si è adeguatamente appuntata l’attenzione di chi di dovere; e cioè il fallimento di un multiculturalismo “per sommatoria”, e non già per inclusione di elementi diversi inseriti in un comune orizzonte storico/culturale “meticcio”. La multicultura per sommatoria implica sempre il rischio che prima o poi si debba optare tra un settore o un altro, così l’equilibrio precario finisce nello scontro e siamo da capo. Considerati i problemi posti dalla crescente immigrazione in Europa, e considerato che si è ancora ben lungi dal vedere costituita una cittadinanza europea – vale a dire una diffusa coscienza di appartenere a una realtà transnazionale – e anzi si assiste a revivals di regionalismi velleitari e/o egoisti, non è detto che il “virus balcanico” non si diffonda; sia pure con modalità particolari, se determinati e pesanti interessi economici lo richiederanno. E sempre con effetti traumatici e regressivi per coloro che le destre chiamano “la gente”.

martedì 24 agosto 2010

SULLA PROPOSTA DELL'ENNESIMA MANIFESTAZIONE ANTIRAZZISTA, di Stefano Santarelli e Marco Ferrando (quello di Genova)

Una volta all'anno, come il Carnevale di Rio
di Stefano Santarelli

Miei cari,
sicuramente è a voi già noto che il 29 ottobre vi è la proposta dell'ennesima manifestazione antirazzista di cui si discuterà a settembre.
Vi esprimo sinteticamente alcune mie perplessità.
Ottobre è il mese che ormai viene dedicato alle manifestazioni antirazziste e come il carnevale di Rio che si svolge una volta all'anno così anche in Italia una volta all'anno esiste l'usanza di svolgere una grande manifestazione antirazzista tanto per tacitare le nostre coscienze.
Intendiamoci i problemi ci sono: da quelli puramente elementari come la questione della cittadinanza, che vede una legislazione italiana completamente arretrata rispetto agli altri paesi occidentali, fino all'integrazione - ma preferisco il termine rispetto - di altre culture come quella islamica.
Problemi che però non possono però essere risolti con un corteo per quanto questo possa essere significativo.
Infatti in questi anni non è mai stato risolto un solo problema inerente all'immigrazione.
La questione della cittadinanza di suolo per esempio è una battaglia che può essere vinta, ma con una mobilitazione che vada al di là del solito corteo. Con raccolte di firme, tavoli, adesioni pubbliche insomma con una mobilitazione veramente attiva.
Anche perché questa battaglia se non verrà fatta dalla "sinistra" verrà risolta dalla stessa borghesia poiché non vi è niente di rivoluzionario nel dare la cittadinanza di suolo ai bambini che nascono in Italia e oltretutto in fondo gli conviene concederla.
Ora dopo il flop del cosiddetto sciopero generale degli immigrati, fallimento facilmente prevedibile, si vuole proporre uno sciopero generale - questa volta dei lavoratori italiani - in difesa dei diritti degli immigrati.
Ovviamente i lavoratori italiani devono battersi anche per la difesa dei lavoratori immigrati i quali è giusto ricordarlo non sono rappresentati dai sindacati.
Ma in questo momento con un sindacato diviso al suo interno, con una grave crisi politica che investe anche la "sinistra" e con una combattività dei lavoratori italiani molto ridotta per usare un eufemismo mi sembra veramente utopistico chiedere uno sciopero generale in difesa degli immigrati.
Oltretutto bisogna tenere contro che il 16 ottobre c'è anche la manifestazione nazionale indetta dalla FIOM per non parlare della manifestazione del 2 ottobre organizzata dal popolo viola.
Certamente il 29 ottobre ci sarà questa manifestazione probabilmente con una buona partecipazione che verrà spacciata come sciopero generale. Ma ritengo che non sia questa la strada per difendere efficacemente i diritti degli immigrati.
Ciao
Stefano

********
"Uomini che lavorano"  vs. "Interessi del capitale che li sfrutta"
di Marco Ferrando

Cari utopisti rossi,
concordo pienamente con l'analisi di Stefano, ma vorrei spingerla ancora un po in là. Sento oramai la divisione in "categorie" una interpretazione anacronistica rispetto alla forza ed alle energie espresse dal capitale per difendere i propri interessi.
Se anche gli oppressi, gli sfruttati, i venditori di forza lavoro utilizzano le stesse categorie della classe dominante per rivendicare propri o altrui diritti, beh credo che la lotta non modifichi i rapporti di forza, anzi li appiattisca verso una eliminazione del conflitto. Se siamo tutti d'accordo che non ci accontentiamo della "pace dei ricchi", credo che sia necessario ricominciare a ragionare in termini di "uomini che lavorano" e di "Interessi del capitale che li sfrutta".
In sintesi, mi chiedo se abbia senso a questo punto di parlare "immigrati", "lavoratori a progetto", "rom", "musulmani" ecc.… oppure se sia meglio porre poche questioni "trasversali" per le quali i rom, insieme agli immigrati, insieme ai precari, insieme agli operai di Melfi, insieme ai ricercatori universitari... insomma "noi, popolo oppresso" si possano sentire uniti nella lotta.
Ecco: se una manifestazione ha senso (su questo strumento concordo con Stefano) deve poter unire questi soggetti in una unica categoria "umana" di sfruttati e oppressi. La troverei veramente "rivoluzionaria".
Un forte abbraccio a tutti
Marco Ferrando [da Genova]

martedì 10 agosto 2010

GERMANIA (ZONA-EURO) E CINA (ZONA YUAN), di Pier Francesco Zarcone

IN ITALIANO
Questa nostra epoca – in cui soffiano venti economici tumultuosi e spesso imprevedibili – potrebbe essere considerata dai posteri un’epoca di transizione rispetto agli “equilibri” (squlibrati) di oggi, che si basano su tre “zone” economico/geo/politiche definibili in base alle rispettive monete: zona-dollaro (il cui centro sono gli Usa), zona-euro (il cui vero centro è la Germania) e zona-yuan (di cui la Cina è il centro e il tutto). In ciascuna di queste zone il centro – portatore di interessi propri - ha le sue strategie, al momento con un duplice scopo: fare fronte all’attuale crisi economico/finanziaria dalle tre facce – mondiale, continentale, nazionale – e possibilmente uscirne; e poi espandere la rispettiva influenza economica e politica. Naturalmente lo scenario di queste strategie è planetario.
Almeno per le ultime due zone un ruolo strategicamente essenziale – in quanto funzionale a varie iniziative e combinazioni – va attribuito all’esistenza dell’euro; nonostante il caos politico/istituzionale dell’Unione Europea. Mettiamo da parte i disastri microeconomici, ma anche macroeconomici derivanti del modo di impiantazione di questa moneta, e guardiamo a certi suoi effetti a vasto raggio.
Tutti sappiamo che l’euro durerà fino a quando servirà all’economia tedesca; e poiché l’euro serve ancora alla Germania (nonostante le turbolenze provocate e provocande dalle economie dell’Europa meridionale) ebbene ce lo dobbiamo tenere. La Germania è il centro della zona-euro per il semplice fatto di avere l’economia più forte rispetto agli altri Stati-partners monetari. Diciamo subito che “più forte” implica un giudizio di relazione, e non una valutazione assoluta. Ne riparleremo.
L’interesse tedesco a permanere nella zona-euro non dipende solo dall’importanza degli inerenti mercati per le sue esportazioni, ma soprattutto dipende dalle opportunità che ciò offre per la realizzazione di progetti strategici il cui punto di arrivo è molto ambizioso ma non impossibile: ridisegnare la mappa degli equilibri economico/finanziari mondiali. E senza l’euro – cioè solo con il vecchio marco, o con un eventuale futuro nuovo marco – la Germania non disporrebbe della dimensione necessaria per muoversi negozialmente all’interno del predetto assetto monetario tripolare oggi vigente nel mondo.
Il progetto tedesco consiste nel crearsi un ruolo propulsore nella creazione di una via d’uscita - innanzi tutto a vantaggio della propria economia – dall’odierno predominio anglo-sassone sull’economia mondiale. Preliminare sul piano logico, e funzionale a ciò, sono l’egemonia tedesca sull’euro e il minor livello possibile di spesa per il sostegno alle disastrate economie ellenica, iberiche e – domani forse – italica. Tanto più che se i mercati del Sudeuropa hanno ancora la loro importanza per le esportazioni germaniche, tuttavia non sono più mercati fondamentali per l’economia tedesca. Si tenga però presente che le banche tedesche hanno effettuato massicci acquisti di titoli di Stati europei, anche di quelli a economia debole; di modo che un crollo di tali economie costituirebbe una perdita di notevole entità. Quando l’ex Ministro degli Esteri Joshka Fischer ha di recente lamentato che l’euro non sia per la Germania l’elemento di un progetto europeo, bensì uno strumento per l’economia tedesca, ha solo dimostrato di non avere appreso molto dagli anni del suo giovanile sinistrismo.
A chi si volge primariamente oggi lo sguardo strategico tedesco? Alla Cina come sbocco per l’esportazione e alla Russia per le forniture energetiche. Cosa importante è che questi due paesi non deteriorino più di tanto le loro relazioni con gli Usa: in tal modo, la Germania non dovrà effettuare scomode scelte fra essi e gli Stati Uniti.
Di particolare importanza è il mercato cinese, e importante per la Cina è l’euro (come dimostrano i suoi acquisti di titoli finanziari di Stati di questa zona), a motivo del ruolo di contrappeso rispetto al dollaro che esso svolge per l’economia cinese. Poichè i cinesi guardano alle cose concrete, e l’Ue è un guazzabuglio di 27 Stati ed economie male amalgamate, ecco che l’interesse cinese per l’euro non può che dare luogo all’individuazione di un partner europeo che sia serio, solido e affidabile: ed ecco che le reazioni privilegiate della Cina in Europa non possono che essere con la Germania. Si tratta di mero realismo.
Uno dei segni indicatori della convergenza di interessi fra la Germania e la Cina (seppure non solo di ciò) – magari poco considerato – è la presenza militare tedesca in Afghanistan. Qualcuno dirà: e che c’entra l’Afghanistan? La risposta è semplice: anche per l’economia cinese l’approvvigionamento energetico è vitale, e non si dimentichi che già la Cina – a seguito dell’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003 - ha dovuto ingoiare lo stop al suo accesso autonomo al petrolio iraqeno. Per motivi di politica interna Pechino ha deciso di privilegiare l’approvvigionamento energetico dalla Russia e dall’Asia Centrale, regione per il cui controllo è fondamentale il controllo dell’Afghanistan.
D’altro canto, se Pechino dovesse optare in favore dell’approvvigionamento dalle risorse energetiche dei mari della Cina meridionale questo - aumentando enormemente l’importanza economica delle sue regioni costiere rispetto al resto delle regioni continentali (importanza che è già enorme) – sarebbe politicamente pericoloso in quanto suscettibile di innescare sul piano politico spinte separatiste in un’area che a tutt’oggi non ha bisogno del resto del continente cinese. Un altro pericolo verrebbe dalle implicazioni militari conseguenti alla scelta in parola; infatti si creerebbero le condizioni per realizzare il sogno per niente occulto dei responsabili della marina cinese: la creazione di una grande flotta militare. E in questo caso gli Stati Uniti – dove al Pentagono già si elaborano i piani di guerra con la Cina – starebbero a guardare?
Qui va fatto un inciso. Come ieri per la Gran Bretagna, oggi per gli Usa – da buona entità imperialista – l’assoluta egemonia sui mari è di vitale importanza per ragioni economiche. Il suo mantenimento è un tema sensibilissimo: una specie di nervo scoperto. Si ricordi che agli inizi del secolo scorso a rendere inevitabile – prima o poi - lo scontro fra Germania e Gran Bretagna fu l’inizio del piano tedesco per formare una flotta militare che fosse all’altezza di quella britannica. Già in quest’ambito l’orizzonte è pieno di nubi, per la recentissima notizia della messa a punto cinese di un nuovo missile terra-mare che, per la sua potenza e gittata, costringerà gli Stati Uniti a rivedere tutta la loro organizzazione militare in Estremo Oriente.
Nelle relazioni cino-statunitensi incombono due elementi non proprio positivi: la consistente posizione creditizia cinese a carico dell’economia Usa, e il fatto che la Cina – a differenza di quel che accadeva con l’Urss – è sempre più in grado (a parità di situazione) di fare concorrenza agli Stati Uniti in campo economico.
Ma torniamo alla Germania. In tutto questo complesso intreccio i progetti tedeschi devono fare i conti con vari fattori, fra cui quelli inerenti a certe debolezze della loro economia. Si tratta cioè di un’economia basata sulle esportazioni in modo precipuo e con scarsi profili di innovazione nell’ambito produttivo da almeno mezzo secolo. Infatti, se l’industria tedesca è in grado di fornire eccellenti prodotti automobilistici, chimici, meccanici etc. alle ecomnomie in fase di industrializzazione, poco e niente può offrire alle economie terziarizzate, essendo sostanzialmente assente nel campo dei servizi.
Il seguito alla prossima puntata; che ci sarà, poiché con tutta evidenza sono in atto eventi causali che (come al solito) saranno produttivi di diversi effetti, e taluni emergeranno determinando il corso delle cose. Tanto più che alla difesa dell’euro e alla riduzione dell’importanza del dollaro (di cui si teme il collasso) ci sono anche capitali arabi, per quanto ancora non sia visibile una loro precisa strategia, al di là dell’attuale acquisto di pacchetti azionari vari. Anche qui staremo a vedere.

EN ESPAÑOL
ALEMANIA (ZONA EURO) Y CHINA (ZONA YUAN)
por Pier Francesco Zarcone

Nuestra época – en la cual soplan vientos económicos tumultuosos y a veces imprevisibles – podrá ser considerada por la posteridad como una era de transición respecto de los “equilibrios” (desequilibrados) de hoy, que se basan en tres “zonas” económico-geo-políticas definibles en base a sus respectivas monedas: la zona dólar (cuyo centro son los EEUU), la zona euro (cuyo centro es Alemania) y la zona yuan (de la cual China es el centro y el todo). En cada una de ellas el centro – portador de intereses propios – posee sus estrategias, actualmente con un doble objetivo: hacer frente a la actual crisis económico-financiera con sus tres aspectos – mundial, continental y nacional – y, si es posible, salir de la misma; y luego expandir la respectiva influencia económica y política. Obviamente el escenario de tales estrategias es planetario.
Al menos para las dos últimas zonas, un rol estratégicamente fundamental – en cuanto funcional a varias iniciativas y combinaciones – es atribuible a la existencia del euro, no obstante el caos político-institucional de la Unión Europea. Dejemos de lado los desastres micro y también macro económicos derivados del modo de instauración de esta moneda y observemos algunos de sus efectos a largo alcance.
Todos sabemos que el euro durará hasta que le sea útil a la economía alemana; y dado que el euro aún le hace falta a Alemania (a pesar de las turbulencias provocadas y por provocar por las economías de la Europa meridional), por ahora hay euro para rato. Alemania es el centro de la zona euro por el simple hecho de tener la economía más fuerte respecto de los demás Estados-socios monetarios. Aclaremos inmediatamente que “más fuerte” implica un juicio de relación, no una evaluación absoluta. Volveremos sobre el tema.
El interés alemán por permanecer en la zona euro no depende solamente de la importancia de los inherentes mercados por sus exportaciones, sino sobre todo de las oportunidades que brinda para la realización de proyectos estratégicos cuyo punto de arribo es muy ambicioso pero no imposible: rediseñar el mapa de los equilibrios económico-financieros mundiales. Y sin el euro – es decir solo con el viejo marco o con un eventual nuevo marco – Alemania no podría disponer de la dimensión necesaria para negociar dentro del mencionado status monetario tripular vigente actualmente en el mundo.
El proyecto alemán consiste en colocarse en un rol propulsor en la creación de una vía de salida – sobre todo obteniendo ventajas para su propia economía – del actual predominio anglosajón sobre la economía mundial. Es lógico que para ello, es necesaria la hegemonía alemana sobre el euro y el menor nivel posible de dispendio para sostener las maltrechas economías helénica e ibérica y – tal vez mañana – itálica. Sobre todo teniendo en cuenta que, si bien los mercados del sur de Europa tienen todavía cierta importancia para las exportaciones alemanas, no son más mercados fundamentales para su economía. Es necesario considerar, sin embargo, que los bancos alemanes han efectuado macizas adquisiciones de títulos de estados europeos, incluidos los de economías débiles; de manera que un derrumbe de esas economías constituiría una pérdida de notable entidad. Cuando el ex ministro del Exterior Joshka Fischer ha lamentado recientemente que el euro no sea para Alemania el elemento de un nuevo proyecto europeo, sino un instrumento para su economía, ha solamente demostrado no haber aprendido mucho de su juvenil pasado izquierdista.
¿Hacia donde se dirige principalmente hoy la mirada estratégica alemana? Hacia China como salida para sus exportaciones y hacia Rusia para sus provisiones energéticas. Es importante entonces que estos dos países no deterioren demasiado sus relaciones con EEUU: de tal manera Alemania no deberá realizar una incómoda elección entre esos dos países y EEUU.
De particular importancia es el mercado chino, e importante para China es el euro (como demuestran sus adquisiciones de títulos financieros de estados europeos), por el rol de contrapeso respecto al dólar que el euro ejerce para la economía china. Dado que los chinos apuntan a cosas concretas y la Unión Europea es un embrollo de 27 Estados y economías mal amalgamadas, he ahí que el interés chino por el euro debe necesariamente localizar un partenaire europeo serio, sólido y confiable, por lo tanto las relaciones privilegiadas de China en Europa no pueden ser con nadie más que con Alemania. Se trata de mero realismo.
Una de las señales indicadoras de la convergencia entre Alemania y China (aunque no solamente de eso) – tal vez poco considerada – es la presencia militar alemana en Afganistán. Alguien podría decir: ¿y qué tiene que ver Afganistán? Las respuesta es simple: también para la economía china el aprovisionamiento energético es vital, y no hay que olvidar que China – después de la invasión estadounidense a Irak en 2003 – tuvo que tragarse el alto a su acceso autónomo al petróleo iraquí . Por motivos de política interna Pequín ha decido priorizar el aprovisionamiento energético desde Rusia y Asia Central, regiones para cuyo control es fundamental el control de Afganistán.
Por otra parte, si Pekín tuviera que optar en favor del abastecimiento de recursos energéticos de los mares de China meridional, esto – aumentando enormemente la importancia económica de sus regiones costeras respecto del resto de las regiones continentales (importancia que es ya enorme) – sería políticamente peligroso en cuanto susceptible de desencadenar ambiciones separatistas en un área que hoy por hoy no tiene necesidad del resto de la China. Otro peligro podría llegar de las implicaciones militares de lo anterior; en efecto se crearían las condiciones para realizar el sueño no tan secreto de los responsables de la marina china: la creación de una gran flota militar. Y en este caso, EEUU – donde en el Pentágono ya se están elaborando planes de guerra con China – se quedaría mirando desde afuera?
Aquí es necesaria una apostilla. Como en el pasado para Gran Bretaña, hoy para EEUU – como buen país imperialista – la absoluta hegemonía sobre los mares es de vital importancia para las razones económicas. Mantenerla es un tema muy sensible: una especie de nervio expuesto. Es necesario recordar que, a principios del siglo pasado, lo que hizo inevitable el choque entre Alemania y Gran Bretaña fue el inicio del plan alemán para formar una flota militar que estuviera a la altura de la británica. Ya en este ámbito, el horizonte está lleno de nubes, por la reciente noticia de la puesta a punto china de un nuevo misil tierra-mar que, por su potencia y alcance, obligará a EEUU a revisar toda su organización militar en Extremo Oriente.
Sobre las relaciones chino-estadounidenses se ciernen dos elementos no muy positivos: la consistente posición crediticia china sobre la economía de EEUU y el hecho de que China – a diferencia de lo que ocurría con la URSS – está cada vez más en condiciones (a paridad de situaciones) de competir con EEUU en el terreno económico.
Pero volvamos a Alemania. En toda esta compleja trama, los proyectos alemanes tienen que tener en cuenta varios factores, entre otros los inherentes a aspectos débiles de su economía. Se trata de una economía basada principalmente en las exportaciones y con escasos perfiles innovadores en el ámbito productivo desde hace por lo menos medio siglo. En efecto, la industria alemana está en condiciones de ofrecer excelentes productos automotores, químicos, mecánicos, etc. a las economías en fase de industrialización, pero poco tiene para proponer a las economías terciarizadas, siendo prácticamente ausente en el terreno de los servicios.
Continuará en un próximo capítulo. Que llegará inevitablemente, ya que es evidente que se están verificando eventos causales que (como es normal) producirán diferentes efectos y algunos emergerán determinando el curso de las cosas. Más aún considerando que en defensa del euro y de la reducción de la importancia del dólar (del cual se teme el colapso) trabajan también capitales árabes, aunque por ahora no sea visible una precisa estrategia de los mismos más allá de la actual adquisición de paquetes accionarios varios. También aquí está por verse…

[Traducción: Enzo Valls]

RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

* * *

a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

* * *

a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

* * *

a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

* * *

a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.